Intervista di Emanuela Audisio, la Repubblica, 22 febbraio 1986
Giocavo a pallone in casa e rompevo molti vetri. Mia madre mi sgridava, mio padre m'incoraggiava.
Giocavo per sentimento. Per provare emozioni. Me ne fregavo dei soldi e anche degli altri. [...] Pensavo solo a calciare bene la palla. Infatti per due anni il Curitiba nemmeno mi ha pagato, dicevano di non avere i soldi. E io non protestavo, non ci badavo: era la squadra della mia città, era tutto.
Pelé lasciamolo da parte. È di un altro mondo: aveva destro, sinistro e una gran testa, in tutti i sensi. E aveva anche una specie di fluido magico proprio dei grandi campioni: la palla tornava sempre a lui, non si sa come.
Nel '74 ero nella nazionale che partì per la Germania. Eravamo i mostri sacri. Lo si poteva avvertire da come la gente ci guardava, la maglia gialla faceva un grande effetto su tutti. Ci portarono a Dortmund a giocare contro l'Olanda dopo una preparazione massacrante. [...] Ci misero a giocare in un campo strettissimo, adatto al loro pressing e perdemmo. Anche il loro tifo in un catino così piccolo faceva paura. [...] Dopo la partita mi misi a piangere, ci avevano abituato a considerarci i più forti, non sapevo accettare l'idea contraria. Pensavo ai milioni di brasiliani che avevo deluso, a quelli della mia città... Poi capii. Il Brasile che avevamo in testa noi non esisteva più. Era scomparso nel '70, per sempre. Ora il calcio era diventato un'altra cosa: tantissimo agonismo, meno tecnica, meno fenomeni; era un calcio nato per distruggere, non per costruire. E per gente come noi, abituata a far correre la palla, non c'era più tanto spazio.
[Sul campionato mondiale di calcio 1982] Qualcuno, anzi molti ci davano per favoriti. Questo ci ha pesato, anche perché avevamo perso la voglia di vincere [...]. Non avevamo più nè la sicurezza dei forti, nè la forza dei deboli. Eravamo qualcosa a metà strada e non è bastato.
Il calcio è un grande mistero, senza nessun punto fermo. I ragazzini di Bahia hanno messo a giocare in porta Bruno Conti, per loro non era abbastanza forte. Conti, il campione del mondo.