Più che un genere, Dracula è ormai una dimensione. Basti pensare al fatto che nel corso dei nostri tetri carnevali, accanto a fatine e moschettieri non manca mai il marmocchio con la maschera dentuta del Conte Vampiro e magari un emblematico rivolo rosso sul mento; e gli Alleati, durante la seconda guerra mondiale, hanno pensato bene di battezzare "Operazione Dracula" una loro sanguinosa e devastante offensiva in Birmania.
Le caratteristiche fisiche del Vampiro non sono desunte direttamente dalla letteratura; o, per meglio dire, letteratura orale e scritta avevano, da secoli, fissato e imposto la fisionomia del vampiro, passandola in retaggio al teatro, ai testi "scientifici", compresi quelli di psichiatria ottocentesca (nei quali i casi di "vampirismo" sono frequentissimi), ai manuali religioso-penitenziali. Stoker ha tracciato un "ritratto dal vero", come del resto imponevano le norme, allora vigenti, del realismo, le quali trascuravano il fatto che la maniera di vedere il mondo è in larga misura culturale; in altre parole, Stoker ha copiato un modello in carne e ossa, sì, ma prefabbricato dalla letteratura e da una tradizione a sua volta condizionata da quella. Il modello si chiamava Henry Irving, era suo grande amico, faceva l'attore, era dotato di voce "sibilante e terribile" e si era specializzato nella versione per le scene di Frankenstein.
A Stoker va riconosciuto il merito, non già di aver inventato la forma diaristica, che era largamente diffusa, ma di aver tentato, in certi momenti con felicità, il principio stilistico del montaggio. Ci sono non soltanto le voci dei protagonisti – e qui ognuno racconta la storia di un altro, con il risultato che ne dovrebbe venir fuori un fitto gioco di rimandi, di specchi destinati a non lasciare, almeno nelle intenzioni, nessun angolo buio –, ma anche ritgli di giornali, finte corrispondenze (ad esempio, la tempesta che si scatena in concomitanza con lo sbarco di Dracula sulle coste inglesi); ci sono i colloqui dei corretti e benestanti protagonisti, gente che parla con perfetto accento oxoniano, con proletari, carattieri, marinai, fabbri, facchini, i quali sono certo di maniera (tutti assetati di birra, tutti pronti a stendere la mano per avere la mancia, tutti servizievoli), e che però almeno si esprimono in termini "popolareschi", sia pure ovviamente risibili per il fatto stesso di essere dialettali. Stoker insomma non si limita alla descrizione oggettiva, ma tenta l'approfondimento psicologico per così dire in presa diretta.
Dracula non è una "ghost-story", genere caratterizzato, come si legge nell'introduzione alle Storie di fantasmi di Edith Wharton, dalla "fantasmaticità", cioè dall'intuizione o rivelazione dell'insolito, dell'inquietante, del sottinteso, secondo il grande modello di Henry James. Il fantasma "ci deve essere", altrimenti certi eventi non si spiegherebbero (o, meglio, non resterebbero enigmatici); ma quasi mai, sottolinea la Wharton, lo si "vede": per lo più lo si "sente", se ne deduce – si è costretti a farlo – la presenza indiretta, filtrata, imprecisa. Dracula e la sua coorte sono invece ben presenti. Lui è un relitto feudale che studia l'inglese, preparandosi programmaticamente all'invasione dell'Occidente; ha addirittura interessi politici o per lo meno il desiderio di comprovare che i voivoda, incarnazione dell'autocrazia medioevale, non sono affatto defunti (non del tutto). È un diavolaccio transilvano concretissimo – e del resto, tutto ciò che non è "civile", cioè moderno e occidentale, è per definizione diabolico –, insomma un demonio di impronta cattolica, corposo, tardobarocco più che neogotico, e non mosso da oscuri istinti, da forze che lo trascendono. È anzi una "mente criminale" in pieno sviluppo, un delinquente "nato" alla Lombroso, e Stoker-van Helsing espressamente lo definisce tale, anche se conserva, di tempi "men leggiardi e più feroci", il soffio della leggenda, lo stregonesco, l'oscuro, il misterico. Non per niente è di cultura germanica, un feudatario dell'impero asburgico, deciso, al pari dei signori della corte di Vienna o di Berlino, a inserire il feudalesimo nel sistema moderno, a sposare castello e fabbrica.
Dracula è, in fin dei conti, il ponte tra l'orripilante romantico e il thrilling moderno. Alla soglia d'un secolo di "meraviglie possibili", che già si prospettava la conquista degli astri e l'apocalisse, nel secolo dei colonialismi e che preparava le "grandi guerre", il secolo dell'industrializzazione forzata e della mobilitazione generale, e in cui la Spiegazione dominava sovrana, Dracula era un'invenzione addirittura ovvia. Il Male c'è? E dunque, diamogli una fisionomia, cartografiamolo, narriamone le avventure, rendiamole logiche pur lasciando loro, com'è ovvio, quello che si suppone essere il proprio del romanzesco, il residuo indecomponibile del Mistero. Dracula diviene così una "storia del caso", i cui referenti sono la criminalità e la pazzia. Il fin de siècle vede all'opera scienziati decisi a tutto sondare, a non lasciare nessuna terra ingognita inesplorata, strati profondi della psiche o deserti polari che siano. È un'epoca che gli enigmi li smonta e fa a pezzi come giocattoli, dimostrandone l'inconsistenza e indicando come venirne a capo grazie alle ricette, accessibili a tutti, contenute nei grandi repertori del Sapere. È un'epoca scientifica.
Siamo purtroppo abitatori d'un astro divenuto terribile e figli d'un secolo che ha inventato e imposto psichiatria, psicoanalisi, sociologia e altre presunte "scienze dell'uomo". E la simpatia per il malvagio presuppone pur sempre la scissione tra Bene e Male, la scelta per l'uno o per l'altro campo equivalendo a quella tra potere a contropotere: il Conte Vampiro e i suoi predecessori ed epigoni sono gli sconvolgitori del codice, i devianti dalle formule; e si suppone che come tali abbiano, in fin dei conti, una funzione benefica: servono a contestare, svecchiare, rinnovare, richiamare alle "altre dimensioni". Dracula, voglio dire, non è un dio Briccone, non è un Reineke Fuchse, ma è uno che insegna e ammonisce a contrario: è la faccia del peccato, additata a esempio con un procedimento che il Romanticismo ha introdotto e che è consistito, puramente e semplicemente, nel ribaltare il Libertino settecentesco e la sua filosofia. In fin dei conti, absit iniuria verbo, Dracula è figlio delle Liaisons dangereuses.
La donna di Stoker, come l'epoca del resto esigeva, è "assente": sensitiva, facilmente ipnotizzabile, pronta ai deliqui, irrazionale, insomma il tipico, prescrittivo veicolo dell'"uscir-si" ottocentesco nella sua forma accettabile, il cui simbolo è il tavolino a tre gambe delle sedute spiritiche, ovverossia la "leggerezza", la "fragilità" in un contesto maschilmente greve, burbanzoso, impettito e scomodo. Uscir-si è oltretutto praticare, nella veglia, atteggiamenti onirici; e le donne di Dracula sono sempre trasognate, e quindi distratte, e appunto per questo vittime designate del Libertino armato di torbida volontà e di implacabile ragione messa al servizio della perfidia.
Intervista di Franco Manni sul Silmarillion per la pubblicazione Società Tolkieniana Italiana Terra di Mezzo, 5 marzo 1997, p. 42
Il Signore degli Anelli era stato già tradotto da altra persona e, secondo me, tradotto in maniera piuttosto discutibile; i nomi propri in italiano fanno ridere, per esempio Rivi Tenebrosi. Traducendo per secondo ho dovuto in gran parte, per non disorientare il lettore, mantenere le scelte già fatte. Se fossi stato io a tradurre per primo, avrei certo tradotto in italiano i nomi propri inglesi, ma in un italiano meno sciocchino. Per esempio Orcs in Orchi e non in Orchetti, che sa di favoletta infantile. Anche se riconosco che tale registro linguistico ha contribuito molto alla diffusione del libro in Italia, soprattutto negli ambienti cattolici. Questo però per me non è un titolo di merito, anche perché sono agnostico e autore di libri che la Chiesa considera disdicevoli.
JRRT era una persona molto colta. Approvo la decisione del figlio di "grattare i cassetti" del padre. La "mitologia" che è stata così ritrovata, e che è esposta soprattutto nel Silmarillion, è come l’Antico Testamento di una "Bibbia" di cui il Signore degli Anelli è il Nuovo Testamento. E proprio come, in confronto all’Antico, io trovo banale il Nuovo Testamento, così trovo banale il Signore degli Anelli se confrontato col Silmarillion: è una favola, anzi una favolina affetta da "buonismo".
Per me il Romanticismo è deleterio, ha causato il colonialismo e le due guerre mondiali.
[«Secondo lei, perché il Signore degli Anelli ha avuto tanto successo?»] Una causa l’ho già detta, ed è il buonismo. La seconda causa è la banalità. JRRT scrivendolo ha tenuto presente il punto di vista del lettore, cosa che un autore dovrebbe cercare di evitare. È solo il punto di vista del lettore che decreta il successo di un libro, e il lettore vuole leggere solo ciò che ha già in qualche modo imparato o annusato, vuole la banalità. Questo è frutto in gran parte della scuola; sin dalle elementari l’immaginazione è repressa, la scuola è una macchina di omologazione che insegna a preferire ciò che già si sa, mentre l’arte è la negazione di ciò che si è imparato. La scuola prepara ai negotia, a detrimento della "creazionalità" degli otia, che sono fruttuosi: lasciano il campo all’immaginario.