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scrittore statunitense (1931-2020) Da Wikiquote, il compendio di citazioni gratuito
Clive Cussler (1931 – 2020), scrittore statunitense.
Ogni oceano esige il suo bottino di uomini e di navi, ma nessuno li divora con l'appetito insaziabile del Pacifico. Fu nel Pacifico che avvenne l'ammutinamento del Bounty, e i ribelli lo bruciarono dopo l'arrivo all'isola di Pitcairn. L'Essex, l'unica nave di cui si sa che fu affondata da una balena (e l'episodio ispirò Moby Dick di Melville), giace sul fondo del Pacifico, e così pure l'Hai Maru, che venne fatta a pezzi quando sotto il suo scafo eruttò un vulcano sottomarino.
Nonostante tutto questo, il più grande oceano del mondo tende a essere tranquillo come indica per l'appunto il suo nome.
Forse proprio per questo il presentimento di un disastro era lontanissimo dalla mente del capitano di fregata Felix Dupree quando salì sulla torretta del sottomarino nucleare Starbuck poco prima che calasse la notte. Salutò con un cenno l'ufficiale di guardia e si sporse dal parapetto per osservare la facilità con cui la prua fendeva le onde lunghe del mare.
Faceva caldo come dentro a un forno ed era domenica. Nella torre di controllo, l'operatore della base aeronautica di Brady accese una sigaretta con il mozzicone di quella precedente, appoggiò i piedi su un condizionatore portatile e attese che succedesse qualcosa.
Stava morendo di noia e per ottime ragioni. La domenica il traffico aereo era fiacco. Anzi era quasi inesistente. Raramente i piloti militari volavano quel giorno sul «Teatro delle Operazioni nel Mediterraneo», soprattutto perché al momento non c'erano guai internazionali. Ogni tanto un aereo si posava o decollava, ma di solito era soltanto una breve tappa di rifornimento per qualche vip che aveva fretta di andare a una conferenza in Europa o in Africa.
Il sonno indotto dalla droga svanì nel nulla e la ragazza incominciò una lotta tormentosa per riprendere i sensi. Una luce fioca e nebbiosa accolse gli occhi che si schiudevano lentamente e un lezzo atroce di putredine le penetrò nelle narici. La ragazza era nuda, e stava appoggiata con la schiena contro una parete umida, coperta di mucillagine giallastra. Era tutto irreale, impossibile, si disse al momento del risveglio. Doveva essere un incubo orrendo. All'improvviso, prima che avesse la possibilità di lottare contro il panico che ingigantiva dentro di lei, il viscidume giallo sul pavimento salì, salì sulle cosce del corpo indifeso. In preda a un terrore folle, la ragazza prese a urlare mentre l'orrore continuava a salirle sulla pelle nuda e sudata. Gli occhi quasi le schizzavano dalle orbite. Spinta dalla forza della disperazione cominciò a dibattersi. Fu inutile... i polsi e le caviglie erano saldamente incatenati alla superficie viscida della parete. A poco a poco, la mucillagine ripugnante salì all'altezza dei seni. E poi, mentre l'orrore indescrivibile le sfiorava le labbra, un ruggito vibrante e una voce fantasma echeggiarono nella camera buia.
«Scusa se interrompo il tuo periodo di studio, tenente, ma il dovere ti chiama.»
Il passeggero che occupava la cabina 33 del Ponte A si agitava e rigirava nella angusta cuccetta; era tutto sudato e la sua mente era come perduta in un oscuro incubo. Era un individuo piuttosto basso, non raggiungeva neppure il metro e sessanta, aveva radi capelli bianchi e una fisionomia scialba, la cui unica caratteristica di rilievo era un paio di sopracciglia folte e scure. Teneva le mani incrociate sul petto, le dita contratte in uno spasimo ricorrente. Dimostrava una cinquantina d'anni, la pelle avvizzita aveva il colore e la grana del cemento dei marciapiedi, le rughe sotto gli occhi erano incavate e formavano dei solchi profondi. Eppure fra dieci giorni avrebbe compiuto appena trentaquattro anni.
Il Boeing C-97 Stratocruiser sembrava una cripta. Forse l'immagine era suggerita dalla gelida notte invernale, forse dalle folate di neve che si ammucchiava sulle ali e sulla fusoliera in una coltre di ghiaccio. Le luci tremule della cabina di pilotaggio che filtravano attraverso il parabrezza e le ombre fuggevoli degli specialisti addetti alla manutenzione contribuivano ad accentuare la sensazione di disagio.
Il maggiore Raymond Vylander, dell'Aeronautica degli Stati Uniti, non era entusiasta di ciò che vedeva. Rimase a osservare in silenzio dalla finestra mentre l'auto cisterna si allontanava e spariva nell'oscurità tempestosa.
La rampa di carico fu fatta rientrare nella parte posteriore del grande ventre di balena, poi i portelloni della stiva si chiusero lentamente. Rivolse lo sguardo alle file gemelle delle luci bianche che fiancheggiavano i tremilatrecento metri della pista della Base Aerea della Marina di Buckley, nelle pianure del Colorado. La luminescenza spettrale si perdeva nella notte dietro il velo di neve.
I lampi che si susseguivano all'orizzonte con crescente frequenza annunciavano un violento temporale, mentre il Manhattan Limited divorava fragorosamente la strada ferrata che tagliava la parte più settentrionale dello Stato di New York. La densa colonna di fumo nero che usciva dalla locomotiva lasciava trasparire a malapena le stelle che punteggiavano il cielo notturno. Nella cabina, il macchinista levò dalla tasca della tuta un cipollone d'argento e strizzò le palpebre per leggere l'ora al riverbero del forno. Non era il temporale imminente a preoccuparlo, ma l'inesorabile scorrere del tempo, che minacciava di non fargli rispettare l'orario.
Facendosi schermo con una mano dal fulgore del sole, la ragazza fissò gli occhi nocciola sullo spettacolo della procellaria che planava elegantemente nella scia del bastimento, volteggiando sopra il picco di carico poppiero. Ammaliata, rimase diversi minuti a contemplare l'ineguagliabile grazia con cui l'uccello marino si librava in volo, finché, con moto subitaneo d'impazienza, non si drizzò a sedere sulla malandata sedia a sdraio, consunta dalla salsedine, e sulla schiena abbronzata apparvero i segni rossi, distanziati a intervalli regolari, impressi dalle stecche dello schienale.
Si guardò intorno, ma del personale addetto al ponte di coperta neanche l'ombra, perciò ne approfittò per riassettarsi pudicamente il reggiseno a balconcino del succinto bikini e mettersi così più a suo agio.
La Cyclops aveva meno di un'ora di vita davanti a sé. Entro quarantacinque minuti, infatti, si sarebbe trasformata in una tomba collettiva per gli uomini a bordo: 309 persone in tutto, tra passeggeri e membri dell'equipaggio; una tragedia imprevista, una crudele beffa, che la cristallina serenità del cielo e il mare calmo e deserto non lasciavano minimamente supporre. Perfino i gabbiani che veleggiavano ormai da una settimana nella scia della nave, proseguivano con languida indifferenza nel loro volo planato alternato a improvvise picchiate, come se i loro sensi acuti, placati da quella dolce atmosfera, non presagissero il minimo allarme.
Una luce fioca e palpitante guizzava bizzarramente nella tenebra della galleria. Un uomo vestito d'una tunica di lana che gli scendeva sotto il ginocchio si fermò ed alzò sopra la testa una lampada a olio. Il chiarore fievole illuminò una figura umana racchiusa in una bara d'oro e cristallo e gettò un'ombra grottesca e tremula contro la parete levigata. L'uomo dalla tunica fissò per qualche attimo gli occhi ciechi, quindi abbassò la lampada e si voltò.
Studiò la lunga fila delle figure immobili immerse in un silenzio di morte, così numerose che sembravano allinearsi all'infinito prima di sparire nell'oscurità della grande caverna.
Il diavolo stringeva una bomba nella mano sinistra, un forcone nella destra, e sogghignava compiaciuto. Sarebbe apparso minaccioso se non fosse stato per le sopracciglia esageratamente folte e gli occhi a mezzaluna. Gli davano più l'aspetto di un folletto addormentato per l'espressione malvagia che ci si sarebbe aspettata dal padrone dell'inferno, benché indossasse il consueto vestito rosso e gli spuntassero le corna regolamentari e una lunga coda cuspidata. Stranamente le unghie dei piedi, simili ad artigli, erano avvinghiate a un lingotto d'oro marcato 24 carati.
Sembrava galleggiare sopra la nebbia spettrale della sera come un mostro minaccioso che sorgesse dal limo primordiale. La sagoma bassa spiccava nera e lugubre contro lo sfondo degli alberi della riva. Come fantasmi, immagini indistinte d'uomini si muovevano sui ponti sotto l'inquietante chiarore giallo delle lanterne, mentre rivoli di umidità scorrevano lungo le fiancate grigie e cadevano nella corrente torpida del fiume James.
Vennero dal sud con il sole del mattino, baluginanti come fantasmi in un miraggio del deserto, mentre avanzavano sull'acqua accesa dai riflessi del sole. Le vele rettangolari di cotone delle imbarcazioni erano afflosciate, inerti, sotto il placido cielo azzurro. Non echeggiava neppure un comando mentre, in uno strano silenzio, gli uomini affondavano e spingevano i remi. In alto, un falco scendeva e risaliva come se guidasse i timonieri verso un'isola brulla che s'innalzava al centro del mare interno.
Fra i quattro clipper costruiti nel 1854 nei cantieri navali di Aberdeen, in Scozia, uno si distingueva dagli altri. Era il Gladiator: aveva una stazza di 1256 tonnellate, con una lunghezza di sessanta metri, una larghezza di dieci e tre alberi imponenti che svettavano verso il cielo con una giusta inclinazione. Era uno dei clipper più veloci che fossero mai scesi in mare, ma risultava anche difficile da governare in condizioni di tempo avverse, a causa delle sue linee troppo fini. Gli affibbiarono il soprannome di ghoster, riservato alle navi che erano in grado di sfruttare anche il minimo alito di vento; in effetti era assai improbabile che il Gladiator facesse una traversata lenta a causa della bonaccia.
Eppure, per un destino maledetto e imprevedibile, era condannato all'oblio.
Le onde, già violente, diventavano più forti a ogni assalto del vento, e a tarda sera la bonaccia del mattino si era trasformata, come il dottor Jekyll, nella furia di Mister Hyde. Le creste di spuma bianca in cima alle onde alte come torri si rifrangevano in cortine di spruzzi salmastri, mentre le acque in tempesta e le nubi nere si fondevano sotto la sferza di una tormenta di neve in arrivo. Ormai era impossibile riconoscere il confine fra le acque e il cielo. Gli uomini a bordo del transatlantico Princess Dou Wan, impegnato nella lotta contro le onde che s'innalzavano come montagne prima di abbattersi sulla nave, erano ignari del disastro incombente su di loro, a pochi minuti di distanza.
L'intruso proveniva dallo spazio. Era un corpo celeste nebuloso, antico quanto l'universo stesso, nato dal grembo di un'immensa nube di ghiaccio, rocce, polvere e gas nello stesso periodo in cui si erano formati i pianeti esterni del sistema solare, 4,6 miliardi di anni prima. Non appena le sue particelle disperse si erano condensate in una massa solida del diametro di oltre un chilometro e mezzo, aveva cominciato a sfrecciare in silenzio nel vuoto dello spazio, descrivendo un percorso che lo aveva portato verso un sole lontano, a metà strada dalle stelle più vicine, dopo un viaggio durato molte migliaia di anni.
Avanzavano nella caligine mattutina come spettri, silenziosi e irreali a bordo di navi fantasma. Alle due estremità delle navi s'inarcavano prore alte e serpentine, sormontate da draghi sinuosi scolpiti nel legno, coi denti scoperti in un ringhio minaccioso e gli occhi penetranti fissi in avanti nella nebbia, alla ricerca di vittime. I draghi, destinati a incutere paura agli equipaggi nemici, erano ritenuti anche una protezione contro gli spiriti maligni che vivevano in mare.
Era una messa in scena semplice ma astuta, concepita da un uomo che conosceva bene la curiosità dei suoi simili. E perfettamente adatta allo scopo. Brutta e massiccia, la struttura arrivava a sei metri d'altezza, sostenuta da grosse gambe di legno che partivano da una piattaforma. Su quelle gambe era stato costruito un alloggiamento a sezione triangolare con le estremità aperte. Da uno degli angoli superiori della struttura sporgeva una protuberanza arrotondata con due feritoie, come due occhi. I fianchi erano coperti di pelli. La piattaforma che sosteneva le gambe giaceva orizzontale sul terreno. Gli abitanti di Ilio non avevano mai visto niente di simile prima di allora.
A qualcuno dotato di una buona dose di immaginazione poteva ricordare vagamente un cavallo dalle zampe prive di articolazioni.
I figli di Dardano si erano svegliati quel mattino aspettandosi di vedere gli achei assediare la loro città fortificata, porti alla battaglia com'era avvenuto negli ultimi tempi. Ma la pianura ai piedi della collina era deserta.
Davanti ai loro occhi c'era solo il fumo che saliva dalle ceneri di quello che era stato il campo nemico. Gli achei e la loro flotta erano scomparsi. Si erano dileguati a notte fonda caricando sulle navi cavalli, carri, armi e vettovaglie e lasciandosi alle spalle solo quel mostro di legno. Gli esploratori troiani inviati per un sopralluogo tornarono a riferire che il campo era deserto.
Dopo aver gettato un'occhiata all'orologio da polso, il capitano di corvetta Takeo Ogawa scosse il capo con aria irritata.
Già mezzanotte e trenta, borbottò in tono ansioso. Tre ore di ritardo, e stiamo ancora aspettando.
Un giovane guardiamarina dallo sguardo vitreo per la mancanza di sonno annuì lievemente alla protesta del superiore, ma rimase in silenzio. In attesa in cima alla torretta del sommergibile I-403 della marina imperiale giapponese, i due frugarono con lo sguardo la rada in cerca di qualche indizio di un arrivo imminente. Alle spalle della vasta base navale, la spettacolare città giapponese di Kure era punteggiata dallo scintillio delle luci notturne. Aveva cominciato a cadere una pioggerellina leggera che conferiva all'ora tarda un senso di quiete irreale, rotta soltanto dal rumore lontano di martelli, gru e saldatori. In altri settori del cantiere si procedeva senza sosta a riparare le navi danneggiate dal fuoco nemico e a costruirne di nuove, nella vana speranza di contribuire a uno sforzo bellico sempre meno vigoroso.
La testa inclinata verso la battagliola, Arik Temur tese l'orecchio nell'oscurità al suono sempre più forte dei remi che fendevano l'acqua. Quando il rumore fu a pochi metri di distanza, si lasciò scivolare nell'ombra tenendosi basso. Gli intrusi avrebbero ricevuto una calda accoglienza, questa volta, si disse con truce determinazione.
Lo sciabordio dei remi cessò, e il fondo del legno contro legno gli confermò che la barchetta si era accostata all'ampia poppa della nave. La luna di mezzanotte non era che una falce sottile, ma il cielo terso come cristallo amplificava la luminosità delle stelle immergendo il battello in una luminescenza ovattata. Inginocchiandosi senza far rumore, Temur contemplò una sagoma scura scavalcare la battagliola di poppa, seguita da un'altra e da un'altra ancora, fino a che una dozzina di uomini non si fu radunata sul ponte. Gli intrusi portavano indumenti di seta dai colori sgargianti sotto tuniche formate da strati di cuoio sovrapposti che frusciavano al minimo movimento. Ma fu lo scintillio delle loro katane, le spade a taglio singolo affilate come rasoi, a catturare lo sguardo dell'osservatore.
La trappola era pronta a scattare, l'esca inghiottita con tutto l'amo: il comandante mongolo fece un cenno col capo al ragazzo immobile al suo fianco, il quale prese immediatamente a scuotere la pesante campana di bronzo che reggeva fra le braccia. Nell'aria immobile della notte riecheggiò una serie di rintocchi assordanti. Colti alla sprovvista dal segnale d'allarme, gli aggressori s'immobilizzarono di colpo. D'un tratto, trenta soldati armati fino ai denti emersero in silenzio dalle tenebre e, brandendo delle aste dalla punta di ferro, si precipitarono verso i nuovi arrivati scagliando contro di loro le armi con furia omicida. Una buona metà degli intrusi fu uccisa sul colpo dalle numerose lance che erano riuscite a trapassare le armature. I supersiti tentarono di resistere all'attacco facendo roteare le spade, ma furono rapidamente sopraffatti dalla massa degli avversari. Di lì a qualche istante, tutti gli assalitori giacevano morti o in fin di vita sul ponte della nave. Tutti tranne uno, un solitario derviscio che ancora si reggeva in piedi.
Il grido echeggiò per la nave come il ruggito di una belva ferita, una sorte di lugubre invocazione alla morte. Alla prima voce se ne unì una seconda, poi una terza, finché l'oscurità non fu squarciata da un macabro coro di lamenti. Finita l'ossessiva serie di gemiti, un silenzio inquietante regnò per qualche attimo, poi l'anima torturata diede inizio a una nuova litania. Fra l'equipaggio, i pochi ancora lucidi ascoltavano augurandosi una fine meno straziante.
Nella sua cabina, il comandante James Fitzjames tese l'orecchio stringendo tra le mani un frammento di minerale color argento. Mentre guardava la fredda pietra lucente, ne maledisse lo splendore. Di qualsiasi minerale fosse, pareva aver attirato una maledizione sulla sua nave. Ancora prima di essere caricato a bordo, il minerale aveva portato con sé un alone di morte. Dalla baleniera che trasportava i primi campioni di roccia erano caduti in mare due marinai, che erano andati incontro a una morte immediata per assideramento nelle gelide acque dell'Artico. Un altro uomo dell'equipaggio era stato accoltellato in una rissa dopo che aveva tentato di rifilare alcune pietre in cambio di tabacco al carpentiere di bordo. E poi, in poche settimane, il comandante aveva assistito al lento, inesorabile crollo psicologico di oltre la metà del suo equipaggio. Era sicuramente colpa dell'isolamento invernale, si disse, ma anche le pietre sembravano giocare un ruolo nella faccenda.
Il rullo di tamburo echeggiò sulle paratie di legno, riverberandosi in uno staccato ritmico dalla precisione assoluta. Il celeusta percuoteva la pelle di capra del timpano con movimenti meccanici. Avrebbe potuto picchiare per ore senza perdere un sol colpo, essendo la sua formazione musicale fondata più sulla resistenza che sull'armonia. Per quanto la sua cadenza regolare avesse un significato riconosciuto, l'uditorio di vogatori della galera sperava solo che quella performance monotona si concludesse presto.
Lucio Aureliano si passò una mano sudata sui gambali di cuoio, prima di rafforzare la presa sul pesante remo di quercia. Dopo aver affondato la pala nell'acqua con un movimento elegante, impiegò poco a mettersi al passo con i colpi di remo degli uomini che gli stavano intorno. Nato a Creta, Lucio si era arruolato nella Marina romana sei anni prima, attratto dalla buona paga e dall'opportunità di ottenere la cittadinanza romana al termine della ferma. Messo duramente alla prova nel fisico da quel giorno, ora aspirava soltanto a conseguire una posizione meno faticosa a bordo della galera imperiale, prima che le sue braccia cedessero del tutto.
Contrariamente alla leggenda hollywoodiana, a bordo delle antiche galere romane non venivano utilizzati schiavi. A spingere le navi erano volontari stipendiati, in genere reclutati in regioni marinare sotto il dominio dell'impero. Come i legionari dell'esercito romano, i volontari sostenevano settimane di addestramento durissimo prima di essere impiegati in mare. I vogatori erano magri e forti, capaci di remare per dodici ore al giorno, se serviva. Ma a bordo di quella galera bireme di classe liburna, una nave da guerra piccola e leggera che vantava solo due file di remi su entrambe le fiancate, i vogatori fungevano da propulsione supplementare per un'ampia vela montata sul ponte.
La superficie irrequieta del mare scintillava sotto la mezza luna, come striata di mercurio incandescente. Al tenente Alberto Conti le onde iridate ricordavano un paesaggio fluviale di Monet visto in una camera oscura. La schiuma argentea rifletteva la luce lunare verso il cielo, illuminando un lontano banco di nubi: il margine di perturbazione che si stava rovesciando sulle fertili coste del Sudafrica, una cinquantina di miglia più a nord.
A testa bassa, per ripararsi dalla brezza umida, Conti si voltò verso il giovane marinaio sull'attenti accanto a lui, sulla torretta del sommergibile Barbarigo della regia marina. «Serata romantica, Catalano, non trovi?»
Il marinaio gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Il clima è gradevole, signore tenente, se è questo che intendete». Benché esausto, come tutto l'equipaggio, era sempre impettito in presenza degli ufficiali. Una deferenza giovanile, considerò Conti, che prima o poi si sarebbe temperata.
«No, la luna», precisò il tenente. «Scommetto che stanotte brilla anche su Napoli. Non mi sorprenderebbe che in questo stesso momento qualche bell'ufficiale della Wehrmacht portasse a spasso la tua fidanzata in piazza del Plebiscito».
Il giovane marinaio sputò furibondo, poi tornò a guardare l'ufficiale con gli occhi accesi di rabbia. «La mia Lisetta si butterebbe dal ponte di Gaiola, piuttosto che avere a che fare con un porco tedesco. Non mi preoccupo. Porta sempre in borsetta una calza imbottita di sabbia e sa come usarla.»
Conti scoppiò in una risata. «Forse, se armassimo tutte le nostre donne, né i tedeschi né gli Alleati oserebbero più mettere piede nel nostro paese.»
Il sudore gli colava lungo il viso, goccioloni che scendevano abbondanti dalle guance non rasate. Avvicinando al petto due grossi rami di legno, l'uomo, stremato, piegò la testa e si passò una manica lercia sulla fronte. Ignorò il dolore delle braccia e riprese una cadenza lenta ma regolare.
Lo sforzo di per sé non giustificava tutto quel sudore, così come non lo giustificava il clima afoso tropicale. Il sole aveva appena varcato l'orizzonte e l'aria sul porto dell'Avana era fresca e umida. Era la tensione della caccia ad agitarlo. Con sguardo assente, fissò lo specchio d'acqua, poi rivolse un cenno del capo all'uomo dietro di lui a bordo dell'imbarcazione.
Erano passate quasi due settimane da quando la milizia spagnola aveva tentato di appropriarsi della sua scoperta, costringendolo alla fuga. Tre dei suoi compagni erano già morti per difendere quel reperto. Gli spagnoli non si facevano alcuno scrupolo a ricorrere all'omicidio pur di ottenere il loro scopo. Lui sarebbe già stato ucciso, se non avesse incontrato per puro caso una raffazzonata banda armata di ribelli cubani che gli aveva dato un passaggio fino alla periferia dell'Avana.
Luci bianche danzavano sull'orizzonte come fuochi fatui. Vadim Rostov, capitano della Marina imperiale russa, contò cinque globi luminosi, ciascuno emesso da una diversa nave da guerra ottomana di guardia allo stretto del Bosforo. I suoi ordini in quella notte limpida e fredda erano semplici: impegnare il nemico con il suo cacciatorpediniere e scompaginare la linea di guardia. Sarebbe stato come infilarsi in una tana di leoni famelici dopo essersi legato sulla schiena un agnello appena macellato, e lui lo sapeva.
Morse il mozzicone spento di sigaro turco che stringeva tra i denti storti. Gli occhi scuri, induriti, incassati in un viso segnato dalle intemperie, avevano osservato gli effetti di altri piani di battaglia mal congegnati, sia nel corso della guerra russo-giapponese del 1904, sia negli ultimi quattro anni, durante la campagna del mar Nero. Erano quasi trent'anni che Rostov serviva nella Marina imperiale russa, ma il mondo in cui aveva vissuto gli ultimi decenni stava per finire. Forse non era così inglorioso terminare la carriera con una missione suicida.
Gemiti straziati si spandevano sopra la città come una melodia cupa. Le case di mattoni di fango erano gravide di angoscia mentre il silenzio vorticava nel deserto notturno. Il vento, però, non trasportava soltanto i lamenti di chi piangeva una perdita.
Trasportava anche odore di morte.
Un misterioso flagello si era abbattuto su quella terra, bussando alle porte di quasi tutte le case. Colpiva perlopiù i bambini, ma non solo. Le grinfie della morte non avevano risparmiato nemmeno la famiglia reale, e si erano portate via nella loro presa lo stesso faraone.
Rannicchiata all'ombra del Tempio di Aton, una giovane donna cercava di ripararsi dalle grida e dal miasma. Mentre il bagliore della luna che faceva capolino da dietro una nuvola ammantava ogni cosa, la donna sfregò il pesante amuleto d'oro che le poggiava sul petto e cercò di cogliere eventuali segni di movimento. Quando un picchiettio di suole di cuoio sulla pietra le solleticò le orecchie, si voltò e vide una sagoma correre verso di lei dal porticato frontale del tempio.
23 luglio 1956
A sud dell'isola di Nantucket
La nave apparve all'improvviso, quasi fosse emersa d'un tratto dagli abissi marini, scivolando come uno spettro sulla pozza di luminescenza argentea proiettata dalla luna ormai prossima a essere piena. Sulle candide fiancate, i cerchi luminosi degli oblò splendevano come tiare, mentre la motonave filava diretta a est nella notte calda, tagliando la superficie liscia del mare con la prua affusolata, scorrevole come un pugnale che trafigge un drappo di raso nero.
Dall'alto della plancia abbuiata del transatlantico Stockholm, che apparteneva a una società di navigazione svedese-americana e si trovava sette ore e centotrenta miglia marine a est della città di New York, il comandante in seconda Gunnar Nillson scrutava l'oceano illuminato dalla luna. Le grandi finestre rettangolari che si aprivano sulle pareti della timoneria gli offrivano una vista pressoché illimitata. La superficie del mare era calma, tranne qualche lieve increspatura. La temperatura, che si aggirava intorno ai ventuno gradi, rappresentava un piacevole cambiamento rispetto all'aria afosa e umida che aveva oppresso la Stockholm quella mattina, quando il transatlantico aveva lasciato l'ormeggio, lungo il molo della 57th Street, per scendere lungo il fiume Hudson. Qualche brandello sfilacciato del tetto di nubi lanose aleggiava ancora nel cielo, offuscando ogni tanto, coi suoi bioccoli sfatti, il volto di porcellana della luna. La visibilità sulla dritta raggiungeva le sei miglia.
Con una spinta possente dei motori turbogetto a doppio flusso, l'affusolata sagoma del jet privato si staccò dalla pista, scagliandosi come un dardo nel cielo immenso che s'inarcava a cupola sulla città di San Paolo. Salito rapidamente al di sopradella città più grande del Sudamerica, il Learjet raggiunse la quota di crociera di trentanovemila piedi e puntò verso nord-ovest alla velocità di ottocento chilometri orari. La professoressa Francesca Cabral lanciò uno sguardo malinconico attraverso il finestrino alla coltre di nuvole simili a fiocchi di cotone, scoprendo di sentire già la mancanza delle strade intasate di smog e della scoppiettante energia della sua città natale. Un sommesso russare proveniente dal lato opposto dello stretto corridoio centrale del veivolo interruppe le sue riflessioni. Lanciando un'occhiata all'uomo di mezz'età che russava, avvolto in un completo stropicciato, si domandò perplessa che cosa avesse in mente suo padre quando le aveva assegnato come guardia del corpo Philippo Rodriques.
Poi prese un fascicolo dalla ventiquattrore e cominciò a scarabocchiare note a margine della relazione che doveva leggere a un congresso internazionale di studiosi dell'ambiente in programma al Cairo. Aveva già rivisto la prima stesura una dozzina di volte, ma la meticolosità era una caratteristica del suo carattere. Francesca era un brillante ingegnere e una docente molto stimata, ma, in un settore e in una società dominati dagli uomini, una scienziata doveva dimostrarsi sempre più che perfetta.
Le parole le apparivano come sfocate. La sera precedente aveva fatto tardi per preparare i bagagli e raccogliere la documentazione scientifica; era troppo eccitata per dormire. Scoccò uno sguardo d'invidia alla guardia del corpo che russava sonoramente e decise di concedersi a sua volta un sonnellino. Messo da parte il testo del discorso, abbassò lo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Cullata dal sussurro gutturale dei motori, ben presto scivolò nel sonno.
Una fitta coltre di nebbia invase il porto nel tardo pomeriggio, sospinta da un cambiamento improvviso della direzione del vento. Volute d'aria grigia e umida si riversarono sulle banchine di pietra, risalendo la scalinata monumentale fino a sommergere l'animato porto sul mar Nero in un crepuscolo precoce. I traghetti destinati ai passeggeri e le navi da carico annullarono le partenze e decine di marinai rimasero a terra. Mentre s'incamminava con fatica nella foschia gelida del porto, il comandante Anatolij Tovrov udiva confusamente le risate degli ubriachi nelle taverne e nei bordelli. Superata la zona dei locali notturni, imboccò un vicolo e aprì una porta dall'aspetto anonimo. Alle narici arrivò una folata d'aria calda e greve, satura di fumo e vodka. Un uomo massiccio, seduto a un tavolo d'angolo, lo invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano.
Aleksej Fëderov era il responsabile degli uffici doganali di Odessa. Quando Tovrov era in città, avevano l'abitudine di incontrarsi in quel locale discreto, frequentato soprattutto da marinai in pensione, dove la vodka costava poco e, di solito, non risultava letale. Il funzionario soddisfaceva l'esigenza del comandante di trovare un po' di compagnia senza doversi impegnare in un rapporto di amicizia. Tovrov conduceva una vita solitaria da quando la moglie e la giovane figlia erano morte. Era accaduto diversi anni prima, durante uno degli insensati scoppi di violenza che ormai divampavano con frequenza in Russia.
Fëderov, quella sera, aveva un aspetto stranamente tranquillo e silenzioso. Di solito, invece, sbraitava di continuo con il suo vocione, accusando l'oste di fare la cresta sul conto. In quell'occasione, tuttavia, si limitò a ordinare un giro alzando due dita in silenzio. Insistette anche per pagare il conto, circostanza ancor più sorprendente, vista la sua nota taccagneria. Parlava a bassa voce, tormentandosi nervosamente il pizzetto scuro mentre guardava con occhi inquieti verso gli altri tavoli, occupati da veterani del mare, curvi sui bicchieri. Quando infine si fu convinto che nessuno li spiava, alzò il bicchiere.
Diego Aguirrez si svegliò da un sonno agitato con l'impressione che un topo gli fosse passato di corsa sulla faccia. La fronte ampia era coperta da un sudore gelido, il cuore gli martellava in petto e un panico senza nome gli attanagliava le budella. Tese l'orecchio al sommesso russare dei suoi uomini e al leggero sciabordio delle onde contro lo scafo di legno. Sembrava tutto a posto, eppure lui non riusciva a scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione che ci fosse una minaccia celata nell'oscurità.
Si alzò dalla branda, si gettò sulle spalle muscolose una spessa coperta di lana e imboccò la scaletta che sbucava sul ponte avvolto dalla nebbia. Sotto la fioca luce della luna, la solida caravella scintillava come avvolta da un'argentea tela di ragno. Aguirrez si avvicinò a una figura rannicchiata accanto all'alone giallognolo di una lampada a olio.
Librandosi al di sopra delle maestose vette incappucciate di neve, Jules Fauchard lottava per la propria vita. Qualche minuto prima, il suo aereo si era schiantato contro un invisibile muro d'aria con una forza tale da fargli scricchiolare i denti. Le correnti ascensionali e discendenti scuotevano il leggero velivolo come un aquilone legato a un filo. Lo stomaco in subbuglio, Fauchard si opponeva alla turbolenza con la perizia acquisita grazie ai severi istruttori di volo francesi. D'un tratto, superata la zona perturbata, si abbandonò sollevato alla dolce brezza, ignaro di essere sull'orlo del disastro.
La Mercedes-Benz 770 W150 Grosser Tourenwagen pesava più di quattro tonnellate ed era corazzata come un Panzer. Nonostante la mole, la limousine da sette posti sembrava fluttuare come un fantasma sul soffice strato di neve appena caduta, scivolando a fari spenti accanto ai campi di granoturco addormentati, scintillanti sotto il riflesso azzurrino della luna.
Nei pressi di una fattoria immersa nell'oscurità al centro della dolce vallata, l'autista sfiorò leggermente il freno, dirigendo la vettura verso la bassa struttura di pietra a passo d'uomo, furtiva come un gatto che insegue un topo.
Gli occhi color ghiaccio del guidatore frugarono con aria meditabonda le tenebre oltre il parabrezza gelato. Anche se la costruzione sembrava abbandonata, non intendeva certo correre rischi inutili. L'elegante silhouette nera dell'auto era stata frettolosamente coperta da vernice bianca; il rudimentale tentativo di mimetizzazione rendeva la vettura praticamente invisibile ai bombardieri Šturmovik che si aggiravano nei cieli come rabbiosi avvoltoi, ma la Mercedes era riuscita a stento a sfuggire alle pattuglie russe che si materializzavano simili a spettri fra la neve, e i cui proiettili avevano scavato minuscoli crateri sulla carrozzeria almeno in una dozzina di punti.
Decise di attendere.
Il mostro emerse dalla foschia mattutina alla luce perlacea dell'alba. L'enorme testa dal muso allungato e le narici dilatate avanzò in direzione della riva verso il punto in cui se ne stava appostato il cacciatore, un ginocchio a terra e la corda dell'arco tesa contro la guancia, gli occhi puntati su un cervo che brucava l'erba della palude. Un gorgoglio giunse all'orecchio dell'uomo, che volse lo sguardo verso l'acqua. Con un grido di raccapriccio, buttò l'arco e balzò in piedi. Spaventato, il cervo scomparve fra i boschi, seguito dal cacciatore terrorizzato.
Le volute di nebbia si sollevarono rivelando una gigantesca imbarcazione a vela. Frange di alghe bordavano lo scafo in legno rossiccio lungo una sessantina di metri. Sulla prua slanciata, dietro la testa intagliata di uno stallone sbuffante, un uomo stava sbirciando in una scatoletta di legno. Non appena l'evanescente linea di costa si fu delineata in modo più netto, l'uomo sollevò il capo e indicò un punto alla propria sinistra.
Il timoniere manovrò le due ruote gemelle spingendo lo scafo in una dolce virata fino a imboccare una nuova rotta, parallela alla linea di costa coperta di vegetazione, mentre i marinai regolavano con perizia la vela quadra a righe verticali bianche e rosse per compensare il cambio di direzione.
In tutti gli anni passati a solcare gli oceani, il capitano Horatio Dobbs non aveva mai conosciuto un mare così infecondo. Passeggiava sul casseretto della Princess, una baleniera di New Bedford, con gli occhi grigi che schizzavano in ogni direzione, come raggi gemelli di un faro. Il Pacifico era un deserto blu immobile. Niente spruzzi all'orizzonte. Niente marsuini che danzavano davanti alla prua. Niente pesci volanti che guizzavano sulla cresta delle onde. Era come se la vita in mare si fosse fermata del tutto.
Dobbs era considerato un principe nella gerarchia dei balenieri di New Bedford. Nelle locande del porto in cui si ritrovavano i ramponieri dall'aria truce o nei salotti dei ricchi armatori quaccheri di Johnny Cake Hill, si diceva che Dobbs avrebbe fiutato la presenza di un capodoglio a cinquanta miglia a distanza. Ma, ultimamente, l'unico odore che avesse riempito le narici del capitano era quello sgradevole di un ammutinamento sul punto di scoppiare.
Hudson Wallace aspettava sulla pista, a poca distanza dal terminal, nella notte umida e fredda. Il giubbotto di pelle non bastava a difenderlo dal freddo e dalla nebbia mista a pioviggine che avviluppavano l'aeroporto e l'intera isola.
Di fronte a lui le luci azzurre del carrello continuavano a brillare, stoiche, senza riuscire a riscaldare l'atmosfera; sopra di lui, sciabolate di luce bianca fendevano la nebbia, seguite qualche attimo dopo da un lampo verde mentre il faro dell'aeroporto girava lento e instancabile.
Hudson dubitava che ci fosse qualcuno lassù, a vederlo, con quelle nuvole così fitte e basse, ma se c'era, che Dio gliela mandasse buona! L'aeroporto era circondato su tre lati da montagne e l'isola era un puntino sulla mappa in mezzo all'Atlantico. Trovarla non era facile. E se qualcuno fosse anche riuscito a trovare Santa Maria, con quella nebbia sarebbe andato a schiantarsi contro le montagne ben prima di riuscire a vedere le luci della pista.
Ma un conto era atterrare sull'isola, un altro decollare e, a dispetto del brutto tempo, Hudson era impaziente di partire. Per ragioni a lui ben note era diventato troppo pericoloso restare. Nonostante questo, però, e nonostante fosse il pilota e proprietario della Constellation fermo sulla pista, l'ultima parola non spettava a lui.
Il piroscafo John Bury sussulto da prua a poppa, facendosi largo tra i marosi dell'oceano Indiano. Era considerato un cargo veloce, concepito per accompagnare le navi da guerra e utilizzato per viaggiare a una discreta andatura, ma con tutte le caldaie fuori uso, il John Bury stava avanzando a un passo al quale non era più avvezzo dal giorno in cui era stato varato. In avaria, in fiamme e con una scia di fumo alle spalle, il piroscafo procedeva spedito per mettersi in salvo.
La nave raggiunse la cresta di un'onda alta tre metri, il ponte si inclinò e la prua affondò in un altro flutto. Un'ampia falce di spruzzi si sollevò sulla battagliola, attraversando l'intero ponte e scuotendo ciò che restava della plancia distrutta.
L'opera morta del John Bury era un rottame straziato. Dal groviglio di metallo della sovrastruttura, nel punto colpito dai razzi, fuoriusciva del fumo. Il ponte era coperto di rottami e ovunque giacevano marinai morti. Ma il danno era sopra la linea di galleggiamento e la nave in fuga ce l'avrebbe fatta, se fosse riuscita a evitare altri colpi.
Sull'orizzonte cupo alle sue spalle, altri natanti che erano stati meno fortunati erano avvolti dal fumo. Da uno in particolare esplose una palla di fuoco arancione che illuminò per un istante quello scempio.
Il tuono scosse la caverna buia mentre un'immensa scintilla bianco-azzurra guizzava fra due gigantesche colonne metalliche. Invece di spegnersi, la scarica scintillante si divise in due flussi gemelli di plasma, che iniziarono a roteare intorno alle colonne. Muovendosi come fiamme alla ricerca del vento, vi si avvolsero e salirono serpeggiando verso il lato inferiore di una cupola elicoidale, riunendosi di nuovo prima di svanire in un ultimo bagliore accecante.
La caverna ripiombò nel buio.
L'ozono aleggiava ancora nell'aria.
Sul fondo della caverna, alcuni uomini e qualche donna stavano immobili, accecati dalla luce abbagliante. Era stato un fenomeno impressionante, ma avevano già visto tutti l'elettricità. Si aspettavano qualcosa di più.
«Tutto qui?» chiese una voce ruvida.
Avanzavano nel nulla, o almeno questa era l'impressione di Robert Swan, l'ispettore capo della polizia di Durban.
In una notte senza luna, sotto un cielo nero come l'inchiostro, Swan sedeva accanto all'autista di un camion che sferragliava su una pista polverosa, nella campagna a nord di Durban. I fari del grosso Packard illuminavano malamente la strada con fasci di una luce gialla e tremolante. Anche fissando il buio, Swan non riusciva a vedere più di una quarantina di metri di quella pista piena di solchi.
La luna piena gettava un bagliore azzurro sulle sabbie d'Egitto, tingendo le dune del colore della neve e i templi abbandonati di Abidos dei toni dell'alabastro e dell'avorio. Sotto quella luce cruda si muovevano alcune ombre, una processione di intrusi che si faceva strada attraverso la Città dei Morti.
Procedevano con andatura grave, in tutto trenta fra uomini e donne, i volti coperti dai cappucci delle ampie tuniche, gli occhi fissi sul sentiero davanti a loro. Superarono le camere sepolcrali dei faraoni della Prima dinastia, poi i templi e i monumenti costruiti nel Secondo periodo per onorare gli dei.
All'altezza di un crocevia polveroso, dove la sabbia copriva il sentiero di pietra rialzato, il corteo si arrestò in silenzio. L'uomo in testa al gruppo, Manu-hotep, scrutò nel buio e tese l'orecchio, piegando il capo mentre stringeva la presa sulla lancia.
La lancia colpì Diego Alvarado al petto. Un colpo tremendo che lo scagliò a terra ma che non riuscì a trafiggere la pesante armatura di acciaio castigliano che aveva portato con sé dalla Spagna.
Rotolò su se stesso, si mise in posizione su un ginocchio e puntò la balestra. Intravide un movimento tra gli alberi e fece partire il dardo. Dalla folta vegetazione si levò un urlo angosciato.
«Tra gli alberi, sulla destra!» gridò ai suoi uomini.
Giappone centrale. Inverno 1573
Quando i due eserciti si trovarono l'uno di fronte all'altro su un campo di battaglia degli altipiani giapponesi, lo zoccolio dei cavalli al galoppo cedette il passo al clangore delle spade.
In sella al suo cavallo, Yoshiro Shimezu combatteva con un perfetto equilibrio tra forza ed eleganza. Ruotava e menava fendenti, manovrando il suo destriero con movimenti precisi, il tutto senza hakusha, speroni, dal momento che non ne usava mai.
La sua armatura samurai dipinta di colori vivaci aveva ampi spallacci, massicci guanti d'arme e un elmo ornato da corna di cervo. La lama scintillante della sua katana lacerava l'aria, riflettendo ogni singolo raggio di luce.
Yoshiro disarmò l'avversario più vicino con un guizzo del polso. Seguì poi un colpo di rovescio che spezzò in due la spada di un altro nemico. Mentre questi si dava alla fuga, un terzo uomo si scagliò contro Yoshiro con una picca e lo colpì alle costole, ma le lamelle dell'armatura risparmiarono al samurai una ferita letale. Yoshiro si voltò di scatto e uccise l'uomo con un fendente.
David Ben-Avi percorreva un sentiero sull'isola rocciosa di Jaros: una zolla desertica sferzata dal vento, che si estendeva per meno di cinque chilometri e nel punto più largo superava appena gli ottocento metri. Spuntava solitaria dal mare cento miglia a nord-ovest di Creta e, benché ufficialmente disabitata, era ciò che da quasi due anni lui e una decina di altre persone chiamavano «casa».
Con le mani nelle tasche e la faccia al vento, Ben-Avi camminava di buon passo. L'aria del Mediterraneo era pungente in gennaio, ma fresca e pura in confronto a quella soffocante del laboratorio e della caserma in cui erano alloggiati.
Anche la solitudine non dava fastidio... finché durava.
«David», lo chiamò una voce alle sue spalle. «Dove vai?»
Parole in inglese, con un caratteristico accento francese.
Ben-Avi si fermò di colpo e si voltò. Mamma Chioccia mi ha trovato.
Attraverso il periscopio, il Kapitän Hans Schultz osservava compiaciuto il caos a bordo dello schooner Carroll A. Deering. Lo scafo bianco dell'elegante veliero a cinque alberi era facile da distinguere contro il grigio delle nuvole temporalesche che si andavano addensando in lontananza. L'equipaggio della nave da carico correva avanti e indietro per il ponte in preda al panico.
Schultz riferiva quello che vedeva ai marinai nella camera di manovra del suo sommergibile, il Bremen.
Un uomo si strappa metodicamente i capelli. Un altro sembra urlare in modo incontrollabile mentre corre in tondo. Altri due stanno gettando a caso carte e oggetti in mare.
Che genere di oggetti? chiese lo scienziato Istvan Horváth con un leggero accento straniero. Ungherese di nascita, parlava correntemente il tedesco. Era sempre affascinato dai risultati della sua creatura, un dispositivo ingegnoso che aveva soprannominato Irre Waffe.
Arma della follia.
Bauli. Indumenti. Libri. Strumenti per la navigazione.
«Affascinante».
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