Intervista di Maria Elena Murdaca, balcanicaucaso.org, 21 agosto 2008.
Per la maggior parte dei miei concittadini chi ha fatto il servizio militare è un cretino, e chi ha servito in Cecenia è due volte cretino.
Mi hanno messo un fucile in mano e mi hanno detto "Vai e muori per la patria". Avevo 18 anni. Non sapevo dove fosse la Cecenia, per me era lo stesso che dirmi Isole Figi. Non mi hanno neanche detto che mi mandavano in Cecenia. Non considero i ceceni miei nemici e non li ho mai considerati tali.
Oggi per voi la Russia è la bestia nera e la Cecenia è immacolata. In realtà le cose sono molto più complesse. La Russia è intervenuta militarmente, indubbiamente commettendo uno sbaglio, sostenendo una fazione fra due parti che però erano già in conflitto fra di loro. Durante la prima guerra, la Cecenia ha combattuto per la propria indipendenza e la propria libertà, e ha ottenuto quello che voleva. Questo però implica che quando Basaev ha sconfinato nel Dagestan, ha invaso il territorio della Federazione Russa. Ciascuno ha il diritto di combattere per la propria libertà. Ma che cosa abbia a che fare la libertà con la presa in ostaggio di una scuola piena di bambini, proprio non riesco a vederlo.
Quando ho iniziato a scrivere non l'ho fatto pensando a un libro. Non avevo in mente i diritti d'autore. Per me è stato un modo per affrontare un processo di riabilitazione, che non è previsto per chi ha combattuto. Siamo carne da cannone. Scrivere mi ha aiutato ad andare avanti. E per me è anche un modo per saldare il debito che ho con chi non è mai tornato.
Da Журнал Аркадия Бабченко, livejournal.com, 13 giugno 2012; citato in nicolaililin.com, 14 luglio 2012.
Loro tentano di vietare internet, tentano di vietare le proteste, tentano di vietare il pensiero diverso, tentano di vietare le organizzazioni no profit, tentano di rendere illegale qualsiasi riunione pubblica la cui quantità di aderenti superi il numero di tre persone. Loro tentano di vietare qualsiasi espressione della libertà della parola, qualsiasi espressione del pensiero libero. Loro tentano di sorvegliare gli stranieri, usandoci some agenti di controspionaggio, tentano di farci passare tutti per pedofili, spie e nemici del popolo. Loro scatenano i KGBisti, aprono inchieste, arrivano al mattino presto con perquisizioni, ci chiudono nei loro sotterranei. Semplicemente perché passavo vicino. Semplicemente perché ero libero. Semplicemente perché non avevo paura di parlare.
Sicuramente, loro continueranno a bere ancora il nostro sangue. E ho paura che lo berranno non poco. Ma comunque prima o poi dovremo combattere contro di loro, scovarli nelle loro tane. È questione di tempo e di forze. La loro fine è chiara. E decisa. Questo destino non può essere cambiato.
Voi ammazzate i miei colleghi. Voi mettete nelle prigioni i miei amici. Voi tenete nelle carceri le nostre donne. Voi separate le famiglie. Voi scacciate via dal paese i liberi pensatori. Mentre sottraete alla giustizia i ladri, truffatori e assassini. Voi annegate le nostre città. Avvelenate con il gas i nostri bambini. Mandate in guerra i nostri ragazzi. Picchiate, torturate e ammazzate nei distretti di polizia i nostri cittadini. Voi, con passione e determinazione state spingendo la Russia alla guerra civile. Voi fate tutto il possibile per distruggere il nostro paese. Ma noi non vi permetteremo più di farlo. Noi siamo gli uomini liberi. Io sono l'uomo libero. Questo è il mio paese. Questo paese sarà libero. E io non ho paura.
Da The Question, 2017; ripubblicato in repubblica.it, traduzione di Aleksej Tekhnenko, 31 maggio 2018.
Morire fa sempre paura. Era spaventoso vent'anni fa, è spaventoso adesso, e, sospetto, lo sarà anche fra cent'anni. Solo che fa paura in modi diversi.
La prima guerra cecena per me è stata una disperazione, un'angoscia totale, una "chernukha" assoluta. Mi ha persino stravolto la memoria – ero andato in guerra in estate, quando in Cecenia era un tripudio di colori, ma la ricordo solo in bianco e nero. Come nei fermo immagine della cronaca. I colori nella memoria non sono rimasti. Per niente. Solo un'attesa nera di morte.
Certo, morire fa paura. Sempre. Se qualcuno dice il contrario, non credetegli. E, per quanto mi riguarda, più si va avanti, più fa paura. Perché non si può sempre avere fortuna. Il limite della fortuna è limitato. Puoi aver fortuna una volta. Due. Cinque. Ma prima o poi arriverà il giorno che...
Ho visto come la gente veniva messa spalle al muro per essere fucilata. Anch'io sono stato messo con le spalle al muro. La vita non ti scorre davanti agli occhi, come dicono. Sono tutte balle. Io, personalmente, in quei momenti pensavo solo a una cosa: riuscirà a uccidermi al primo colpo oppure no? E, visto che ricaricava l'arma frettolosamente, capivo che non ci sarebbe riuscito.
Non si diventa un buon soldato quando inizi a sparare con precisione o a lanciare granate lontano. Si diventa un buon soldato quando inizi a trattare la vita e la morte allo stesso modo, con uguale indifferenza. E oramai non t'importa più se sopravvivrai o morirai. È allora che la gente inizia a fare cose di cui l'essere umano sembra non essere capace. Quelle gesta che poi verranno chiamate “eroiche”. La tua vita non vale poi un copeco, a differenza di quella degli altri. Ma poi tornare è difficile. Per anni. Per decenni. Ad alcune persone per tornare non basta un'intera vita. [...] Un tempo ero un buon soldato. Ho raggiunto quella stadio. Ora sono un cattivo soldato. Voglio vivere più che morire.
Chi ha fissato la leva a diciotto anni è stato molto furbo. A quell'età, è più facile manipolare le persone. C'è ancora romanticismo e sogni di eroismo. Non ci sono ancora responsabilità. Nessuna famiglia. Non si ha quasi nulla da perdere. È più facile farcire la testa di nobili slogan sul dovere, la Patria, il patriottismo, il valore. A quarant'anni, non funziona più. A quarant'anni, diventi più prudente.
Da una conferenza stampa in Ucraina, 30 maggio 2018; citato in Cinzia Rizzi e Lillo Montalto Monella, euronews.com.
Chiedo scusa a tutti, anche a mia moglie, per l'inferno che ha dovuto sostenere ma non c'era altra alternativa [...]. L'operazione speciale è stata preparata per due mesi, io sono stato messo al corrente un mese fa. Hanno lavorato come matti. Il risultato di questo lavoro si è trasformata in un'operazione che ha portato alla cattura di un uomo.
Sono state raccolte prove evidenti [...] e la cosa più importante è che la mia vita è stata salvata e che sono stati sventati altri attentati più gravi, perché si stavano preparando ad azioni gravi. Mi hanno detto che c'era un ordine di uccidermi, sono stati pagati i soldi, 40mila dollari, un bel prezzo direi, mi hanno fatto vedere i documenti, il mio passaporto, la foto che c'è solo nel mio passaporto, quando l'ho fatto, e nell'ufficio che li rilascia, ed è stato chiaro che l'informazione arrivava dalla Russia, evidentemente dai servizi speciali.
Mi hanno proposto di partecipare a questa operazione e io ho accettato, tanto sarebbe andata avanti lo stesso. Le pressioni che sono state fatte oltre confine [sugli esecutori] sono state forti, hanno provato ad accelerare per far combaciare l'azione con la finale di Champions, ho dovuto far finta di partire, i fatti di ieri sono stati solo una coincidenza... chi sperava che io morissi fra poco possono continuare ad aspettare.
Incipit
Brigata di montagna Montagne: solo chi ci è stato può capire veramente cosa vuol dire. La montagna è una gran fregatura. Tutto quello che ti serve per vivere te lo devi portare dietro. Ti serve cibo, e ammassi nello zaino razioni per cinque giorni, facendo piazza pulita di tutte le cianfrusaglie inutili. Ti servono munizioni, e infili caricatori di zinco e mezza cassa di granate in tutte le tasche, in quelle dello zaino, nelle cartucciere, le appendi alla cintura. Camminare è impossibile, impacciano troppo: ti segano all'inguine e alle cosce, ti pesano sul collo... Ti carichi sulla spalla destra il lanciagranate automatico AGS del ferito Andrjucha Voložanin. Porti due nastri di granate incrociate sul petto come il marinaio Železnjak in quel film sulla rivoluzione, e se ti avanza una mano, tieni la "chiocciola", il contenitore per il nastro.
Citazioni
Alla roulette russa, con il cecchino ceceno nel ruolo di croupier, si giocava quattro a uno, dove quattro era della morte. (p. 10)
Avevamo smesso di avere cura di noi stessi: non ci lavavamo, non ci pulivamo i denti, non ci facevamo la barba. Le mani sporche si screpolarono e per una settimana non smisero di sanguinare, incartapecorite dal freddo e dagli eczemi. Erano ormai sette giorni che non riuscivamo a scaldarci a dovere, vicino a un fuoco: le canne fradice non volevano saperne di bruciare e in mezzo alla steppa la legna non si trovava. Cominciammo a trasformarci in bestie: freddo, umidità, sporcizia ci risucchiavano qualunque sentimento che non fosse odio, e noi odiavamo tutto, inclusi noi stessi. I litigi scoppiavano per qualunque sciocchezza e subito raggiungevano il culmine. (pp. 15-16)
In generale, in guerra, sono tutti molto svelti a capire: persone, cani, alberi, sassi, fiumi. È come se avessero tutti un'anima. Quando scavi la trincea e attacchi con la pala l'argilla dura come pietra, ci parli come a un parente: «Dai, forza, piccola, ancora un po', ce la puoi fare...». E lei cede alle tue esortazioni, si concederà ancora un po', proteggendo il tuo corpo dentro di sé. Capiscono tutto, sono coscienti di tutto, sanno che destino li attende e cosa succederà. E hanno il diritto di scegliere da soli: dove crescere, dove scorrere, come morire. (pp. 19-20)
Durante l'addestramento un maggiore bruno aveva detto di dover formare una squadra da portare a Beslan, ai forni. Sapeva come illuderci. Essere assegnati ai forni per il pane è il sogno segreto di ogni "spirito", un soldato in servizio da meno di sei mesi. Noi siamo "spiriti". Ci chiamano anche morti di fame, denutriti, trippe, senza-forza, goblin e chi più ne ha più ne metta. La fame tormenta soprattutto nei primi mesi. Le poche calorie che ricevevamo durante la formazione con quella informe massa bigia chiamata "pappa di avena" si volatilizzavano al momento della marcia post pranzo. Per il nostro organismo in fase di sviluppo il cibo era sempre insufficiente. La notte strisciavamo di nascosto al cesso per mangiare un po' di dentifricio Jagodka, dal profumo di fragola così appetitoso. (p. 26)
Il caos è spaventoso: è pieno di rifugiati che si aggirano per il campo con i loro averi e raccontano storie raccapriccianti. Sono i fortunati scampati ai bombardamenti: gli elicotteri non caricano civili, ma quelli li prendono praticamente d'assalto, viaggiano in piedi, come sui tram. Un anziano ha volato attaccato al carrello, si è legato alla ruota ed è rimasto appeso per quaranta minuti, da Chankala a Mozdok. Portandosi dietro due valige. (p. 27)
Lo spazio che rimane è occupato dai feriti. A parte il proprio carico, ogni aereo può prendere a bordo in tutto dieci persone, i feriti hanno la priorità. Le barelle con i feriti sono ammassate fra le casse, messe sui sacchi oppure direttamente sul pavimento, purché li carichino e li portinio via. Inciampano su di loro, li fanno cadere dalle barelle. Un capitano è ferito all'addome. Urtandolo con un piede, gli strappano via il drenaggio. Sangue misto a pus cola dal portello e gocciola sul cemento. Il capitano urla. Le mosche si posano in un attimo sul liquido finito a terra. (p. 28)
Sotto un pioppo, alcuni soldati feriti in modo non troppo grave stanno bevendo della vodka barattata nel locale delle caldaie, per inondare d'alcol il terrore sperimentato dietro le montagne. Hanno gli occhi da folli e il viso annerito. Un'ora fa hanno sparato loro addosso, i compagni sono morti, mentre adesso bevono vodka e non sono più costretti ad accucciarsi per evitare le pallottole. Sembra incredibile. Urlano e piangono, tracannano senza sosta. Non riusciamo nemmeno a guardarli. (p. 31)
Adesso la paura sale dalla terra contaminata. Riempie i nostri corpi e si insinua come un verme viscido in fondo allo stomaco; tutto diventa freddo, anche sotto un sole cocente. Finita la guerra, sarà necessario bonificare il suolo da questa paura, che incombe sul campo come nebbia. (p. 31)
Rubare nell'esercito non è considerato un crimine. Qui tutti rubano. E tutti sanno che tutti rubano. Il crimine è farsi beccare. (p. 64)
Noi delle trasmissioni non siamo considerati persone nemmeno dal comando. La compagnia di trasmissioni del 429° reggimento motorizzato nel '96 è la più rotta in culo di tutto il paese. È un dato di fatto. Il nonnismo qui è eccessivo persino per gli standard abituali dell'esercito. Possono farti portare l'acqua, prenderti a calci con gli scarponi, estorcerti soldi, spaccarti la mandibola, sfasciarti il cranio con gli sgabelli. Questo e altro, non c'è limite allo spasso che si possono inventare con un soldato delle forze armate della Federazione Russa. (p. 64)
Da civile, quando mi raccontavano di episodi di nonnismo, pensavo che non sarei mai riuscito a vivere così. Come diavolo potevo evitarlo? O ti impicchi o le prendi sul muso. Altre opzioni non ce ne sono. E anche adesso continuo a pensare di non riuscirci... (p. 64)
Tecnicamente, nel nostro reggimento il nonnismo non c'è. Il nonnismo è un insieme di regole, una raccolta sui generis di leggi la cui violazione è punita con pene corporali. Prendiamo, ad esempio, il modo di camminare. Dipende dalla durata del servizio. Le nuove reclute, gli "spiriti", non si devono nemmeno sognarsi di camminare, devono "volare" o "ronzare come una scopa elettrica". I "teschi", soldati con un anno di servizio, o gli "elefanti" hanno diritto a un'andatura più rilassata, ma il loro portamento deve comunque riflettere una certa umiltà. Soltanto le "regine", prossime al congedo, possono camminare con quel loro particolare passo strascicato, permesso esclusivamente agli anziani: senza fretta, con le mani in tasca, sbatacchiando i tacchi sul pavimento. Se durante l'addestramento mi fosse saltato in testa di camminare così, mi avrebbero spaccato il muso. "Ehi, Lungo, già in congedo?" mi avrebbero detto, per poi scatenare l'inferno. Le avrei prese per bene anche solo se mi fosse balenata l'idea di tenere le mani in tasca. Uno "spirito" deve dimenticarsele del tutto. Altrimenti, ci pensano loro a insegnartelo: ti riempiono le tasche con la sabbia e te le cuciono a dovere. La sabbia sfrega sull'inguine e dopo due giorni ti si formano piaghe piene di pus. (pp. 65-66)
Se uno "spirito" non dimostra deferenza parlando con un "nonno", viene picchiato. Se parla troppo ad alta voce o cammina per la caserma sbatacchiando i tacchi, viene picchiato. Se si distende sulla branda di giorno, viene picchiato. Se si distende sulla branda di giorno, viene picchiato. Se da casa gli mandano delle ciabatte di gomma comode e decide di metterle per andare a lavarsi, viene picchiato e in più quelle spariscono. E ancora, se a uno "spirito" viene in mente di fare il risvolto al gambale dello stivale, o di camminare con il primo bottone slacciato, o se il berretto è messo storto sulla nuca, o sull'orecchio, o se la cintura non è abbastanza stretta, lo picchiano fino a fargli dimenticare come si chiama. La sciatteria è segno di appartenenza alla casta. Lui è uno spiritello, un mucchio di merda, e finché i più anziani non avranno terminato il servizio, lui deve essere capace di volare. (p. 66)
Anche per lo "spirito" è meglio avere il proprio "nonno" personale. Prima di tutto, ti picchia solo una persona. Secondo, puoi sempre andare a lamentarti da lui delle pretese degli altri, e lui ristabilità immediatamente l'ordine. A condizione ovviamente che sia un "nonno" autorevole e non uno pidocchioso che al secondo anno di servizio si fa ancora tutto da solo. Se, per esempio, un "teschio" picchia uno "spirito" o gli prende dei soldi, il "teschio" verrà pesantemente pestato. Solo i "congedo" possono estorcere denaro ai più giovani. Lo "spirito" è obbligato a procacciare soldi, sigarette e cibo solo al proprio "nonno". A tutti gli altri può rispondere picche. L'unica eccezione è rappresentata da un "nonno" che è più forte del tuo. (p. 66)
Qui tutti picchiano tutti: i "congedo", gli ufficiali, i sottufficiali. Si ubriacano di brutto e giù a dar mazzate. I colonelli ai maggiori, i maggiori ai tenenti, i tenenti ai soldati. I "nonni" ai giovani. Nessuno parla con nessuno in maniera civile, solo mostrando i denti. Perché così è più facile, più veloce e più chiaro. Perché "comunque morirete tutti uno dopo l'altro, bastardi!". Perché i figli a casa sono denutriti, perché nelle case degli ufficiali c'è miseria e disperazione, perché al congedo mancano ancora tre mesi, perché è la guerra, perché è la morte, perché qui uno su due ha subito un trauma cranico. Perché la Patria ti fa uccidere la gente – la tua gente, che parla russo, ma bisogna comunque spararle in testa, perché il cervello schizzi sulle pareti, schiacciarla sotto i cingoli, farla a pezzi. Questa gente, la tua gente, che parla russo, vuole ucciderti, taglia la gola alle tue giovani reclute, a diciottenni ancora in fiore, gli ficcano i genitali in bocca. Perché i tuoi soldati solo ieri hanno concluso l'addestramento e già oggi sono distesi sulla pista, pezzetti di carne arrostita, e le mosche depongono larve nei loro occhi aperti, e di un'intera compagnia in meno di ventiquattr'ore è rimasto meno di un terzo e, se Dio vuole, anche tu finirai così. Perché la tua vita non vale un cazzo, esattamente come quella degli altri. Perché ammazzi tutti e tutti mandi all'inferno, poi tracanni vodka, a decalitri, e passi le notti a guarire. Perché un soldato è un mucchio di merda puzzolente e lo "spirito" non ha neanche il diritto di vivere. Perché hanno visto l'orrore e quindi non gli importa più niente di niente. «Imparerete da me cosa vuol dire guerra, bastardi! A tutti un morso in bocca come ai cavalli, così non penserete che la vita è dolce. E ringraziate vostra mamma che vi ha partorito sei mesi dopo, altrimenti sareste già poltiglia da un pezzo.» (p. 67)
In questo reggimento tutti odiano tutti, l'odio e la follia incombono sul piazzale, come una nuvola fetida e gravida che impregna i giovani di terrore; è succo di limone: dobbiamo macerarvi dentro come uno spiedino, macerare nel terrore e nell'odio prima di essere mandati al macello. Così per noi sarà più facile crepare. (p. 68)
Non sappiamo come scavare una trincea, non sappiamo ripararci dal fuoco delle mitragliatrici e non sappiamo nemmeno come disporre correttamente una trappola esplosiva perché non ci scoppi fra le mani. Nessuno ci sta insegnando a fare queste cose. Non siamo nemmeno capaci di sparare, nella nostra compagnia abbiamo tenuto tutti le armi in mano solo due volte. Se dovessimo andare in guerra proprio adesso, da sotto quest'albero di albicocche, difficilmente sopravvivremmo più di qualche ora. (p. 80)
La fregatura è che non hai un posto dove andare. Scappare a casa? Lì ci attenderebbe il carcere, saremmo considerati dei disertori, sempre ammesso di riuscire ad arrivarci: non sono pochi i casi di soldati uccisi per strada o sequestrati o portati via direttamente alla stazione e ridotti in schiavitù. Non dimentichiamo poi le pattuglie. Alla fine, rimanere nel reggimento è la cosa più sicura. (p. 81)
«Ascolta, tu sei di Mosca,» continua Osipov «quindi sai tutto. Chi ha iniziato questa guerra?» Chissà perché Osipov è convinto che i moscoviti siano onniscienti. «Non ne ho idea. Chiedimi qualcosa di più facile.» «Be', ma tu che ne pensi?» insiste. «Il presidente, suppongo.» «Lui personalmente?» «No, prima si è consultato con me.» [...] «Ma il ministro della Difesa può cominciare una guerra senza fare rapporto al presidente?» «No, non può» risponde Zjuzik. «Il presidente per noi è il comandante supremo. Le guerre le può iniziare solo lui.» «E questa guerra com'è che è cominciata?» Osipov cerca di capire. «Di solito perché iniziano le guerre?» Bella domanda, perché iniziano? «Per il potere» risponde Zjuzik. A volte dimostra un acume raro. «Tutte le guerre cominciano solo per una questione di potere.» «Che cavolo vuol dire "per il potere"? Davvero si possono uccidere tante persone solo per il potere? Di che aveva bisogno ancora El'cin, è il presidente, più potere di così! O forse Dudaev voleva rovesciarlo?» «Che cazzo ne so, chi voleva rovesciare chi. Si vede che non sono riusciti a spartirsi qualcosa. Tanto, che differenza fa adesso?» (p. 82)
«Per voi i ceceni sono nostri nemici o no?» insiste Osipov, cercando di venirne a capo. Con la sua voglia di sapere, sarebbe stato utile nei reparti speciali. «No, non combattiamo contro i ceceni. Combattiamo contro formazioni illegali armate» replica Zjuzik. «Ma queste bande armate sono ceceni o no?» «Ceceni.» «Quindi combattiamo contro i ceceni» conclude Osipov. «Ma loro cos'è che vogliono?» «L'indipendenza.» «E perché non possiamo dargliela?» «Perché nella Costituzione c'è scritto che nessuno può prendere e staccarsi dalla Russia così quando gli salta il ticchio, arrivederci e grazie» spiega Zjuzik, che sa tutto. «Io però non capisco: i ceceni sono cittadini della Russia o suoi nemici? Se sono nemici, allora bisogna ammazzarli tutti senza tanti complimenti. Ma se sono cittadini russi, come si fa a combattere contro di loro? È così o no?» (pp. 83-84)
Nessuno, dal comandante del reggimento al soldato semplice, sa perché si trova qui. Nessuno vede un senso in questa guerra. Solo una cosa è chiara: questa guerra è stata venduta dall'inizio alla fine. Questa guerra è stata condotta da incompetenti fin dall'inizio e per gli errori dello stato maggiore, del ministro, del comandante supremo e di tutti gli altri, i soldati pagano con la vita. Nessuno è in grado di spiegare in nome di che cosa avvengono tutte queste morti. "Restaurazione dell'ordine costituzionale", "operazioni antiterrorismo": parole che non vogliono dire niente, invocate per giustificare l'omicidio di migliaia di persone. (p. 84)
«Sarei curioso da sapere» chiede Anrjucha «se El'cin pesta Gračëv. È il più alto in grado. Come ad esempio Ciak con i sottufficiali. Ve lo immaginate: il ministro della Difesa gli fa un rapporto inesatto e lui, sbam, un pugno sul muso. Eh?» «Sapete cosa sarebbe davvero forte?» interviene Zjuzik. «Piazzare El'cin e Dudaev lì sulla pista, a darsele loro due, di brutto. Chi mette l'altro al tappeto vince. Secondo te, chi stende chi? El'cin Dudaev o viceversa?» «Secondo me è Dudaev che stende El'cin. Non è alto, è sveglio e deve avere un montante niente male.» «El'cin ha le braccia più lunghe, ed è molto più alto e possente, deve avere un jab a effetto.» Osipov non è d'accordo. «È anche grosso e goffo. Poi tracanna così tanto che farà fatica di sicuro a muoversi in fretta. No, io punterei su Dudaev» dico. «Anch'io.» Passante mi appoggia. «Io invece su El'cin» sorride Zjuzik «giusto per fargli un po' di tifo. Spero che si riempiano di botte il più a lungo possibile. Da solo El'cin mi va in depressione e non le prende come si merita. E neanche Dudaev le prenderebbe. Che se le diano fra loro.» Scoppiamo a ridere. Immagino la scena: due presidenti che come due veri sottufficiali si pichiano sulla pista. Le maniche dei loro costosi abiti si strappano, i pantaloni di rappresentanza si lacerano. E tutti in cerchio a fare il tifo: noi per il nostro, i ceceni per il loro. E nessuna guerra. Nessun cadavere. (pp. 84-85)
Elmetti perforati e ammaccati, giubbotti antiproiettili sfasciati, fori nelle giacche a vento, schegge incastrate nei rinforzi, macchie marroni di sangue incrostato che cerchiamo di non toccare... Sono andati in Cecenia nel gennaio del '95, poi un sergente maggiore, di cui non sappiamo il nome, li ha tolti dai corpi ormai freddi e li ha buttati in un angolo del deposito. Ha bevuto per qualche mese. (p. 86)
Non abbiamo età. Non abbiamo casa, né vita, né desideri, né anima, né paura, né speranza. Solo morte. Non abbiamo futuro. Nessuno ci sta aspettando in quella vita cui aneliamo. Per noi non c'è nessun posto verso il quale tornare, il nostro passato è rimasto lì da qualche parte dietro la recinzione della fabbrica, ben lontano. Lo percepiamo come estraneo, come fosse un cartone animato per bambini, di cui non ci sentiamo più personaggi, questi miseri brandelli, fotogrammi della memoria non suscitano struggimento ma un'angoscia opprimente. Non si può tornare indietro. (p. 154)
Non abbiamo futuro: nessuno ci aspetta, in quella vita che agogniamo, e questo è un ulteriore tradimento nei nostri confronti, veterani diciottenni, molti dei quali già canuti. (p. 154)
Non esiste nessuna solidarietà del fronte. Remarque ha mentito. Adesso ci riscaldiamo a vicenda con il calore dei nostri corpi, ma ognuno di noi è comunque per conto suo. Quello che ci tiene insieme è la guerra. Le uccisioni e la morte dei compagni. Non avremo voglia di vederci in futuro. Già lo sappiamo: sarà dura incontrarsi con qualcuno che ti ha conosciuto quando eri un animale. Sorridere e scambiarsi pacche sulle spalle. Non ci amiamo. Amore, affetto non sono parole che appartengano a questo mondo. Il sentimento che proviamo qui l'uno per l'altro è più alto dell'amore, ma non è possibile descriverlo, in russo non esistono parole adatte per esprimere la devozione di un essere vivente verso un altro essere, entrambi condannati a morte, questo sentimento è possibile solo qui. Per quello c'è posto là, come qui non c'è posto per l'amore. Non abbiamo futuro. (p. 155)
Il nostro mondo è questa guerra. La nostra vita è la morte. I nostri desideri, le nostre aspirazioni sono morti. Abbiamo solo diciotto anni, ma non desideriamo altro dalla vita. Possiamo dirci davvero giovani? (p. 155)
Ogni volta i nuovi arrivi sono peggiori dei precedenti, si vede che in Russia è rimasta solo teppaglia randagia che a parte nell'esercito o in prigione non sa dove ficcarsi. (p. 156)
Questa guerra è costruita sul furto e va avanti per amore del furto. I soldati vendono le cartucce, gli autisti vendono carburante, i cuochi la carne in scatola. I comandanti ci rubano il rancio a pacchi interi: ecco lì la nostra carne in scatola, è lì sul loro tavolo, la accompagnano alla vodka e non se ne vergognano nemmeno. I comandanti dei reggimenti ne rubano a carichi interi, i generali rubano direttamente i mezzi. Sono noti casi di blindati per trasporto truppe nuovi di zecca, appena lubrificati, venduti direttamente dalla fabbrica. Ancora oggi, per la Cecenia, circola attrezzatura diventata merce all'epoca della prima guerra, che figura come perdita in combattimento. Gli intendenti inviano a Mozdok dalla Cecenia intere colonne piene zeppe di oggetti rubati, si appropriano di tutto: tappeti, televisori, materiali edili, mobilio. Smantellano le case e le portano via a blocchi. Gli aerei da trasporto traboccano di cianfrusaglie, non rimane spazio per i feriti. Cosa sono due o tre scatole di cartucce in questa guerra venduta dall'inizio alla fine? Noi siamo già stati venduti con tutte le viscere: io, Arkaša, Pinča, il comandante di battaglione e questi due che stanno massacrando, già venduti tutti e registrati come perdite. Le nostre vite sono il saldo versato per le villette dei generali, che spuntano come funghi lungo il Rublëvskoe Šosse, lo stradone dei vip. (pp. 163-164)
Il nostro è un esercito di operai e contadini portati alla disperazione dall'eterna mancanza di soldi, affamati fino alla ferocia, senza alloggi, inculati e pestati da tutti disperatamente e a prescindere dal grado, senza diritti; non è un esercito, è un branco che ha attinto da pezzenti strafottenti il peggio, la prepotenza, le leggi sono le stesse del cavolo, se non hanno nemmeno di che sfamare i propri figli. Le persone istruite, gli ufficiali che desiderano servire non si fermano a lungo nell'esercito, rimangono solo quelli che non hanno un posto dove vivere e si nutrono del miraggio di un appartamento, o quelli che non sono capaci di mettere due parole in fila correttamente e non sanno fare di meglio che spaccare i denti a una recluta. Fanno carriera scalando la piramide delle gerarchie, non perché siano i migliori, ma perché non c'è nessun altro. Abituati a darle e a prenderle anche quando arrivano in cima, insegnando a fare lo stesso. E noi siamo stati addestrati moltissimo tempo fa. Le legnate sono diventate la lingua universale dell'esercito. (p. 165)
Il comando si ricorda dei soldati solo quando ci ammucchiamo a terra a centinaia. Dopo ogni assalto, ci inquadrano sempre in formazione e ci incensano chiamandoci eroi. Per due o tre giorni ci danno da mangiare normalmente. Poi ricominciano di nuovo i soliti cereali insapori e mezzi crudi a colazione e mazzate a pranzo. (p. 167)
Ascoltiamo il racconto di Lëcha a bocca aperta. Water bianchi, mense, doppi vetri! Ci sembra incredibile che a Groznyj possa esserci un albergo. Quella città l'abbiamo conosciuta morta, i suoi unici abitanti erano cani randagi che mangiavano i morti nei seminterrati, e adesso c'è un albergo. Non può essere. Nel nostro immaginario, la gente lì deve stare male, molto male, perché nessuno dimentichi quello che è successo. Altrimenti tutta questa guerra non sarà che omicidio ordinario, il cinico omicidio di migliaia e migliaia di persone. Come si fa a costruire una nuova vita sulle loro ossa? Noi siamo appena tornati dalla montagna, dove il battaglione è stato dimezzato, dove continuano ad ammazzare e ad abbattere gli elicotteri, mentre a Groznyj il nostro comando guarda la tv via cavo e si fa la doccia. Ai water bianchi nelle caserme possiamo anche crederci, ma un albergo per i generali è decisamente troppo. (pp. 170-171)
Più di una volta abbiamo visto queste donne in coda per essere ricevute dallo Stato. In coda per ricevere pietà, compassione, il rispetto dovuto a una madre che ha dato alla Patria quanto aveva di più caro: la vita del figlio. In cambio non ricevono niente, nemmeno i soldi per il funerale. Queste madri vengono evitate dappertutto. (p. 171)
Non credo ad Arkaša, mi sembra poco verosimile che ci sia nonnismo addirittura all'interno del ministero della Difesa. Anche se... Sa il diavolo, perché no? I generali non sono di certo fatti di miele, e prima saranno stati anche loro tenenti. Ancora un paio di guerre così e anche il nostro comandante di battaglione diventerà generale, passerà a un livello più alto e da lì continuerà a triturare tutti. Logico, no? (p. 172)
No, nessuno di noi rifiuterà una medaglia. Dal momento che ciascuno di noi serve a spingere su per la piramide del potere almeno cinque colonnelli e generali, che ce ne venga qualcosa. (p. 173)
Due barattoli di latte condensato, un pacco di biscotti, una decina di caramelle e una bottiglia di limonata, ecco la nostra ricompensa per le montagne, per Groznyj, per quattro mesi di guerra e sessantotto morti. E non dallo Stato, ma dalle nostre madri, che hanno messo da parte, copeco dopo copeco, quel poco che rimane delle loro misere pensioni di campagna, decurtate da questo stesso Stato a vantaggio delle spese militari. Ma andatevene affanculo! Le vostre medaglie, appuntatevele sul didietro, così luccicherete come alberi di Natale. (p. 177)
Prima della partenza per la Cecenia, il reggimento due volte a settimana usciva fuori dalla caserma in riga, e lì, a gruppi, stavamo con le chiappe al vento, dopo esserci messi sotto dei fogli di carta. Fra i ranghi camminava un giovane medico donna, di bell'aspetto, mentre noi dovevamo defecare davanti ai suoi occhi e porgerle i nostri escrementi, per verificare che non avessimo la dissenteria. Il bestiame deve andare al macello sano, a nessuno importava che ci vergognassimo o meno. (pp. 179-180)
Sono ricominciate le perdite di sangue, i calzoni sono tutti incrostati. Fra l'altro, quelle perdite le abbiamo tutti. Il retto si gonfia e sporge dal sedere per diversi centimetri. Ti cali le braghe con mezzo culo fuori e siedi come il fiore scarlatto e luminoso della favola di Aksakov, dai luce a un intero distretto. Ora che ti pulisci tutto l'intestino fai fuori mezzo rotolo di carta igienica. Carta igienica? Tiriamo via dalle pareti dei depositi la carta da parati rimasta e ci grattiamo il culo con brandelli induriti di colla. Non è che al nostro ano giovi molto, dai pantaloni il sangue ormai si può raccogliere a bicchieri. (p. 180)
Sparare alla schiena di una merda di ufficiale, ai nostri occhi, non è una vigliaccata, ma un normale castigo. I miserabili non devono vivere, se poi muoiono ragazzi in gamba. Per noi non esiste nessun'altra punizione che la morte, perché tutto il resto è vita. (p. 190)
I soldati a contratto odiano gli ufficiali perché rubano la carne in scatola senza alcuna vergogna, perché vendono il gasolio a cisterne intere, per mancanza di professionalità, per l'incapacità di preservare le vite dei loro soldati, per l'arrivismo fatto sul sangue, perché arraffano a destra e a manca e viaggiano trionfali su jeep Mitsubishi Pajero, perché hanno tende stracolme di mobili in pelle e tappeti, prendono a calci con gli stivali i soldati ubriachi, mentre loro si permettono di sbronzarsi di brutto, per gli abusi e i maltrattamenti, per il congedo senza retribuzione, perché le donazioni alimentari non sono mai arrivate ai plotoni, neanche una volta, per la vigliaccheria durante i combattimenti. Perché sono sciacalli. Nell'esercito non sono mai stati definiti altrimenti. Gli sciacalli sono sciacalli. Gli ufficiali odiano i "contrabassi" per ricambiare il loro odio, perché si ubriacano e vendono il carburante, perché colpiscono gli ufficiali sparando alla schiena, perché finiscono al mercato con le cartucce, perché tutti, senza eccezioni, fanno man bassa, perché tutti, senza eccezioni, sono alcolizzati e vagabondi, perché di combattere non sono capaci e non hanno voglia, mentre sono bravissimi a imboscarsi fra i ruderi e riempire gli zaini di qualsiasi cianfrusaglia, perché nel bel mezzo della battaglia gettano via il mitra, perché tutti, senza eccezioni, vogliono congedarsi da questo esercito del cazzo, da cui non pretendono niente se non i soldi, perché se ne sbattono degli ufficiali. Gli ufficiali sono poveri, eternamente senza speranza e non riescono a dare ai propri figli abbastanza da mangiare. Anche questo è un motivo di odio. E ancora, odiano i soldati di leva perché crepano come mosche e a loro tocca scrivere le notifiche di decesso per le madri. (pp. 221-222)
Lo sporco era dappertutto. La grassa terra argillosa cecena impastata dai tank si rapprendeva sugli stivali a zolle pesanti, si pargeva per la tenda in un batter d'occhio, ricadeva a tocchi sui tavolacci, sulle coperte, si insinuava sotto la giacca, intaccava la pelle. Aderiva alle cuffie della radio, ostruiva le canne dei mitra, non c'era assolutamente possibilità di liberarsene; le mani, appena lavate, si risporcavano immediatamente, bastava toccare qualcosa. I soldati, intontiti, ricoperti di questa crosta argillosa, cercavano di muoversi il meno possibile, la loro vita si era indurita, si era congelata insieme alla natura, concentrandosi solo sulle giacche calde in cui si avvolgevano, preservando il calore, non avevano la forza di uscire dal loro piccolo guscio per lavarsi. (pp. 235-236)
Le notti del Sud sono nere, la vista è superflua. Di notte si può contare solo sull'udito. È l'udito infatti che, captando i suoni, aiuta a rilassarsi, fa capire che intorno tutto è tranquillo. Oppure, al contrario, il corpo si irrigidisce di botto, ti manca il respiro, che si blocca fra i denti serrati, la mano silenziosamente si allunga verso il mitra, impercettibilmente si poggia su di esso, la testa, cauta, trainata soltanto dagli occhi, si volta verso il suono inaspettato, tentando di non sfregare con la nuca sul bavero, di non fare il minimo rumore, di non impedire alle orecchie di valutare le circostanze... (p. 249)
La guerra era passata in secondo piano, al primo posto c'era la vita quotidiana, gli eterni problemi dei soldati: mettere qualcosa sotto i denti, scaldarsi e fumare. Pance vuote e freddo avevano la meglio sull'istinto di conservazione, il senso del dovere e la guerra; zombie in divisa da fanteria sbucarono dalle trincee, iniziarono a muoversi, a vagare in cerca di cibo. Se un soldato fosse ben nutrito, ben equipaggiato e lavato, combatterebbe dieci volte meglio, questo è poco ma sicuro. (pp. 251-252)
«Hai sentito che El'cin si è dimesso?» «Come lo sai?» «A Capodanno, pare. L'hanno fatto vedere in tv. Ha fatto un discorso, ha detto che la salute non glielo consente. Certo che non glielo consente, se beve come una spugna.» «Tutte balle. Non può essere. Quel figlio di puttana avrebbe rinunciato al trono su due piedi? È un ladro, e anche un assassino. Un opportunista che per brama di potere prima ha dissolto l'impero, poi ha iniziato una guerra, nel frattempo ha assediato il parlamento con i carri armati. E un bel giorno prende e si ritira, così? Sai,» Artëm si voltò di scatto verso Igor', il volto una maschera d'odio «non gli perdonerò mai la prima guerra cecena. Né a lui, bastardo, né a Pavel Gračëv, il suo ministro della Difesa. Avevo diciotto anni, ancora un ragazzino, mi hanno strappato dalla sottana della mamma e mi hanno sbattuto in questo porcile. Come uno stecco. Affoga pure. Io annaspo, voglio sopravvivere, e loro di nuovo, con un dito, mi affondano... Mia madre era ancora un fiore, e nei miei due anni di servizio militare si è trasformata in una vecchia.» Il volto si deformò per l'agitazione crescente. «Mi hanno distrutto la vita, ti rendi conto? E ancora non lo sai, ma l'hanno distrutta anche a te. Sei già morto, non avrai mai più una vita. La vita finisce qui, in questa palude. Quanto ho desiderato questa guerra! Dall'altra, dalla prima, non sono mai tornato, come i dispersi fra i campi di Ačchoj-Martan. Il Vecchio, Antocha, Bambino, Oleg... nessuno di noi è più tornato. Prendi tutti i soldati a contratto che vuoi, quasi tutti sono qui per la seconda volta. E non per i soldi. Volontari... Oggi siamo volontari perché ieri ci hanno costretto. Abbiamo gustato carne umana e non possiamo farne a meno. Siamo psicopatici, tu e io, capisci? Incurabili. Anche tu, adesso. Solo che qui non te ne accorgi, perché siamo tutti così. Ma lì, si vede subito... No, il nostro zar ci è costato troppo, ha pagato il suo trono con migliaia di vite, non può svendere la sua corona al primo che passa.» (pp. 255-256)
Non adoperavano quasi mai quelle tavolette [sterilizzanti] che ricevevano insieme alle razioni. Si potevano usare solo avendo tempo e molta acqua. Di solito bevevano l'acqua senza sterilizzarla, direttamente dai fossi, dalle pozzanghere, o dai torrenti del posto. E, strano ma vero, nessuno si ammalava, anche se a ogni sorso assumevano la stessa quantità di germi patogeni che normalmente si prende in un anno. Ma non c'era tempo per ammalarsi. Nelle situazioni estreme l'organismo si focalizza su un solo obiettivo: sopravvivere, non bada alle minuzie come il tifo addominale. Gli stomaci vuoti si erano abituati a mandare giù batteri intestinali come popcorn, succhiando loro fino all'ultima caloria. (p. 264)
[...] negli occhi di un soldato che scruta dentro di sé sono leggibili tutte le verità di questo mondo. Hanno tutto ben chiaro, comprendono ogni cosa eppure se ne fregano a tal punto di tutto da incutere paura. Ti viene voglia di strapazzarli, di scuoterli: «Ragazzo, svegliati, ripigliati!». Si passa la mano sul volto senza focalizzare, non dice una parola, e di nuovo si volta, abbracciando il mitra, in un eterno stato di sospensione, guarda e sente tutto, ma senza analizzare, si connette solo agli scoppi o alle scie luminose dei traccianti. (pp. 273-274)
Pensi di avere un soldato normle, poi lo guardi e ti accorgi che muove appena le gambe, cammina come un sonnambulo, con la testa reclinata, come se non avesse abbastanza forze per tenerla su dritta, dal naso cola l'eterna goccia di muco. A mandarlo in tilt è stata la guerra. E in fretta: in uno, due giorni al massimo un uomo si lascia andare, senza opporre resistenza a niente, assorbendo ogni cosa nella più totale apatia. Puoi picchiarlo, prenderlo a calci, strappargli la carne con le pinze, amputargli le dita... non si sveglierà comunque, non accellererà il ritmo, non dirà niente. Lo curi solo con il sonno, il riposo e l'alimentazione. (p. 282)
Artëm si mise le mani fra le ginochia e iniziò a sfregiarle contro i pantaloni. Sapeva che si trattava di una forma di psicosi, di pazzia, ma non poteva farci niente. Sentiva di avere le mani appiccicaticce, come dopo aver mangiato in un bar lurido, caldo come un forno: l'uccisione gli si era attaccata addosso, l'uccisione più vile, non c'era modo di raschiarla via. (p. 304)
«Sai, ieri, quando i cechi ce le hanno suonate ad Alchan-Jurt? Insomma... è venuto fuori che durante la sparatoria abbiamo ucciso una bambina. Una bambina di otto anni e un vecchietto...» «Capita. Non stare a pensarci. Passerà. Se ti tormenti ogni volta, vai fuori di testa. Qui si uccide, e allora? Loro uccidono noi, noi uccidiamo loro. Anche io ho ucciso. È la guerra, merda. Non valgono un cazzo le nostre vite, figurati quelle degli altri... Non pensarci! Almeno finché non torni a casa. Gli sei ancora troppo vicino. Lei è morta, tu sei vivo, ma marcite sulla stessa terra, lei sotto, tu sopra. E magari la differenza fra voi può essere solo di un giorno.» (p. 305)
La guerra ha sempre lo stesso odore: diesel, polvere e un po' di angoscia. (p. 309)
In guerra le distanze si misurano in centimetri, il tempo si misura in secondi. Passano solo alcuni minuti, e sei già morto dieci volte, dieci volte sei risorto e altre dieci hai fatto in tempo a uccidere... (p. 349)
I galeotti non erano una novità nell'esercito. Soprattutto in Cecenia. Dagli albori delle guerre caucasiche sono confluiti qui avanzi di galera da tutta la Russia. L'odore del saccheggio e dell'impunità era così intenso per loro che nemmeno la paura della morte poteva fermarli. Impossibile, anche oggi, fare una stima dei delinquenti che all'epoca invasero la Cecenia. Avere uno o due precedenti per i soldati a contratto era una cosa normale. Molti avevano delle sentenze in sospeso. Si potevano incontrare persino individui che avevano sottoscritto l'obbligo di non abbandonare la propria residenza. (pp. 385-386)
Nell'immaginario romantico i soldati più disperati, quelli dotati di un eroismo impetuoso, si trovano proprio fra i galeotti. La leggenda vuole che in galera abbiano appreso le legi ferine della sopravvivenza. Nulla di più falso. Coraggio e cattiveria sono due cose diverse. Per essere un buon soldato è necessario non aver paura di morire. Bisogna essere pronti a dare la vita per il compagno, a strisciare per recuperare il ferito in uno spazio aperto sotto il fuoco dei tiratori scelti. La morale del criminale è ben altra: prima io, poi il resto. Quelli così non prendono parte agli scontri nemmeno se ce li mandi a fucilate. Troveranno sempre mille pretesi per rimanere accanto ai fornelli a controllare il fuoco. In casi estremi possono invocare la violazione dei diritti costituzionali e presentare istanza di congedo; infatti il contratto può essere rescisso in qualsiasi momento, persino nel bel mezzo della battaglia. Esiste uno specifico paragrafo a tal proposito. (p. 387)
Nel giro di un paio d'anni il raggruppamento unificato delle truppe in Cecenia si è trasformato in un rifugio sicuro per ex carcerati. Solo che adesso non affluiscono in un rifugio sicuro per ex carcerati. Solo che adesso non affluiscono qui per amor del saccheggio. Non è rimasto nulla da rubare, se si esclude qualche fusto di greggio da portare via. Adesso gli ex carcerati sono spinti dalle "scadenze". Per toccare il fondo non esiste un posto migliore della Cecenia. Ma l'importante è che in maniera assolutamente legale si possa scampare alla prigione. Secondo il codice penale, il termine di prescrizione viene applicato solo nel caso in cui il sospetto non si sia sottratto alle indagini. E se non solo non si è sottratto ma ha anche servito lo Stato? E magari si è anche guadagnato una medaglia? (p. 387)
I detenuti hanno introdotto la crudeltà nell'esercito. Risentimento e avidità sono i loro tratti distintivi. Ricordo un episodio a Černoreč'e: obbligarono un guerrigliero prigioniero a muoversi su un campo minato. Il campo era ricoperto di cadaveri, il reparto di Basaev che aveva sfondato uscendo da Groznyj. Il ceco riportò ai soldati armi, droga e soldi; loro lo rispedirono di nuovo sul campo a frugare nelle tasche dei morti. Il prigioniero riuscì a compiere tre viaggi, arricchendo i suoi padroni di trentamila dollari, finché una mina saltante antiuomo non gli spappolò mezzo piede. Lo fucilarono. La cosa peggiore è che con la loro crudeltà quei balordi contagiano gli altri. Quel ceceno era stato ucciso da un giovane di leva. Il soldato lo aveva condotto sulla diga e lì gli aveva sparato. E se ne vantava pure: «Ho fatto fuori un ceceno». Senza rendersi conto che sparare a un prigioniero senza un piede ed essere un soldato sono due cose diverse. (p. 388)
Il nonnismo è considerato una manifestazione estrema dell'esercito di leva. Si tende a credere che per risolvere il problema sia sufficiente il passaggio a un esercito a contratto. In realtà esistono già, da parecchio, reparti interamente formati da militari professionisti. Il risultato è lo stesso. Solo che il ruolo dei "nonni" è stato preso dai criminali. Ho visto con i miei occhi un piantone, un laureato, ex ingegnere, che puliva la caserma con uno straccio, prepararsi al turno successivo mentre un "nonno" spilungone e tatuato lo spronava a calci. (p. 389)
Per un esercito dal volto umano, di tipo non carcerario, è necessario mettere in pratica una serie di assiomi tanto ovvi quanto impossibili da applicare. Un soldato dovrebbe servire, mentre la pulizia dei cessi andrebbe riservata ai civili volontari. Un soldato dovrebbe ricevere uno stipendio adeguato e tenerci così a non perdere il proprio posto. La selezione professionale dovrebbe ispirarsi ai criteri delle scuole per astronauti, dove una multa per eccesso di velocità equivale a mettere una grossa croce sulla carriera. Un soldato dovrebbe essere inviolabile: chiunque alzi le mani su di lui, compreso il ministro della Difesa, dovrebbe finire dietro le sbarre. Allo stesso modo, qualunque atto di violenza commesso da parte del soldato andrebbe punito con la detenzione. D'altronde è evidente che questa è un'utopia. Frasi come "Faccia a terra, brutto stronzo, ora flessioni!" si sentiranno ancora per un bel po'. (pp. 389-390)
Non puoi spiegare che cos'è la guerra a chi non ha combattuto, così come non puoi trasmettere a un cieco la sensazione del verde, o a un uomo cosa vuol dire essere incinta e partorire. Perché sono privi degli organi sensoriali necessarie. La guerra non si può raccontare o capire, la si può solo provare. (pp. 392-393)
In dieci anni di guerra circa un milione di militari è passato per la Cecenia. La popolazione di una grande città. Cinquanta divisioni di soldati sottoposti al fuoco, che rientrando a casa introducono nella vita civile la loro filosofia di pensiero, la filosofia della guerra. Ave Caesar, morituri te salutant! A diciotto anni avevano già ucciso degli adulti più anziani dei propri padri, avevano visto come questi uomini adulti morivano per i proiettili sparati con le loro mani. Le autorità non esistono più. E nemmeno Dio. Sono pronti a tutto. Nel loro mondo non c'è spazio per le donne, i bambini, gli anziani, i malati, gli scienziati. Esistono solo obiettivi: rischiosi, potenziali. (p. 397)
Si dice che le guerre giuste generino poeti, mentre quelle ingiuste i pazienti degli ospedali psichiatrici. Si dice anche che debbano trascorrere fra i dieci e i dodici anni prima che inizino a scrivere di guerra. La Cecenia è iniziata dieci anni fa. L'Afghanistan, venti. I parametri temporali sono rispettati. I manicomi traboccano di veterani, non ne prendono più. Ma questa guerra ha generato anche dei poeti. Così come ne ha uccisi. (p. 400)
Explicit
Non abbiamo combattuto contro i ceceni o contro gli afghani. Abbiamo combattuto contro questo modo di vivere. Abbiamo combattuto contro la falsità, per il bene e la giustizia. Ogni proiettile esploso contro di noi è stato sparato contro la giovinezza di questo mondo; ha colpito la fede nell'integrità morale, nell'amore e nella speranza, il desiderio di cambiare questa vita. Ogni colpo ha raggiunto direttamente i nostri cuori. Ha dilaniato non soltanto i corpi, ma le anime, e sotto il fuoco la nostra visione del mondo si è incenerita. Non avevamo nulla per colmare il vuoto che si era formato dentro di noi, non ci è rimasto niente, a parte noi stessi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri compagni. Tutto quello che conosciamo della vita è la morte. Tutto ciò che amiamo è il nostro passato, un miraggio spettrale nel mondo che infuria. Abbiamo perso questa guerra, e adesso, stiamo nei lazzaretti a leccarci le ferite. Ma siamo rimasti vivi. L'operazione "Vita" continua. Una nuova colonna attende al punto di accesso. Tutti pronti?
Incipit
Mi chiamo Arkadij Arkad'evič Babčenko. Ho trentasette anni, un'istruzione superiore, sono coniugato, padre di una figlia. Quando avevo diciannove anni, la Patria mi ha calzato ai piedi gli anfibi, ficcato in mano un mitra, fatto montare su un blindato e mi ha detto: «Parti». E io sono partito. «Ripristino dell'ordine costituzionale», così veniva chiamata quella guerra all'epoca. Quando ne avevo ventidue, mi sono presentato all'ufficio di leva e ormai di mia iniziativa mi sono arruolato volontario nell'esercito e sono andato in guerra per la seconda volta. «Operazione antiterroristica», così si è cominciata a chiamarla nel '99. «Nel corso di centodue giorni ha preso parte diretta alle azioni belliche», è annotato sul mio libretto militare. Per queste due guerre la Patria mi ha accordato la tessera gratuita per i trasporti pubblici e un'indennità di duemila rubli. Sempre meglio che niente.
Citazioni
[Sulla rivoluzione ucraina del 2014] Non ho mai sentito in vita mia una tale quantità di porcherie nei miei confronti e verso i miei cari come in questi pochi ultimi mesi. Durante il Majdan «fascista e giudeobanderista» in nessuna circostanza e in nessun luogo è mai capitato che qualcuno mi chiedesse di quale nazionalità fossi. A quelli del Settore Destro che, spalla a spalla, lottavano sulle barricate insieme a russi, ebrei, tartari di Crimea, armeni non gliene poteva fregare di meno. Se ne infischiavano altamente. Era altro che a loro interessava. Invece, in Patria... [...] Adesso sono diventato per la Patria un ebreo, un chochol, un banderista, una quinta colonna e un traditore della nazione. (pp. 8-9)
L'uomo, per la cui ascesa al trono è stata scatenata la Seconda guerra cecena, che da parte sua non ha mai combattuto per la propria Patria, evitando felicemente l'Afghanistan, e che poi, una volta messe le mani sul potere, ha mandato nelle guerre scatenate ormai per sua iniziativa in Georgia e in Crimea, invece di se stesso e dei propri figli, appunto quei medesimi ragazzi di leva, adesso dalla tribuna accusa il sottoscritto, che ha partecipato alla sua guerra da volontario, di essere un traditore, un agente del nemico e una persona di terz'ordine. (p. 9)
La Russia è una nazione costantemente in guerra. A partire dall'invasione napoleonica, siamo stati coinvolti in conflitti più o meno importanti in media una volta ogni venticinque anni. Ossia, la guerra è toccata in sorte a ogni generazione del nostro Paese. In virtù di questo, è entrata nel codice genetico della nazione, ha modificato i nostri geni. E nel nostro «ospedale» la percentuale di portatori di questo virus è ben più alta della media. (p. 10)
[Sulla Russia sotto Vladimir Putin] Mi demoralizza che la percentuale di fisici, ingegneri, filologi, astronomi, botanici, linguisti, matematici, bibliotecari, o giusto persone colte, sia diventata così catastroficamente infima rispetto a quella di xenofobi, oscurantisti, farabutti, o giusto stupidi. Mi deprime non scorgere quasi più in metropolitana facce da intellettuali. Sono rattristato perché dalla mia vita è scomparsa quella categoria di fisici e lirici occhialuti e appassionati che discutevano animatamente tra di loro e credevano soltanto nella scienza, non nei quattrini, né nel pope o nello zar. Sono amareggiato perché questo Paese ha espulso dai propri confini le persone intelligenti e continua a cacciare le poche che restano. (pp. 13-14)
Durante la guerra ho constatato che è possibile trasformare un essere umano in una bestia nel giro di un paio di settimane. Ma che fosse possibile trasmutare un intero popolo in una torma di idioti morali giusto in un paio di anni, per me è stata una nuova scoperta. Com'è che diceva Joseph Goebbels: datemi i mezzi di comunicazione di massa e vi trasformerò qualsiasi nazione in un branco di animali? Anche questo mi rattrista. (p. 14)
Mi demoralizza che nel mio Paese in un lasso di tempo incredibile breve – nel giro giusto di un decennio – siano potuti emergere tutti questi Ėnteo, Bosych, Judenič, ammollatori nei cessi, Gundjaev, Surkov, gonfalonieri, cosacchi, ronde patriottiche e via dicendo. Mi demoralizza che la mia nazione abbia permesso a questa gente non solo di mettersi in luce, ma anche di fare il diavolo a quattro e schizzare saliva sempre più. Mi demoralizza che il mio Paese abbia lasciato prendere il potere a individui del genere – a canaglie, idioti e castrati morali – e si faccia comandare da loro a bacchetta. Ecco, questo davvero mi butta giù. (pp. 14-15)
Sono abituato a vedere che i reduci per la nostra nazione esistono solo sotto forma di immagini sulla zombo-tivvù. Non le servono in un'altra veste. In tal modo è possibile evitare di concedere a un reduce il sussidio che gli spetta, dire «non sono stato io a mandarvici», buttare sulla strada la madre di un ufficiale caduto in Cecenia, negare pensioni da quattro soldi alle madri dei soldati morti carbonizzati a Groznyj, mandare di nuovo dei pischelli a bruciare dentro i carri armati in Georgia, concedere due spiccioli di pensione a ragazzi costretti sulla sedia a rotelle, sotterrare chi non è stato identificato nel cimitero Bogorodskoe, lontano da occhi indiscreti... Si può fare di tutto. E se inizi a protestare, ti strofinano il grugno sull'asfalto fino a farti passare la voglia. Credi di essere tu il più furbo, reduce dei miei zebedei. (pp. 16-17)
[Sull'annessione della Crimea alla Russia] Ebbene, benvenuti, cari crimeani! Siamo lieti di vedervi. E nelle prime righe della mia lettera lasciate che mi congratuli con voi per il fatto che questo sarà l'ultimo referendum della vostra vita. Potete scordarvi ogni genere di «espressione della volontà». Non avrete più modo di scegliere, no, mia più nulla. Mai più nulla. Nemmeno il colore dei cordoli nel vostro cortile natio. Mettetevelo bene in testa da subito. Secondo, potete dire addio alla vostra televisione. Arrivederci, dirette, talk show e dibattiti. Benvenuti, cupo squallore, cadaveri, idioti e battute a sfondo sessual-scatologico. Solo Kiselëv, solo il peggio del peggio! E via libera alle linee dirette con Putin. Terzo, riavete l'esercito di leva. Questo, per la verità, è un argomento a parte. Dopo ventitré anni di occupazione, chiaro, ormai vi siete dimenticati cosa significhi quando vi portano via i figli per mandarli sotto la naia. Be', non importa. Farete in fretta a ricordarvelo. E vi tornerà in mente in particolare quando i vostri figli nel nostro – sorry, ormai anche vostro – esercito inizieranno a morire di malattie di cui nel resto del mondo ormai da cento anni non muore più nessuno. Per esempio la polmonite. Dopo il clima della Crimea, è proprio l'ideale prestare servizio militare da qualche parte sull'isola di Kunašir. (pp. 23-24)
[...] gli eserciti delle nazioni che vivono nel XXI secolo e nella società dell'informazione stanno convertendo le loro forze armate in contingenti militari automatizzati e robotizzati: i droni solcano gli spazi aerei, mentre il soldato diventa un singolo complesso da combattimento, connesso a un sistema informatico con videocamera, navigatore, visore notturno, posizionamento GPS, ecc., ecc., ecc.; mentre noialtri ancora discutiamo se un uomo debba o meno prestare il servizio militare. A proposito, consideri come mai nella guardia personale di Putin non c'è nemmeno un soldato di leva, ma solo e soltanto superprofessionisti con il grado di tenente colonnello. Perché i nostri governanti si fanno proteggere da militari di professione, mentre propongono al Paese di difendersi con i suoi stessi ragazzini di diciotto anni? (p. 48)
Siccome il nostro è un esercito di operai e contadini e vi prestano servizio soltanto operai e contadini, lo Stato se ne sbatte alla grande di risorse umane così a buon mercato. Perché apprezzare qualcosa che in fondo è gratis? Le femmine ne scodelleranno altri. Perciò la nostra nazione getta i propri soldati nello sciacquone, sempre, e poi tira la catenella. Dopo la Cecenia non avevamo neppure un solo sistema di riabilitazione per gli ex combattenti. E nemmeno adesso esiste. Perciò, una volta tornati dalla guerra, quei ragazzi con i capelli grigi e gli occhi senza fondo sono rimasti da soli con se stessi. E nella stragrande maggioranza dei casi o si sono dati all'alcol, o sono finiti dentro, o sono tornati al fronte. Io non volevo né darmi all'alcol né finire dentro, perciò sono ripartito per la Cecenia. Ed eravamo in migliaia nella stessa situazione. E non ha proprio nulla a che vedere con il patriottismo. E se ci fosse stata la guerra a Mosca, saremmo stati felici di combattere anche a Mosca. Oh, non ha idea di quanto saremmo stati felici di combattere a Mosca! (pp. 48-49)
[Sulla Russia sotto Vladimir Putin] Regimi di questo tipo possono essere piuttosto stabili. E non vengono in alcun modo minati dall'inevitabile impoverimento progressivo della popolazione. Al contrario: quanto più la popolazione è povera, quanto più stabile è il potere. Non c'è regalo migliore per un dittatore del programma «Petrolio in cambio di alimenti». La povertà e un nemico esterno rappresentano una vera e propria manna dal cielo. Purché funzioni la tivvù. E da noi funziona a tutta birra. I bambini moriranno di fame negli androni, ma la televisione non resterà senza soldi. (p. 52)
[Sulla Russia sotto Vladimir Putin] Povertà, guerra, carcere e telezombizzazione, ecco i quattro pilastri di questo regime. (p. 55)
[Sulla Russia sotto Vladimir Putin] Abbiamo avuto l'occasione più che unica di diventare veramente uno dei principali Stati della comunità mondiale, ci sono state messe a disposizione TUTTE le opportunità di credito, ci è stata aperta ogni porta e siamo stati accolti in tutti i circoli, con un sorriso e una stretta di mano; ma abbiamo mandato tutto in fumo, a puttane, abbiamo usato i soldi che ci piovevano dal cielo per sontuosi palazzi, giochetti olimpici, Mercedes, parate militari, guerre, omicidi, e per la chiassosa propaganda della nostra grandezza. C'è stata data una chance, ma abbiamo di nuovo dimostrato a tutto il mondo solo una cosa: la nostra incapacità di generare democrazia, tecnologia, economia, stabilità, sviluppo e sicurezza. Siamo in grado soltanto di generare «putin» nelle loro varie versioni. (p. 57)
Per troppo tempo da queste parti si è distrutto tutto quello che si innalzava anche solo di due dita sopra una bottiglia di birra Žigulëvskoe. Troppo a lungo, per secoli, è stato annientato nella nostra etnia il gene dell'amore per la libertà, dell'anticonformismo, dello spirito di iniziativa, dell'operosità, del dissenso, dell'indipendenza di pensiero, dell'analisi critica delle informazioni. E anzi, negli ultimi cento anni, è stato proprio estirpato a colpi di falce. (p. 58)
Il principale contributo di Putin è stato quello di tirare fuori tutto il peggio dalle persone. Tutto l'odio, tutta la xenofobia, tutta l'aggressività. I tratti più schifosi, più infimi, più neri della natura umana. Non c'era riuscita neppure l'URSS. Persino il regime dei Soviet si era limitato a proclamare classe egemone il proletariato, mentre in realtà classe egemone erano l'intellighenzia operaia, gli ingegneri e gli insegnanti, i cosiddetti fisici e lirici. Invece Putin ha sollevato dal fondo e ha reso classe egemone non semplicemente il sottoproletariato – in quanto anche il sottoproletariato può essere privo di aggressività –, ma i coatti aggressivi. (p. 58)
Se mi fosse chiesto di caratterizzare in una parola il «Mondo russo», senza esitazioni risponderei: «infantilismo». Proprio questo concetto descrive nel modo migliore la condizione della società russa contemporanea. [...] Il fatto è, però, che l'intera società è permeata dall'infantilismo, dall'alto in basso, indipendentemente dalla posizione sociale, dal reddito e dalla casa... ecco quello che sorprende! (pp. 62-64)
L'infantilismo elevato al rango di politica statale. Non credo ci sia mai stato qualcosa di simile nella storia. A caratterizzare in particolare una persona adulta è la capacità di assumersi la responsabilità. La responsabilità degli altri, della propria nazione, ma soprattutto delle proprie azioni. Era qualcosa che insegnava persino l'URSS. Addirittura il Paese dei Soviet, pur soprrimendo qualsiasi manifestazione della personalità individuale, insegnava che bisogna essere onesti, non vanno dette bugie e c'è da rispondere dei propri atti. Il putinismo, credo, è il primo regime nella storia che ha adottato come ideologia ufficiale un comportamento deviante. (p. 66)
[...] già da qualche anno in occasione della Giornata della Vittoria cerco ogni volta di andarmene da Mosca. Per me è ormai diventato uno spettacolo intollerabile. Per alcuni giorni la nazione, già nel resto dell'anno non del tutto sana sotto il profilo psichico e morale, si trasforma in un vero e proprio manicomio. Inizia l'ennesima crisi di recrudescenza. Inattaccabile da qualsiasi rimedio medicamentoso. Gli occhi diventano vitrei, i discorsi si fanno farneticanti, la visione del mondo schizofrenica. Bava alla bocca, «i nonni hanno combattuto», «possiamo rifarlo», «fascisti», «banderisti», «cenere radioattiva», «la Crimea è nostra», «Obama-mezzasega». Falsi i berretti a bustina, false le uniformi e le medaglie, i bimbi mascherati con false gimnastërki, falsi gli adesivi, falsi i nastri di san Giorgio. Perché fare indossare ai vostri bambini la divisa? Perché girate una glip riguardo a un ragazzino in telogrejka morto? Perché vostra figlia di dieci anni fa disegni sulla guerra con le ceneri del bisnonno cremato? Lo sa solo il diavolo... Si usa così. (pp. 71-72)
La Giornata della Vittoria ha assunto un senso diametralmente opposto a quello originale, e io ormai non capisco più che cosa rappresenti questa ricorrenza. Il significato originario mi risultava comprensibile: perché non si ripetesse mai più niente del genere; per ricordare; per non dimenticare; per mettersi in ginocchio. Sì, anche allora non si trattava che di menzogne. Ma perlomeno a parole si invocavano principi antimilitaristi. E l'arsenale bellico che sfilava sulla Piazza Rossa era dichiarato necessario per la difesa, non per l'aggressione. Per difendere dai maledetti capitalisti le nostre frontiere imbozzolate. Invece, adesso? (p. 73)
In realtà, nella Russia contemporanea sarebbe più giusto chiamare questa ricorrenza non Giornata della Vittoria, bensì Giornata panrussa del mercimonio della Vittoria. (p. 76)
Sono stanco di seppellire i miei compagni. Durante tutto questo periodo, ogni volta è la stessa cosa. Una maledetta serie infinita di vite spezzate. Solo tra le persone che rientravano nella mia cerchia di contatti, con cui ero in rapporti di amicizia, simpatia o conoscenza, sono stati uccisi Jurij Ščekočichin, Anna Politkovskaja, Stanislav Markelov, Anastasija Baburova, Natal'ja Ėstemirova, Boris Nemcov; e solo grazie ai brillanti sforzi dei medici è sopravvissuto Vladimir Kara-Murza. Questa guerra si è portata via Andrej Mironov. Ed ecco che ora è stato ucciso Pavel Šaramet. Ripeto, si tratta solo di quelli che conoscevo di persona. E parlo solo di chi è stato ucciso. Quelli che sono stati pestati, aggrediti, schiaffati in galera o costretti a emigrare sono decine. Decine. Solo nella mia cerchia. (p. 80)
Il regime ha adottato la linea di non procedere ad arresti e repressioni – si tratta di rogne superflue, c'è anche il rischio che ne parlino sulla BBC –, bensì di costringere i dissidenti a lasciare il Paese. Dopo un paio di velati avvertimenti, partono le minacce dirette, poi iniziano le pressioni e, se alla decima volta uno non capisce l'antifona, alla fine, chiaro, viene messo dentro. (p. 96)
[Sulla seconda guerra in Ossezia del Sud] È stata una guerra che più autentica non si può. La prima delle guerre putiniane di nuovo tipo, in tutto e per tutto ipocrite, infami, di conquista. Proprio in quell'occasione è stato testato l'insieme di tecnologie che osserviamo ora, durante l'annessione della Crimea, durante l'operazione del Donbass e i bombardamenti in Siria. Omini verdi, quasi-Stati fantoccio interamente diretti, controllati e riforniti dalla Russia, le menzogne folli e sfrenate della zombo-tivvù, l'impazzimento di una nazione e la schedatura dei ragazzini georgiani nelle scuole, i primi «bambini crocifissi», il primo fascismo georgiano, reo di avere ammazzato duemila civili, la prima vera e propria trasformazione, senza titubanze, dei mass media in tecnologie di zombizzazione e omicidio... sono cose che si è iniziato a fare apertamente allora. (p. 102)
[Sulla seconda guerra in Ossezia del Sud] I primi bambini in mutandine crocifissi: quando la televisione russa ha incominciato a mentire apertamente, senza esitazioni, mettendo da parte in sostanza tutte le convenzioni a cui bene o male aveva provato ad attenersi fino a quel momento. Menzogne riguardo all'attacco proditorio, menzogne in merito alla città pacifica cancellata dalla faccia della terra, menzogne sui duemila morti ammazzati, menzogne sull'aggressione da parte della Georgia: menzogne, menzogne, menzogne. Nient'altro che menzogne. Un flusso ininterrotto. Una deliberata strategia per fare impazzire la nazione e trasformarla in una massa di aggressivi Erectus, disposti a cercare nelle scuole i ragazzini georgiani e a deportarli come essere umani di seconda qualità. E la popolazione che per la prima volta si mostrava pronta a rispondere a questi appelli della zombo-tivvù. Sì, non tutta quanta. Sì, allora c'era ancora una resistenza piuttosto attiva alla disumanizzazione. Ma sono trascorsi altri sei anni e questa resistenza è stata totalmente dissolta, ridotta alla monolitica follia del grido «la Crimea è nostra». (pp. 104-105)
[Sulla seconda guerra in Ossezia del Sud] Allora il mondo non lo ha capito. Non ha voluto capirlo. Ha scelto la via di una codarda pacificazione delle «parti in conflitto» invece di reagire con il massimo rigore contro l'aggressore e invasore. Invece di dargli una bella lezione, introdurre severissime sanzioni, chiamare le cose con il loro nome e, di conseguenza, optare per una strategia di confronto diretto, ha preferito le trattative e i guanti di velluto. (p. 105)
[Sulla Giornata della Vittoria] Tutte queste lacrime riguardo ad avvenimenti di quasi un secolo fa non sono che nauseante ipocrisia. A chi ne ha fatto esperienza diretta la guerra può evocare soltanto un sentimento: orrore. Già il solo pensiero di richiamare alla mente tutti quei ricordi fa inorridire. Andarsene poi con le fotografie dei caduti e ballare lungo il viale a suon di fisarmonica... Invece di organizzare questo po' po' di parata, voialtri fareste meglio a dedicarvi a comprendere il passato. Comprenderlo, prenderne coscienza, pentirvene e non permettere che si ripeta. Macché! La loro nazione di nuovo sta distruggendo i Paesi vicini e questi qua se ne vanno a zonzo con quei ritratti e sono chissà perché pieni di orgoglio. Per fatti accaduti settant'anni fa. Ai quali nessuno di loro ha preso parte. (p. 108)
[...] in realtà, i russi non vanno fieri di niente. La Russia è una nazione pervasa da una mentalità assolutamente sovietica: chiudere gli occhi e proseguire oltre. Sempre. Far finta di non aver visto nulla. Urlare durante i comizi quanto impone il partito e, dopo la manifestazione, dirne peste e corna tra compagni, bevendo vodka dietro il garage. Perciò il russo, pur non andando in realtà fiero di nulla, si mostrerà ostentatamente orgoglioso di quello che gli verrà detto dalla zombo-tivvù. A seconda di quanto gli verrà indicato, sarà fiero della vittoria nella Grande guerra patriottica, della Crimea, di Trump... E se gli diranno «Obama», andrà orgoglioso pure di Obama. (p. 109)
[...] la nazione russa, incapace di empatia, è anche incapace di provare orgoglio. L'orgoglio è sempre legato indissolubilmente alla vergogna. E se non si è in grado di sentire vergogna, non si è neppure capaci di provare orgoglio. (p. 110)
La Grande guerra patriottica. Be', al riguardo è tutto più o meno chiaro. Un simile conflitto esiste solo nella storiografia russa. In tutte le altre non è che una parte della Seconda guerra mondiale. Conflitto in cui l'URSS è entrata nel 1939 in alleanza con la Germania. (p. 111)
Dalle nostre parti si dice assai volentieri che il programma spaziale americano è stato creato da Werner von Braun, responsabile del progetto dei v2. E non piace affatto ricordare che il vice di von Braun, l'ingegnere Helmut Gröttrup, ha collaborato alla realizzazione del programma spaziale dell'URSS, nella filiale dell'Istituto di ricerca scientifica NII-88, sull'isola Gorodomlja del lago Seliger. Nonché che il primo missile dell'URSS, lanciato il 18 ottobre 1947 alle 10 e 47 minuti ora di Mosca dal cosmodromo di Kapustin Jar, non era altro che un v2, sulla cui base in seguito è stato costruito l'R-1 sovietico. Insieme a Gröttrup, al programma spaziale sovietico hanno lavorato alcune centinaia di scienziati tedeschi. (p. 112)
Tutta l'industrializzazione [sovietica], per intero, è stata realizzata da americani e tedeschi. Tutta per intero. General Electric e Siemens. Il simbolo dell'industrializzazione, la centrale idroelettrica del Dnipro: principale consulente del progetto fu lo statunitense Hugh Cooper; i macchinari, della Krupp di Mannheim; le turbine, della General Electric. L'unico apporto sovietico è rappresentato dal lavoro schiavistico dei deportati. Ed è così in tutti gli altri progetti. In tutti. Il complesso siderurgico di Magnitogorsk, gli americani. La fabbrica di trattori di Čeljabinsk, idem. L'azienda automobilistica GAZ, idem. Lo stabilimento di autovetture AZLK, la Ford: all'inizio produceva per l'appunto la Ford Model A. L'azienda aeronautica di Kazan', i tedeschi. Il complesso industriale metallurgico di Novokuzneck, i cechi. [...] Persino il patriarcale e nazional-popolare Uralmaš è stato realizzato dai tedeschi! L'unica cosa che l'URSS ha realizzato da sola, senza i maledetti capitalisti, è il canale del Mar Bianco. E, come si è poi visto, non serviva a un accidente, tanto che ormai da un pezzo non lo usa più nessuno. (pp. 112-114)
La gloria delle armi russe. A un esame attento, molte imprese diventate in seguito leggendarie danno, per così dire, adito a interrogativi. Durante la marcia attraverso le Alpi, Suvorov addirittura abbandonò i suoi soldati feriti. I ventotto eroi di Panfilov banalmente non sono proprio esistiti. Il duello tra Peresvet e Čelobej è una pura e semplice favola. La battaglia di Borodino fu una vittoria davvero unica, dal momento che i russi nel difendersi subirono più perdite dei francesi che attaccavano, abbandonarono il campo, continuarono a ritirarsi e in ultimo consegnarono Mosca al nemico. La testa di ponte sul fiume Neva venne disseminata di cadaveri proprio senza alcun senso. La difesa della fortezza di Brėst è un mito. Non c'è stata nessuna «Strage sul ghiaccio»: si è trattato di una scaramuccia presso non so che ponte che attraversava un fiumiciattolo, scontro a cui hanno partecipato in totale ventisei cavalieri russi, venti sono stati uccisi e sei presi prigionieri. A comandare il drappello, con ogni probabilità, era Andrej, il fratello di Aleksandr, per cui anche l'eroico Aleksandr Nevskij, quale ci è stato descritto dalle leggende, verosimilmente non è mai esistito nella realtà. La battaglia di Kulikovo non si è svolta né come né dove né allo scopo narrato. Pietro I è scappato da Narva, abbandonando l'esercito, e per la fifa si è sbronzato alcuni giorni di fila. Nessun Oleg ha inchiodato alcuno scudo alle porte di Car'grad, tanto più che questo Oleg nemmeno è mai esistito. Svjatoslav, invece, sì, è vero, in effetti ha sbaragliato la Cazaria. C'è però un «ma»: la Cazaria era uno Stato di religione ebraica con un esercito composto da mercenari musulmani. E dopo la Cazaria ha sbaragliato anche la Bulgaria, insediandosi a Preslav e considerando appunto quella città il «centro della sua terra». Ecc., ecc., ecc. (pp. 114-115)
I mini sottomarini di acque profonde MIR, nostro orgoglio, sono finlandesi. La petroliera rompighiaccio russa Timofei Guženko, la più grande al mondo, è stata completamente costruita in Corea del Sud dalla ditta Samsung Heavy Industries. Nell'aereo di linea russo Suchoj Superjet di russo c'è soltanto l'alluminio. La piattaforma petrolifera artica russa Prirazlomnaja, unica al mondo e «senza analoghi», non è altro che la piattaforma norvegese Hutton TLP, costruita nel 1984. La nave Akademik Mstislav Keldyš, da cui James Cameron ha appunto calato i MIR per le riprese di Titanic, è finlandese. I batiscafi, a bordo dei quali Putin si è immerso da qualche parte nei pressi di Chersoneso Taurica, la nostra (greca) terra santa, sono olandesi. (p. 116)
Siamo un Paese che non prova orgoglio per quanto è davvero accaduto. E che va fiero di tutte le fandonie che si è inventato riguardo alla propria grandezza. [...] Solo i Paesi che vivono nella realtà diventano davvero grandi. Quelli che conoscono per intero il proprio passato – sia gli aspetti luminosi sia quelli oscuri della propria storia –, che si rendono conto degli errori e adottano misure per evitare di ripeterli in futuro. La grande Germania è diventata tale solo dopo che per vent'anni è stata forzata a tornare alla realtà. Lo stesso accadrà anche alla Russia. Indubbiamente. Si è sempre trovato il rimedio contro valori tradizionali ed eccessi di spiritualità. Anche questo Paese verrà guarito. Sarà senz'altro spinto a tornare alla realtà. E verrà costretto, sì, costretto a studiare la propria vera storia. Solo che si tratterà di una cura dolorosa. Ma, per il momento, continuerà a provare un mitico ed etilico orgoglio per il suo cromosoma in più. (pp. 116-118)
«La mia nazione è colpevole, ma è la mia nazione» è un argomento che non ha più valore nella mia visione del mondo. Nessun valore. Voi non siete la mia nazione. Io non vi ho scelto. Il mio e il vostro culo sono semplicemente cresciuti nello stesso riquadro di terreno, ma non fate parte dei «miei». E mai ne avete fatto parte. Siete solo colpevoli. Siete una nazione assassina, una nazione di invasori, una nazione di bastardi. E io adesso sto dall'altro lato della barricata. Dove mi sarei ritrovato fin dal principio, se già allora avessi avuto libertà di scelta e non fossi nato schiavo in quel vostro dannato Impero. Invece voi, miei ex «miei», siete gli invasori. Siete gli aggressori. Siete gli occupanti. Siete i miei nemici. E leggendo delle vostre imprese, del vostro eroismo, delle vostre sofferenze e dei vostri morti, mi rendo conto soltanto di una cosa, mi colgo a pensare solo questo: troppo poco. Dovete soffrire di più. (pp. 121-122)
Io non sono Vlasov. A Vlasov è toccato scegliere tra Hitler e Stalin. Tra il Male e il Male. Oggi Stalin è la Russia. E chi sarebbe Hitler? Quale sarebbe il secondo dei due mali tra cui bisognerebbe scegliere? Forse l'Ucraina? O magari i crimeani? O la Georgia, che avete occupato? L'Europa? L'Unione Europea? La NATO? La Lituania, che volete occupare? CHI sarebbe??? Non c'è nessun secondo male. Ci siete soltanto voi. Solo un unico stramaledetto male. (p. 122)
L'unico desiderio riguardo al vostro Paese è che questo maledetto Mordor cessi di esistere. Né più e né meno. Cessi. Di esistere. E basta. Non ho bisogno di una Russia diversa. Non ho affatto bisogno di nessuna Russia. Perché la Russia – in qualsiasi sua manifestazione, non importa se quella zarista, bolscevica o attuale – è un Impero. Invece io la vorrei piccola – e allora sì che sarebbe davvero libera e democratica –, una Moscovia. Come l'Italia dopo l'Impero romano. Come la Germania dopo il Terzo Reich. Così la Moscovia dopo la disgregazione di Mordor. E vorrei un Tatarstan libero. Una Baschiria e una Buriazia libere. Un Caucaso libero. Una Repubblica popolare del Litorale (ecco, laggiù potete a volontà inzeppare i posti di blocco di alcolizzati armati di mitra). E, Stato a parte, la Sacha-Jacuzia. Vorrei una Repubblica popolare della Pomerania. La Carelia indipendente. Come pure l'Adighezia, la Calmucchia e la Circassia. In breve, tutti i territori che, da un fuso all'altro, avete conquistato, soggiogato, insudiciato, bruciato, e ora facendo i santarellini considerate roba vostra, russa dalla notte dei tempi, senza sinceramente capire cosa ci sia di sbagliato. (p. 124)
[Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022] Per la prima volta in quindici anni ho guardato il discorso del Cazzone. Per intero. Il nostro nanerottolo sta proprio fuori come un balcone. Mica dichiara guerra all'Ucraina, no: parla di una nuova spartizione del mondo. Nel suo discorso l'America occupa uno spazio dieci volte maggiore dell'Ucraina. Cosa è stato capace di rivangare. Quante ne ha sparate. La Seconda guerra mondiale, il crollo dell'URSS, l'Iraq, la Libia, Belgrado; ha dichiarato che «siamo noi (la Russia) a difenderci dalla NATO», che «non tollereremo la presenza di fascisti ai nostri confini», e in pratica ha detto chiaro e tondo che impiegherà le armi nucleari in caso qualcuno interferisca nell'occupazione dell'Ucraina, occupazione che lui, comunque, non ha intenzione di effettuare. E tutto questo coabita dentro la stessa testa. Ebbene, russi, preparatevi. Cominciate a misurarvi i pastrani militari. (p. 130)
A dirla papale papale, il Blitzkrieg è riuscito di merda. Anzi, per la precisione non è riuscito affatto. Sei proprio un Cazzone, Vova. In ogni cosa. Persino come invasore. (pp. 131-132)
Ma qualcuno riesce a capire cosa diavolo sta succedendo, insomma? Porca troia, ma oltre a mandare quelle reclute sudice e pidocchiose a bruciare dentro gli MT-LB nelle periferie cittadine, come trent'anni fa a Groznyj, altre strategie non ne hai? È in questa maniera qua che volevi conquistare una nazione di quaranta milioni di abitanti? È questo il massimo che il Cazzone si è rivelato in grado di fare? Tutto il suo Blitzkrieg? Oppure cosa? [...] Non riesco a capire. Il Cazzone è in ogni cosa Cazzone. (pp. 133-134)
Cercano di circondare Kiev. Apparentemente in Cecenia questa tattica ha dato ottimi risultati. In Cecenia ci sono soltanto tre città: Groznyj, Argun, Gudermes. Il resto sono villaggi. Circondare e rastrellare un villaggio, ok, è fattibile. In tutta la Cecenia ci sono un milione e mezzo di abitanti. E ci hanno messo quindici anni per prenderla sotto controllo. Nella sola Kiev e sobborghi ci vivono quattro milioni e mezzo di persone. Come è possibile passare al setaccio una città che da sola ha tre volte più abitanti dell'intera Cecenia? (p. 140)
Vent'anni. Per vent'anni hanno riarmato l'esercito. Lo hanno pompato all'incredibile. Ci hanno riversato fiumi di soldi, tipo ventimila miliardi di rubli. Hanno battuto la grancassa annunciando armi ultramoderne, ipersoniche, merdavigliose e senza analoghi al mondo. [...] Guardo le foto e i video: vedo sempre le stesse vecchie e obsolete autoblindo BTR-80, nella variante A, e i cingolati MT-LB. MT-LB, porca puttana!!!! Cingolati degli anni Settanta! E su questi MT-LB viaggiano certi soldati sgangherati che in confronto un milite ucraino della difesa territoriale sembra Terminator. (pp. 141-142)
Le perdite dell'esercito russo nella Prima guerra cecena, dal 1° gennaio 1995 al 31 agosto 1996, ammontano a 3860 uomini. Le perdite nel corso dei dieci anni della guerra afghana ammontano a quindicimila uomini. Per comprendere la portata di quanto sta accadendo. Il conflitto in Ucraina in due giorni ha mietuto tante vittime QUANTE CE NE SONO STATE IN CECENIA DURANTE L'INTERO ANNO E MEZZO. Oppure in Afghanistan in due anni di guerra. Se i dati sulle perdite russe comunicati (100 carri armati, 500 autoblindo e 3500 morti) sono veri – se sembra che, in linea massima, sia una stima realistica –, si tratta di numeri semplicemente stratosferici. Sono cifre spropositate. Né l'URSS né la Russia hanno in generale mai conosciuto simili perdite giornaliere dai tempi della Seconda guerra mondiale. (p. 147)
Putin viveva sul serio all'interno di un mondo tutto suo e credeva davvero di avere a disposizione un esercito grande e invincibile, e non un branco di pecorini demotivati a bordo di ferrivecchi. Chissà, forse avevano paura di dirgli la verità, o magari gli hanno troppo leccato il culo. E così la realtà non è più riuscita a farsi strada. Buon risveglio, Voloden'ka. (p. 149)
I russi sanno battersi bene solo a due condizioni: a) quando difendono la propria terra e b) quando al tempo stesso hanno alle spalle i reparti di sbarramento. Ma non sono capaci di impadronirsi delle terre altrui. Le possono sommergere di cadaveri, questo sì, ma per farlo è necessario che l'avversario sia debole, oppure poco numeroso, in modo che proprio fisicamente non sia in grado di neutralizzare la montagna di rottami che gli viene scagliata contro. Così è successo in Cecenia, così è stato in Georgia. E lo stesso è accaduto in Afghanistan, dove l'avversario, tanto per dire, era estremamente debole, ma non così poco numeroso; e comunque ci sono voluti dieci anni e un milione di vittime afghane per finire la guerra. E, nonostante tutto, l'hanno persa. Dovunque incontrino resistenza i russi iniziano a sfaldarsi. Non capiscono perché si trovano in quel luogo a combattere, per quale motivo, che diavolo di bisogno ne hanno loro. (p. 153)
Russi, non bisogna scrivere che provate vergogna. Non ce ne frega un emerito cazzo della vostra vergogna. Non ci serve che protestiate sventolando palloncini. Non ce ne fotte una sega che vi buschiate manganellate come pecorini. Quello che serve è inviare denaro a favore dell'esercito ucraino. E custodite la ricevuta della somma trasferita come la pupilla dell'occhio. La mostrerete poi in tribunale. E verrete rilasciati. (p. 156)
Durante questi venti anni avete messo in galera, fisici, ingegneri, sviluppatori di tecnologie a duplice uso, svariati professori, intellettuali, vi siete impegnati a sdrumare il settore della missilistica, dei mezzi corazzati, della marina militare, quello spaziale e in generale tutte le altre industrie del Paese. E alla fine l'avete mandato a scatafascio! Le mie congratulazioni. [...] Insomma, ragazzi, vi ringrazio. Grazie per aver devastato a più non posso, in due decenni di instancabile lavoro, tutto quel vostro cazzo di potenziale scientifico-militare. E perciò la vostra merda sta ora entrando in Ucraina a bordo di lattine arrugginite, fabbricate negli anni Settanta. E non su nuovi veicoli sviluppati dall'Istituto dell'acciaio e delle leghe. Altrimenti ce la saremmo davvero vista brutta. Grazie, complici di Bandera! Gloria all'Ucraina! (pp. 167-169)
L'Occidente ha tutto da guadagnare da una guerra in territorio ucraino. Per essere più precisi: dal momento che la guerra è già iniziata, all'Occidente conviene che si svolga nel territorio dell'Ucraina. E ha inoltre bisogno che la Russia resti invischiata in questa guerra. In modo che sprechi soldi, armamenti, truppe e risorse. In modo che la sua economia vada a rotoli. In modo che si indebolisca, che la sua società si demoralizzi e l'Ucraina ne triti l'esercito. In territorio ucraino. In modo che ci rimanga impelagata, come in Afghanistan, e possibilmente con le stesse conseguenze subite all'epoca dall'URSS. (pp. 190-191)
[Sull'emigrazione russa durante l'invasione russa dell'Ucraina] Porca troia, estoni, perché caspita li lasciate entrare? Visto che già ci avete il fossato, il recinto, ossia il fiume Narva con l'omonima fortezza, fate saltare in aria quel cazzo di ponte e liberate nell'acqua i coccodrilli! Otto anni, carogna, hai vissuto beato e contento dopo l'annessione della Crimea, cazzo vuoi andare a Milano, verme? Fila a Feodosia! Gli mettete a disposizione pure i dipendenti di lingua russa... Prendete esempio dagli italiani. L'Italia ha sequestrato la villa di Vladimir Solov'ëv sul lago di Como e quella di Ališer Usmanov in Sardegna, riporta la Reuters con riferimento alle proprie fonti. (p. 196)
Siamo a favore della guerra, porca troia. Vogliamo bombardamenti a tappeto delle città russe. Come a Dresda. Che siano bruciate e cancellate dalla faccia della Terra come Berlino. Vogliamo la fornitura di caccia americani. I Patriot e i Javelin. Il gruppo della portaerei Harry Truman nel Mar Egeo. Le navi russe in fiamme nella rada di Odessa. I campi dell'Ucraina cosparsi fin quasi ad altezza di ginocchio di tutto quel groviglio di budella e rottami metallici prodotti nel '75. E l'ingresso degli Abrams sulla Piazza Rossa, forse ormai non semplicemente come scorta dei convogli umanitari, ma, chissà, magari proprio insieme all'esercito NATO. Perché l'esercito ucraino adesso sta facendo un culo grosso così alla Russia, e glielo sta facendo tanto in fretta da offrire al mondo l'opportunità reale di chiudere definitivamente i conti con quell'aborto di formazione statale già durante questa stagione. Non vogliamo più lasciare ai nostri figli la soluzione di questo problema. Adesso vogliamo risolverlo noi di persona. Insieme al mondo intero. Ora. (p. 210)
Tutte queste cazzo di assurdità che avete combinato per anni in Ucraina – e in generale tutt'intorno a voi –, e che negli ultimi dieci giorni avete persino elevato a un nuovo livello, adesso vi devono tornare indietro. Insieme a quanto è successo a Ilovajs'k. Con il cannoneggiamento dei corridoi per l'evacuazione dei civili vicino a Mariupol'. Con i bombardamenti di Charkiv. Con la catastrofe umanitaria di Volnovacha. Con folle di bambini sui treni di evacuazione nelle stazioni ferroviarie. Con i neonati in metropolitana durante gli allarmi aerei. Tutto questo deve venire nelle vostre città. Nelle vostre case. Nei vostri appartamenti. Nei vostri scantinati, sotto le macerie delle vostre case e dei vostri appartamenti. Dovete. Provare. Tutto quanto. Di persona. In modo che voi stessi il 22 febbraio di ogni anno incidiate con un ferro rovente sulle vostre finestre «Mai più». Che ve lo incidiate sulla fronte. Di vostra mano. Non c'è altro modo. Sennò non vi entrerà in testa. (p. 211)
L'Ucraina è un Paese in cui la società plasma il presidente. Invece, in Russia lo zar plasma la popolazione. Sale al potere El'cin, ed ecco la democrazia, l'Europa, l'America è il migliore amico. Viene Putin, ed ecco le manie di grandezza, i valori tradizionali, America, per te presto saranno cazzi amari, America. In Ucraina è l'esatto contrario. (p. 214)
[Su Volodymyr Zelens'kyj] Dopo la guerra inizierà davvero a credere di essere stato lui a salvare il Paese, durante il secondo mandato la zucca gli entrerà definitivamente in cortocircuito e lui si metterà a combinare cazzate tali che questi tre anni precedenti saranno niente al confronto, perché la sua metamorfosi da «Biden, basta creare allarmismo, a maggio ce ne andremo a fare i barbecue» a Rambo nel giro di appena un mese sarebbe troppo rapida anche per una psiche solida. (p. 215)
Qualsiasi liberale russo – QUALSIASI, anche il più liberale dei liberali – è sempre uno sciovinista grande-russo. Per loro non esiste nulla di più importante delle proprie sofferenze dovute alla chiusura di McDonald's. (p. 225)
[Rivolto ai bielorussi] Putin ha bisogno che partecipiate alla guerra per un unico scopo. Lo capite che non è nemmeno il vostro dittatore a gettarvi al massacro, ma quello confinante? Insomma, a quel vampiro servite solo per una cosa: per formare grazie a voi una nuova massa d'urto – anche se che massa d'urto può essere un branco di uomini privi di addestramento, con mitra del secolo scorso? – e lanciarla in una nuova direzione, con l'unico obiettivo di dirottare le forze ucraine verso la vostra distruzione. Intanto lui, nello stesso momento, replicherebbe l'attacco contro Kiev con il suo precedente gruppo d'assalto. In questa guerra avete un solo compito: prolungare la vostra morte per diversi giorni, mentre gli ucraini vi liquideranno, in modo che gli orchi utilizzino questo tempo per un altro attacco. La vostra partecipazione a questa guerra non contempla altre possibilità. In questa guerra non è prevista la vostra sopravvivenza: almeno questo lo capite? Lo ripeto: sarete annientati. Tutti. (p. 245)
In teoria, se si sta per scatenare una guerra in Europa, innanzi tutto sembrerebbe quanto mai logico ritirare le proprie riserve auree e di valuta estera da quella stessa Europa. Ma loro «non potevano proprio aspettarselo». Oppure, secondo una ben più nota frase del nostro paziente: CHE DEFICIENTI, PORCA T**IA. (p. 249)
È dall'altro ieri che, osservando lo stato di choc della rete su quanto è accaduto a Buča, vorrei rivolgervi una domanda. Ma cosa vi aspettavate? Al nono anno di guerra, dopo Groznyj, dopo Aleppo, dopo il volo Malaysia Airlines 17, dopo l'«Isolamento» di Donec'k, gli scantinati di Horlivka, le braccia troncate per via di un tridente ucraino e i bambini giustiziati in modo esemplare, cos'altro vi aspettavate da loro?? I lecca lecca sulla piazza centrale? Ancora non avete capito quale orda si sta spingendo da Nord nel vostro territorio? Ebbene, allora voglio dirvi che quanto avete appena visto è ancora solo rose e fiori. Aspettate che giungano le testimonianze da Mariupol' e Volnovacha. (p. 260)
[Sull'emigrazione russa durante l'invasione russa dell'Ucraina] Durante questo mese hanno lasciato la Russia trecentomila persone. Be', in sostanza, evidentemente erano appunto quanto restava in patria dell'opposizione e dei contrari alla guerra. Ora il Reich sarà di una purezza cristallina nel vero senso della parola. (p. 263)
La vittoria della Le Pen sarebbe un totale disastro. Nel peggiore degli scenari, potrebbe anche segnare l'inizio del crollo dell'Unione Europea. Tenendo conto del fatto che gli ungheresi hanno rieletto il loro pazzoide per la quarta volta (be', scegliendo tra il bene e il male, i magiari hanno trovato sempre il modo di stare dalla parte delle merde, sia nella Prima guerra mondiale che nella Seconda, sia nel Dopoguerra che adesso: si vede che da quelle parti l'apprendimento è impossibile in linea di principio), i rapporti di forza diventerebbero quanto mai pessimi. (p. 277)
[...] vi ho detto che Dvornikov era il mio comandante di reggimento in Cecenia? Era soprannominato Zio Werther. Per la sua andatura da alcolizzato con le emorroidi. Un tipo piuttosto vigliacco. Non voleva bene ai soldati e non li risparmiava. E loro lo ripagavano della medesima moneta. Lo stesso valeva per la popolazione locale. Ottuso esecutore di ordini. Di legno dalla testa ai piedi. Nella scatola cranica solo insegnamenti militari sovietici. Bombarderà a tappeto. Perché non sa fare nient'altro. (p. 281)
[Sulla battaglia dell'Isola dei Serpenti] Conquistare un fazzoletto di terra in mezzo al mare di duecento metri per duecento, che è difeso da tredici guardie di frontiera armate solo di mitra e non serve a un cazzo nelle condizioni della guerra moderna, poi a seguito di questo successo tattico essere mandato a quel paese davanti al mondo intero, tanto da diventare lo zimbello del pianeta; finire per via di questa fantastica impresa – l'unica vittoria all'attivo per l'ammiraglia della flotta, incrociatore senza analoghi al mondo e costato svariati miliardi, tenetelo bene a mente! – su un francobollo di un altro Stato, per poi essere affondato da un Paese CHE, PORCA TROIA, NON POSSIEDE NEMMENO UNA PROPRIA FLOTTA!!! (pp. 284-285)
Una volta, per il quindicesimo anniversario del Kursk (che «è affondato»), ho scritto che, grazie al cielo, era una fortuna che fosse andata così: perlomeno un lanciamissili da crociera sottomarino a propulsione nucleare, come minimo, non avrebbe preso parte all'omicidio di ucraini. Santo Dio, cosa si è scatenato all'epoca nel campo liberale russo... Come osavo insultare la memoria di quegli innocenti marinai russi, dei nostri ragazzi prematuramente scomparsi, che non avevano la minima colpa? Be', a sentire loro, nessuno ha mai colpa di nulla. Un membro dell'equipaggio di un sottomarino nucleare di una dittatura schizzata, pronto a premere un pulsante e a distruggere Seattle? Non è mica colpa tua, ragazzo! Vieni qui che ti bacio il culo. (pp. 287-288)
L'ordine di uccidere le persone a Buča è venuto da Putin oppure no? Se sollevate la questione, persino se partecipate a simili controversie, distorcete la realtà. Perché alla base c'è sempre la volontà di cercare i «russi bravi». Come a dire: non l'hanno fatto di propria iniziativa, è un ordine che hanno ricevuto. No! Lo hanno fatto di loro iniziativa! Non hanno bisogno di alcun ordine! Non hanno bisogno di alcun ordine per uccidere e torturare le persone! In Cecenia per due volte ho impedito ai miei commilitoni di sparare contro i civili. In un caso, contro un tizio che era semplicemente passato davantial nostro posto di blocco. Lo avevano afferrato, legato a un albero, lasciato là per tutta la notte (d'inverno, in montagna), e la mattina stavano per fucilarlo. Mi sveglio: c'è un uomo in stato di semicoscienza, legato a un albero. «Ora gli spariamo». «Ma dico, vi siete rincoglioniti o cosa?» Ci siamo azzuffati. Abbiamo persino messo mano alle armi. Ma non ho permesso che ammazzassero quell'uomo. La seconda volta è stato quando un gruppo di donne stava uscendo da una città sotto bombardamento. Con la bandiera bianca. Vasja il Calzolaio aveva sollevato il mitra. «In mezzo ci stanno i guerriglieri, li nascondono.» Gli ho tirato su la canna. La raffica si è persa tra le nuvole. «Ma che cazzo ti dice la testa? Sono donne! Donne! Madri di famiglia, vecchie e bambini! Ci fossero pure cento guerriglieri, lasciale andare via!» Ho letto la perplessità nei suoi occhi. Secondo le sue concezioni, in quel momento io ero un traditore. Né nel primo né nel secondo caso era arrivato alcun ordine di torturare quel tizio o di sparare alle donne. Vasja il Calzolaio, un ragazzetto quieto, calmo e dal cuore buono. Dallo sguardo intelligente. Un compagno sempre disponibile. Un amico fidato. Questo ragazzetto quieto e intelligente avrebbe tranquillamente ucciso di propria iniziativa una quindicina o una ventina di donne, e non riusciva proprio a capire perché non glielo avessi lasciato fare. Molto semplice: qualcuno cammina, una sventagliata e lo ammazzi. Nient'altro. E non c'è bisogno di nessun Putin. (pp. 294-295)
Non serve alcun eufimismo. Non è necessario cercare nuovi vocaboli. Non c'è affatto bisogno della parola «rascismo». Anche «orchi» e «Mordor», termini così spesso da me usati, non sono altro che giochi di parole, un tentativo di trovare un sostituto-surrogato. Ma le cose vanno chiamate con il loro nome. E quello che sta accadendo in Russia ha un solo nome. Fascismo. In Russia il fascismo ha preso il sopravvento. La Russia è un Paese fascista. Non «similfascista», non «come la Germania», ma proprio «fascista». Là il fascismo c'è sempre stato, ma ora si è sviluppato nella sua forma definitiva ed è diventato ideologia di Stato e, insieme, idea nazionale. Il territorio ucraino è stato invaso da fascisti. Punto e basta. (p. 295)
Solo tre volte nella sua storia questa nazione è stata più o meno abbastanza democratica: la prima volta sotto il Falso Dimitri, che gli stessi russi hanno ucciso proprio per via di questa troppa libertà. Poi dal febbraio all'ottobre 1917. E dal 1991 al 1993. In tutti gli altri periodi è tornata sempre, come un misirizzi, alla sua condizione iniziale. (p. 296)
[Sul Fronte orientale] I vostri nonni non hanno vinto il fascismo. Il fascismo non è stato sconfitto dai vostri nonni. Il fascismo è stato sconfitto dai nonni inglesi, americani, australiani, canadesi, francesi, norvegesi. Mentre i vostri nonni, con l'aiuto di inglesi e americani, hanno eliminato il loro principale concorrente nel campo fascista. E loro stessi ne hanno assunto la guida. I vostri nonni erano... fascisti. Ma pensa te, che razza di scoperta storica, eh? Erano fascisti allo stesso modo dei nonni di Hans e Klaus. I vostri nonni non hanno liberato un bel niente da Sachalin all'Elba. Proprio nulla. Hanno solo invaso le terre da Sachalin all'Elba. I vostri nonni erano occupanti. Esattamente come i nonni di Klaus e Hans. I tedeschi hanno invaso metà della Polonia. L'altra metà l'hanno occupata i russi. I tedeschi hanno smembrato la Cecoslovacchia. Che poi è stata smembrata dai russi. I tedeschi sono entrati nella Romania occidentale. I russi sono entrati in Bessarabia. I tedeschi hanno occupato Tallinn. Che poi è stata occupata dai russi. Porca troia, come fate a trovare una differenza, eh? Mostratemi la lente grazie a cui i fotoni attraversano la vostra retina e arrivano nel vostro cervello, tanto da indurlo a concludere che il fascismo bruno, sì, è fascismo. Mentre il fascismo rosso no, è tutt'altra cosa! È la vittoria sul fascismo. Ma chi avete liberato, eh? I cechi nel '68? I ceceni nel '43? I tartari di Crimea nel '44? I lettoni nel '41? I polacchi? Gli ucraini? Chi? Forse almeno voi stessi? Andate su Google: la carestia negli anni 1946-1947; l'ondata di repressioni del 1946, la seconda per intensità dopo il '37. Cercate e studiate. E se gli Stati Uniti non avessero sganciato la bomba nucleare su Hiroshima, su ordine del baffuto Führer i vostri nonni sarebbero andati oltre. Non ho il minimo dubbio. E avrebbero poi invaso la Francia, il Belgio, la Spagna e la Manica. È stato Truman a fermare il fascismo sulle sponde orientali dell'Elba. E non i vostri nonni. E ha fermato appunto voi. (pp. 319-321)
Explicit
Vivete senza far caso ai coglioni che si offendono per ogni cosa che si muove. In generale, la vita offende i sentimenti dei coglioni. Ma in ogni caso la giovinezza, l'amore e il futuro trionferanno sull'oscurantismo, sull'odio e sul ristagno mortifero. Magari ci sarà da aspettare, ma succederà in ogni caso. Che i morti seppelliscano i loro morti. E mandate tutti a quel paese. Buon fine settimana a tutti quanti. Pure se siamo solo ancora a lunedì.
È attivista delle manifestazioni anti-regime, combattente per la Russia nei due conflitti Ceceni, uno dei pochi uomini onesti nonché tra i migliori giornalisti di guerra mai esistito in Russia, e per via della sua estrema trasparenza ha deciso di lasciare il suo lavoro in uno dei quotidiani "oppositori" di punta (quello per cui scriveva la defunta e celeberrima Politkovskaya) per passare all'informazione sul web, motivando questa scelta con il fatto che anche nell'ambito di opposizione il giornalismo non è trasparente. (Nicolai Lilin)
Arkadij Babčenko, La guerra di un soldato in Cecenia, traduzione di Maria Elena Murdaca, Oscar Mondadori, 2019, ISBN 978-88-04-70739-4
Arkadij Babčenko, Sabbia e ferro. Diari ucraini 2014-2022, traduzione di Mirco Gallenzi, Oscar Mondadori, 2022, ISBN 978-88-04-77456-3