Glenn Warren Most (1952 – vivente), filologo classico e accademico statunitense.

Da Il risveglio del sublime

Corriere della Sera, 19 luglio 2007.

  • Il passo per trasformare l'opera in un quadro astratto è tanto breve, che potrebbe compiersi nello sguardo di un osservatore miope che si avvicinasse alla tela senza occhiali. Ci si potrebbe forse chiedere che cosa avrebbe visto il notoriamente miope Mark Rothko se avesse guardato ad occhio nudo, senza i suoi occhiali spessi, il monaco sulla spiaggia del quadro di Friedrich: senz’altro qualcosa di non molto dissimile dalla sua opera Senza titolo del 1969. Senza voler certo sostenere che lo sviluppo dell'arte contemporanea sia dovuto alla miopia dei suoi protagonisti, quest'immagine può aiutare a suggerire che la straordinaria originalità dell'arte di Rothko deriva dalla sua radicale rielaborazione della tradizione della pittura sublime fiorita almeno un secolo prima di lui. Rothko utilizza a questo scopo tre ingegnosi espedienti. Innanzitutto, rifiuta di rappresentare oggetti identificabili – si tratti di monti o di spettatori; di conseguenza, richiama l'attenzione di chi osserva non più sulla scena rappresentata, rispetto alla quale la tela svolgerebbe la funzione di un vetro trasparente, ma sulle qualità pittoriche della tela stessa, sulla grande brillantezza dei colori, sulla cura del dettagli e sulla sottigliezza della pennellata. Le altre innovazioni sono meno evidenti, ma non per questo meno significative. La prima è la verticalizzazione della tela, che permette allo spettatore di prendere coscienza della propria corporeità nel momento in cui si pone davanti al quadro: invece di muovere semplicemente gli occhi a destra e a sinistra, è costretto a far spaziare lo sguardo in alto e in basso e ad entrare quindi in modo più dinamico e più fisico nel processo di osservazione. Infine, Rothko volle che questi quadri fossero osservati molto da vicino, più esattamente dalla stessa distanza dalla quale erano stati dipinti: in questo modo, l'osservatore viene circondato da larghe bande di colore che fuggono in tutte le direzioni dai limiti del proprio ristretto campo visivo. Questi quadri sul sublime parlano davvero del loro sublime autore, Mark Rothko, il quale, invitando l'osservatore ad identificarsi con lui, lo rende quasi coautore delle sue opere. In un mondo senza dio, come quello attuale, il solo sublime possibile è quello incarnato dal soggetto umano eroico, o tracotante che sia. 
  • Rothko condusse altresì vari studi sulla tradizione pittorica che lo aveva preceduto: è significativo rilevare che, proprio secondo la sua interpretazione implicita, il quadro di Friedrich sopra ricordato non intendeva rappresentare un monaco sulla riva, ma la relazione reciproca tra macchie di colore. In realtà, una parte dei più straordinari lavori di Rothko può essere ricondotta alla rielaborazione da parte del pittore della tradizionale raffigurazione paesaggistica, che presenta due o tre strisce di colore in corrispondenza del cielo, del mare (o del paesaggio lontano) e della spiaggia (o della terra più prossima). Ciò non significa, senza dubbio, che autori come Friedrich e Turner abbiano rivolto la loro attenzione solamente al contrasto fra luminosità o fra bande di colore; ma, dal punto di vista del sublime lucreziano di Rothko, qualunque soggetto dipinto da tali artisti è stato al più un pretesto per esperimenti sul colore e semmai un equivoco sulle vere possibilità dell'arte. Se, infatti, come ebbe a sostenere Kant nella sua terza Critica, la mente umana andava riconosciuta come il luogo d'elezione del sublime, che utilità poteva esservi nella rappresentazione di qualsivoglia oggetto esterno? Al più, manteneva ragion d'essere solo un gioco di colore nel quale l'osservatore umano potesse spaziare e perdere quasi se stesso, per poi riscoprirsi.  
  • Mark Rothko indicò una via che il sublime artistico di Longino sarebbe stato in grado di seguire solo trasformandosi in una versione lucreziana, cioè, più precisamente, portando la tendenza all'astrazione di Turner oltre il limite per emanciparsi altresì dal vincolo della rappresentatività, puntando sulla pura luminosità e sulla qualità pittorica del colore, negando all'osservatore una comoda estraneità all'opera. Una tale operazione risulta assai più semplice da realizzare nel campo pittorico che in quello fotografico, dove la preponderanza dell'oggetto rappresentato si è rivelata molto più difficile da intaccare.

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