Sono grande e sono forte. Nessuno di loro è un avversario degno di me. Divorerò la loro carne e berrò il loro dolce sangue e triturerò le loro fragili ossa tra i miei denti. (Caitlín R. Kiernan)
I miei nemici si definiscono (come disse il drago) attraverso di me. Quanto a me, potrei sterminarli in una notte sola, tirar giù le grandi travi intagliate e seppellirli tutti nella casa dell'idromele, insieme ai loro topi, boccali e patate - tuttavia mi trattengo. Non sono cieco all'assurdità. La forma è funzione. Come potremo chiamare il Flagello di Hrōðgār una volta che Hrōðgār sia stato flagellato?
Io ho visto - io incarno - la visione del drago: il vuoto assoluto, definitivo. Molto tempo prima avevo concepito l'universo come ciò-che-non-è-mia-madre, e vi avevo scorto il mio posto: un buco. Eppure esisto, ne ero certo. Allora solo io esisto, dissi. O io o lui. Che allegria, che splendida agnizione! (La grotta, la mia grotta è una grotta gelosa). Poiché perfino la mamma non mi ama per me stesso, la mia sacra specificità (eh eh oh ah), ma per la mia natura di figlio, il fatto che le appartengo, per lo spazio che occupo nell'aria come prova tangibile del suo potere. L'ho messa da parte - con dolcezza, sollevandola per le ascelle come una bambina - dimostrando che non ha potere fuorché quello che le concedo per capriccio momentaneo. Altresì potrei mettere da parte il regno di Hrōðgār e tutti i suoi vassalli se, per amor del desiderio, non ponessi limiti ai miei desideri. Se uccidessi l'ultimo Scyldingas, per che cosa vivrei? Dovrei trasferirmi.
L'arpa sospirava, il vecchio cantava con voce di bimbo. [...] Raccontò di una faida tra due fratelli che divise il mondo tra luce e oscurità. E io, Grendel, ero il lato oscuro. La razza nefasta che Dio aveva proscritto. Gli credetti. Tanto era il potere dell'arpa del Poeta! Mi si contorse la faccia, le lacrime scendevano lungo il naso e sfregavo gli occhi piangenti coi pugni, anche se per farlo dovevo strizzare con il gomito il cadavere, la prova che entrambi eravamo proscritti, oppure nessuno dei due, che i fratelli non erano mai vissuti, né il dio che li aveva giudicati.
Man faceva tanto frastuono. Man bellode on glæmōd. Man ha fatto male, hearmode me, hearmode, hearmode mīn orecchio.
Ero avido e debole, figliolo, e lei era così perfetta. Ma non potevo vivere con la vergogna. Non più di quanto potessi uccidere Grendel con le mie mani. Sì, era mio figlio. Grendel era mio! Oh, che mostruosità sono i figli della debolezza. (Hroðgar, La leggenda di Beowulf: Il videogioco)
Grendel è il più fascinoso dei mostri epici. (David Quammen)
Grendel non è solo micidiale ma affamato, un carnivoro con un appetito gagliardo per la carne umana. È un orco cannibale di sembianze umane come Polifemo, o è uno zannuto bestione d'altro genere? La discendenza di Grendel dalla stirpe di Caino fa pensare a una creatura antropomorfa, e la sua anatomia è lasciata nel vago. (David Quammen)
Grendel si chiamava quella cupa creatura, l'infame abitatore della marca di quella terra, lui che occupava le brughiere, la fortezza degli acquitrini e, infelice, da lungo tempo viveva nella casa della stirpe dei mostri, poiché il Creatore lo aveva esiliato assieme alla razza di Caino. Quello spargimento di sangue, Caino che uccideva Abele, l'Eterno Signore lo vendicò, sì, ed egli non ebbe gioia alcuna da quell'atto di violenza: per quel delitto Dio lo allontanò e bandì dall'umanità. Nacquero da lui tutte le razze malvagie, gli orchi e gli elfi e le figure spettrali che escono dall'inferno; e i giganti, anche, che per lungo tempo combatterono contro Dio - e per questo egli diede loro la ricompensa che meritavano.
E ora con Grendel, col feroce uccisore, io mi misurerò, da solo contro l'orco. Ora, quindi, voglio chiederti, Principe dei gloriosi Danesi, difensore degli Scylding, quest'unico dono: che tu non neghi, protettore dei guerrieri, nobile signore delle genti, poiché di lontano fino a qui io giunsi, che io soltanto, e questa fiera compagnia di uomini, questa impavida compagnia, liberiamo Heorot. Ho anche appreso che questo feroce uccisore, nella sua natura selvaggia, non si cura delle armi. Anch'io allora sdegnerò (e per questo mi ami Hygelac, il mio capo e signore!) di portare con me, in battaglia, la spada o l'ampio scudo dalle borchie gialle; perché con la mia stretta io afferrerò il nemico e con lui ingaggerò una lotta mortale, odio contro odio - e al giudizio del Signore si presenterà colui che la morte coglierà. (Beowulf)
Per il mio cuore è una pena rinarrare ad altri uomini quali umiliazioni, qui a Heoot, quali tremendi atti di malvagità, con l'odio nel cuore, Grendel mi abbia inflitto e abbia compiuto contro di me. Si è ridotta la compagnia nella mia sala, ridotti sono i ranghi dei miei guerrieri; il Fato li ha trascinati tra le grinfie atroci di Grendel. Dio (soltanto Lui) potrebbe facilmente trattenere quel nemico selvaggio dal compiere le sue azioni malvagie! (Hroðgar)
[...] quell'agente del male non poteva toccarlo nessuna delle terrene spade guerriere, nessun oggetto, pur eccellente, fatto di ferro; non era possibile, perché lui aveva lanciato un incantesimo su ogni arma vittoriosa e su ogni lama. In quel giorno della sua vita terrena, il fato avverso aveva stabilito che lontana se ne sarebbe andata la sua anima, che lontano, verso il regno dei demoni, avrebbe viaggiato quello spirito straniero. Ora si rese conto, lui che prima aveva arrecato alla razza degli uomini molti dolori al cuore e molti torti - una faida con Dio egli aveva - che la potenza del suo corpo non gli avrebbe giovato, perché il valoroso congiunto di Hygelac lo serrava al braccio: odiosa all'uno era la vita dell'altro. Un acutissimo dolore al corpo ora pativa quel feroce uccisore e tremendo; una gravissima ferita gli apparve sulla spalla; i tendini si strapparono, scoppiarono le giunture delle ossa. A Beowulf fu concesso il trionfo nella lotta; di là, adesso, deve fuggire Grendel, colpito a morte, fuggire e nascondersi sotto i declivi delle paludi, verso i luoghi privi di gioia dove viveva. In quel momento seppe, con piena certezza che la fine della sua vita era giunta e che contate erano le ore dei suoi giorni. Terminato era quel combattimento mortale, compiuto era il desiderio dei Danesi.
Al limite della foresta, Grendel digrigna i denti e si copre le orecchie, mentre il suo scheletro scricchiola e le sue articolazioni schioccano. Il dolore e la rabbia suppurano dentro di lui come pus sotto la pelle infettata e, come un'infezione, il corpo si gonfia e s'ingrossa, raggiungendo rapidamente una dimensione doppia rispetto al normale. Una magia che non capirà mai, una maledizione segreta, e ben presto la sua testa sfiora i rami che solo pochi minuti prima pendevano alti sopra di lui. Se solo non finisse qui, se solo potesse continuare a crescere tanto da diventare così alto da poter strappare l'indifferente luna dal cielo notturno e lanciarla sul tetto di Heorot. Allora cadrebbe il silenzio, un silenzio che potrebbe durare per sempre, o per quel tanto di eternità che servirebbe a lui, e il luminoso occhio della luna non lo irriderebbe più dal suo cammino tra le nuvole.
Da qualche parte nelle sue vene scorrerà ancora sangue di gigante, ma Grendel è un essere bastardo e rozzo, una disgrazia, impuro, e gli Jotnar, i giganti, hanno di continuo dimostrato di detestarlo. Non gli hanno mai rivolto la parola né hanno mai risposto ai suoi appelli, non si sono mai degnati di offrire il più piccolo sollievo alla sua sofferenza.
Geme in modo penoso e stringe il cranio deforme e infermo, coprendosi le orecchie sformate nel tentativo di escludere gli strazianti suoni dei festeggiamenti che arrivano come neve martellante e rombante da Heorot. Sebbene il palazzo e la torre sulla scogliera siano solo un bagliore lontano, le pareti e gli spazi della caverna hanno qualcosa di magico, una particolare qualità che esalta quei rumori distanti e li trasforma in un clamore assordante. E così le orecchie di questa specie di troll fischiano e dolgono, fatte a pezzi senza pietà dal canto degli uomini di Hrothgar proprio come la riva viene ridotta in sabbia dalle onde.
La creatura stringe i pugni e fissa il gelido cielo notturno dall'ingresso della caverna, implorando senza parole Mani, il dio della luna bianca, figlio del gigante Mundilfari, di por fine una volta per tutte al tremendo rumore. «Io non posso farlo», spiega la creatura al cielo. «Mi è vietato. Mia madre... lei mi ha detto che loro sono troppo pericolosi.» E poi immagina una grandinata di pietre e di fiamme argentate lanciate dal gigante luna, che cadono dal cielo per cancellare per sempre le odiose e ingiuriose voci degli uomini. Ma il canto continua e l'indifferente luna pare schernire il tormento della creatura.
Nel suo sogno, Grendel, seduto davanti alla caverna, sta guardando il tramonto. Non è inverno, ma metà estate, e l'aria è calda e sa di erba e di dolce. Il cielo sopra di lui è acceso dalla ritirata di Sol e a est le ombre scure di un lupo del cielo la stanno ricorrendo. Grendel tenta di ricordare i nomi dei due cavalli che, ogni giorno, tirano il cocchio del sole attraverso il cielo, i nomi che sua madre gli aveva insegnato tanto tempo fa. Ha nella testa un dolore tremendo, bruciante, come se fosse morto nel sonno e il suo cranio si fosse riempito di vermi affamati e di scaragaggi rosicchianti, come se cornacchie grigie gli becchettassero avidamente gli occhi e gli infilassero i becchi acuminati nelle orecchie. Ma anche nel sogno, sa che quel dolore non è provocato dai morsi di vermi e dalle pugnalate di becchi. No. Il dolore arriva dalle finestre e dalle porte aperte del palazzo di Heorot, attraversa il paese ammorbando il vento e gettando ombre ancora più profonde tra i rami della vecchia foresta. È un canto crudele intonato da una donna crudele, una nenia che lui sa essere stata foggiata proprio per aprirsi un cunicolo nella sua testa e farlo soffrire e rovinargli la pura gioia di una splendida serata estiva. E Grendel sa anche che il sole in questo giorno non sta sfuggendo alle fauci sbavanti del lupo Skoll, ma piuttosto a quel canto. Quel canto che potrebbe squarciare il cielo e fendere le pietre e far evaporare i mari.
Ah, Grendel! [...] Tu li migliori, ragazzo mio! Non te ne rendi conto? Li stimoli! Li costringi a pensare e pianificare. Ispiri in loro poesia, scienza, religione, tutto ciò che li rende ciò che sono, finché dureranno. Tu sei, per così dire, il presente bruto attraverso cui imparano a definirsi. L'esilio, la cattività, la morte da cui rifuggono (la prova lampante della loro mortalità, del loro abbandono) e tu fai in modo che lo riconoscono, che l'abbraccino! Tu sei l'umanità, o la condizione umana: inseparabile come lo scalatore e la montagna. Se ti allontani verrai immediatamente sostituito. Di presenti bruti ce ne sono fin che vogliono. Bando ai sentimentalismi, dunque. Se l'uomo è l'irrilevanza che t'interessa, non'abbandonare! Spaventalo finché non non raggiungerà la gloria! Non c'è differenza alla fin fine: materia e movimento, semplice e complesso. Non fa alcuna differenza. Morte, trasfigurazione. Cenere in cenere, e bava in bava, amen. (Il drago)
È il momento, fratello. Che tu ci creda o no. Puoi uccidere il mondo, mutar pianure in pietre, trasformare d'incanto la vita in Io ed essa, ugualmente le forti radici fenderanno la tua caverna e la pioggia la purificherà: il mondo esploderà di verde, lo sperma sgorgherà nuovamente. È una promessa. Il tempo è la mente, la mano che fa (dita sulle corde dell'arpa, spade d'eroi, gli atti, gli occhi delle regine). E con essa ti uccido. (Beowulf)
Grendel, Grendel! Tu crei il mondo sussurrando attimo per attimo. Non te ne avvedi? E non importa se ne fai una tomba o un giardino di rose. (Beowulf)
Io, Beowulf, ho ucciso una tribù di giganti nelle Orchadi, frantumato il cranio di serpenti di mare. E questo... questo vostro troll non vi darà più disturbo.
La creatura non ha né spada, né armatura. E io non ho armi capaci di abbattere un mostro. Combatteremo alla pari. E sarà il Fato a decidere.
Molti valorosi sono venuti a gustare l'idromele del mio signore. E molti hanno giurato di affrancare la sua reggia dal nostro incubo. Ma al mattino, di costoro non rimaneva che sangue da pulire sul pavimento, sulle panche e sui muri.
A Grendel, l’esilio è toccato in eredità congenita e millenaria, stabilita direttamente da Dio per i discendenti del fratricida Caino e, in generale, per le escrescenze fisiche e sociali: i Deformi, le creature dell’eccesso e della privazione. Dal diritto germanico e dalle saghe sappiamo che spaventosa punizione (un’esecuzione complicata e differita) fosse l’esilio: la «cacciata nel bosco» (skóggengr) e la condizione del «senzapace» (friðlauss), espulso dal tessuto sociale. Non occorre molta immaginazione per capire che non doveva trattarsi di una spietatezza soltanto letteraria.
Anche per via di tanta tenebra, Grendel si vede assai poco, e sempre per lampi e per dettagli: gli occhi fiammeggianti, la bocca e i denti insanguinati, il bizzarro guanto di pelli di drago. Soltanto una sua parte, da cui è difficile ricostruire il resto del corpo, può venire esaminata con agio; e anche quella viene sottratta prima del tempo. È il braccio che gli ha strappato Bēowulf: una zampa smisurata, da cui sbucano raccapriccianti artigli di ferro. Grendel è dunque un Demone massiccio e solido, un Orco, non uno spettro (gāst). Un Diverso, e tuttavia un Simile. Di una sua infelice, parodica, criminale umanità parlano infatti gli appellativi (secg, rinc, sceaða). Altre definizioni puntano invece verso una parziale coinfluenza con le rappresentazioni altomedievali del Demonio Grendel è forse il personaggio dotato di maggiore pathos e di più forte presenza nel poema. Ha progetti, voglie, aspettative, benché tutti insani e frustrati. Ha paure, e una voce (inarticolata?) che urla una lugubre «canzone» di pena. La sua morte, come poi la morte di Bēowulf, è trattata come un’«amputazione» violenta della vita dal corpo, di cui la mutilazione fisica è soltanto la figura visibile.
Come lo sarà il Drago, Grendel è un protagonista e una manifestazione della notte. Una notte «cupa» (wan) che lo occulta come le fitte nebbie della sua palude.
Grendel non ha né patria né padre, i due connotati canonici dell’identificazione. Non partecipa della cultura (non sa usare le armi). Calpesta il diritto. Non accetta le regole della convivenza (non paga il wergild). È incapace di entrare nel sistema politicoeconomico degli scambi (non può avvicinarsi al trono, simbolo del patto di dedizione reciproca dei vassalli e del re). E soprattutto è «amputato» (prima di esserlo di un braccio) della parte più importante dell’esperienza, l’unica che renda la vita degna di essere vissuta.
Se Bēowulf è uno straniero da oltremare e forse «una spia», come dice il guardacoste danese, Grendel e sua madre sono definiti subito e con grande chiarezza come Esseri dell’Altrove, Creature di Fuori. Appartengono, cioè, a un paese diverso dal Mondo di Mezzo abitato dagli uomini. Forse allo stesso Altrove da dove vengono tutti i nemici, il serpente della laguna e il drago (lo Jǫtunheim della mitologia nordica).