Incipit
Brigata di montagna
Montagne: solo chi ci è stato può capire veramente cosa vuol dire. La montagna è una gran fregatura. Tutto quello che ti serve per vivere te lo devi portare dietro. Ti serve cibo, e ammassi nello zaino razioni per cinque giorni, facendo piazza pulita di tutte le cianfrusaglie inutili. Ti servono munizioni, e infili caricatori di zinco e mezza cassa di granate in tutte le tasche, in quelle dello zaino, nelle cartucciere, le appendi alla cintura. Camminare è impossibile, impacciano troppo: ti segano all'inguine e alle cosce, ti pesano sul collo... Ti carichi sulla spalla destra il lanciagranate automatico AGS del ferito Andrjucha Voložanin. Porti due nastri di granate incrociate sul petto come il marinaio Železnjak in quel film sulla rivoluzione, e se ti avanza una mano, tieni la "chiocciola", il contenitore per il nastro.
Citazioni
- Alla roulette russa, con il cecchino ceceno nel ruolo di croupier, si giocava quattro a uno, dove quattro era della morte. (p. 10)
- Avevamo smesso di avere cura di noi stessi: non ci lavavamo, non ci pulivamo i denti, non ci facevamo la barba. Le mani sporche si screpolarono e per una settimana non smisero di sanguinare, incartapecorite dal freddo e dagli eczemi. Erano ormai sette giorni che non riuscivamo a scaldarci a dovere, vicino a un fuoco: le canne fradice non volevano saperne di bruciare e in mezzo alla steppa la legna non si trovava. Cominciammo a trasformarci in bestie: freddo, umidità, sporcizia ci risucchiavano qualunque sentimento che non fosse odio, e noi odiavamo tutto, inclusi noi stessi. I litigi scoppiavano per qualunque sciocchezza e subito raggiungevano il culmine. (pp. 15-16)
- In generale, in guerra, sono tutti molto svelti a capire: persone, cani, alberi, sassi, fiumi. È come se avessero tutti un'anima. Quando scavi la trincea e attacchi con la pala l'argilla dura come pietra, ci parli come a un parente: «Dai, forza, piccola, ancora un po', ce la puoi fare...». E lei cede alle tue esortazioni, si concederà ancora un po', proteggendo il tuo corpo dentro di sé. Capiscono tutto, sono coscienti di tutto, sanno che destino li attende e cosa succederà. E hanno il diritto di scegliere da soli: dove crescere, dove scorrere, come morire. (pp. 19-20)
- Durante l'addestramento un maggiore bruno aveva detto di dover formare una squadra da portare a Beslan, ai forni. Sapeva come illuderci. Essere assegnati ai forni per il pane è il sogno segreto di ogni "spirito", un soldato in servizio da meno di sei mesi. Noi siamo "spiriti". Ci chiamano anche morti di fame, denutriti, trippe, senza-forza, goblin e chi più ne ha più ne metta. La fame tormenta soprattutto nei primi mesi. Le poche calorie che ricevevamo durante la formazione con quella informe massa bigia chiamata "pappa di avena" si volatilizzavano al momento della marcia post pranzo. Per il nostro organismo in fase di sviluppo il cibo era sempre insufficiente. La notte strisciavamo di nascosto al cesso per mangiare un po' di dentifricio Jagodka, dal profumo di fragola così appetitoso. (p. 26)
- Il caos è spaventoso: è pieno di rifugiati che si aggirano per il campo con i loro averi e raccontano storie raccapriccianti. Sono i fortunati scampati ai bombardamenti: gli elicotteri non caricano civili, ma quelli li prendono praticamente d'assalto, viaggiano in piedi, come sui tram. Un anziano ha volato attaccato al carrello, si è legato alla ruota ed è rimasto appeso per quaranta minuti, da Chankala a Mozdok. Portandosi dietro due valige. (p. 27)
- Lo spazio che rimane è occupato dai feriti. A parte il proprio carico, ogni aereo può prendere a bordo in tutto dieci persone, i feriti hanno la priorità. Le barelle con i feriti sono ammassate fra le casse, messe sui sacchi oppure direttamente sul pavimento, purché li carichino e li portinio via. Inciampano su di loro, li fanno cadere dalle barelle. Un capitano è ferito all'addome. Urtandolo con un piede, gli strappano via il drenaggio. Sangue misto a pus cola dal portello e gocciola sul cemento. Il capitano urla. Le mosche si posano in un attimo sul liquido finito a terra. (p. 28)
- Sotto un pioppo, alcuni soldati feriti in modo non troppo grave stanno bevendo della vodka barattata nel locale delle caldaie, per inondare d'alcol il terrore sperimentato dietro le montagne. Hanno gli occhi da folli e il viso annerito. Un'ora fa hanno sparato loro addosso, i compagni sono morti, mentre adesso bevono vodka e non sono più costretti ad accucciarsi per evitare le pallottole. Sembra incredibile. Urlano e piangono, tracannano senza sosta. Non riusciamo nemmeno a guardarli. (p. 31)
- Adesso la paura sale dalla terra contaminata. Riempie i nostri corpi e si insinua come un verme viscido in fondo allo stomaco; tutto diventa freddo, anche sotto un sole cocente. Finita la guerra, sarà necessario bonificare il suolo da questa paura, che incombe sul campo come nebbia. (p. 31)
- Rubare nell'esercito non è considerato un crimine. Qui tutti rubano. E tutti sanno che tutti rubano. Il crimine è farsi beccare. (p. 64)
- Noi delle trasmissioni non siamo considerati persone nemmeno dal comando. La compagnia di trasmissioni del 429° reggimento motorizzato nel '96 è la più rotta in culo di tutto il paese. È un dato di fatto. Il nonnismo qui è eccessivo persino per gli standard abituali dell'esercito. Possono farti portare l'acqua, prenderti a calci con gli scarponi, estorcerti soldi, spaccarti la mandibola, sfasciarti il cranio con gli sgabelli. Questo e altro, non c'è limite allo spasso che si possono inventare con un soldato delle forze armate della Federazione Russa. (p. 64)
- Da civile, quando mi raccontavano di episodi di nonnismo, pensavo che non sarei mai riuscito a vivere così. Come diavolo potevo evitarlo? O ti impicchi o le prendi sul muso. Altre opzioni non ce ne sono.
E anche adesso continuo a pensare di non riuscirci... (p. 64)
- Tecnicamente, nel nostro reggimento il nonnismo non c'è. Il nonnismo è un insieme di regole, una raccolta sui generis di leggi la cui violazione è punita con pene corporali.
Prendiamo, ad esempio, il modo di camminare. Dipende dalla durata del servizio. Le nuove reclute, gli "spiriti", non si devono nemmeno sognarsi di camminare, devono "volare" o "ronzare come una scopa elettrica". I "teschi", soldati con un anno di servizio, o gli "elefanti" hanno diritto a un'andatura più rilassata, ma il loro portamento deve comunque riflettere una certa umiltà. Soltanto le "regine", prossime al congedo, possono camminare con quel loro particolare passo strascicato, permesso esclusivamente agli anziani: senza fretta, con le mani in tasca, sbatacchiando i tacchi sul pavimento.
Se durante l'addestramento mi fosse saltato in testa di camminare così, mi avrebbero spaccato il muso. "Ehi, Lungo, già in congedo?" mi avrebbero detto, per poi scatenare l'inferno. Le avrei prese per bene anche solo se mi fosse balenata l'idea di tenere le mani in tasca. Uno "spirito" deve dimenticarsele del tutto. Altrimenti, ci pensano loro a insegnartelo: ti riempiono le tasche con la sabbia e te le cuciono a dovere. La sabbia sfrega sull'inguine e dopo due giorni ti si formano piaghe piene di pus. (pp. 65-66)
- Se uno "spirito" non dimostra deferenza parlando con un "nonno", viene picchiato. Se parla troppo ad alta voce o cammina per la caserma sbatacchiando i tacchi, viene picchiato. Se si distende sulla branda di giorno, viene picchiato. Se si distende sulla branda di giorno, viene picchiato. Se da casa gli mandano delle ciabatte di gomma comode e decide di metterle per andare a lavarsi, viene picchiato e in più quelle spariscono. E ancora, se a uno "spirito" viene in mente di fare il risvolto al gambale dello stivale, o di camminare con il primo bottone slacciato, o se il berretto è messo storto sulla nuca, o sull'orecchio, o se la cintura non è abbastanza stretta, lo picchiano fino a fargli dimenticare come si chiama. La sciatteria è segno di appartenenza alla casta. Lui è uno spiritello, un mucchio di merda, e finché i più anziani non avranno terminato il servizio, lui deve essere capace di volare. (p. 66)
- Anche per lo "spirito" è meglio avere il proprio "nonno" personale. Prima di tutto, ti picchia solo una persona. Secondo, puoi sempre andare a lamentarti da lui delle pretese degli altri, e lui ristabilità immediatamente l'ordine. A condizione ovviamente che sia un "nonno" autorevole e non uno pidocchioso che al secondo anno di servizio si fa ancora tutto da solo. Se, per esempio, un "teschio" picchia uno "spirito" o gli prende dei soldi, il "teschio" verrà pesantemente pestato. Solo i "congedo" possono estorcere denaro ai più giovani. Lo "spirito" è obbligato a procacciare soldi, sigarette e cibo solo al proprio "nonno". A tutti gli altri può rispondere picche. L'unica eccezione è rappresentata da un "nonno" che è più forte del tuo. (p. 66)
- Qui tutti picchiano tutti: i "congedo", gli ufficiali, i sottufficiali. Si ubriacano di brutto e giù a dar mazzate. I colonelli ai maggiori, i maggiori ai tenenti, i tenenti ai soldati. I "nonni" ai giovani. Nessuno parla con nessuno in maniera civile, solo mostrando i denti. Perché così è più facile, più veloce e più chiaro. Perché "comunque morirete tutti uno dopo l'altro, bastardi!". Perché i figli a casa sono denutriti, perché nelle case degli ufficiali c'è miseria e disperazione, perché al congedo mancano ancora tre mesi, perché è la guerra, perché è la morte, perché qui uno su due ha subito un trauma cranico. Perché la Patria ti fa uccidere la gente – la tua gente, che parla russo, ma bisogna comunque spararle in testa, perché il cervello schizzi sulle pareti, schiacciarla sotto i cingoli, farla a pezzi. Questa gente, la tua gente, che parla russo, vuole ucciderti, taglia la gola alle tue giovani reclute, a diciottenni ancora in fiore, gli ficcano i genitali in bocca. Perché i tuoi soldati solo ieri hanno concluso l'addestramento e già oggi sono distesi sulla pista, pezzetti di carne arrostita, e le mosche depongono larve nei loro occhi aperti, e di un'intera compagnia in meno di ventiquattr'ore è rimasto meno di un terzo e, se Dio vuole, anche tu finirai così. Perché la tua vita non vale un cazzo, esattamente come quella degli altri. Perché ammazzi tutti e tutti mandi all'inferno, poi tracanni vodka, a decalitri, e passi le notti a guarire. Perché un soldato è un mucchio di merda puzzolente e lo "spirito" non ha neanche il diritto di vivere. Perché hanno visto l'orrore e quindi non gli importa più niente di niente. «Imparerete da me cosa vuol dire guerra, bastardi! A tutti un morso in bocca come ai cavalli, così non penserete che la vita è dolce. E ringraziate vostra mamma che vi ha partorito sei mesi dopo, altrimenti sareste già poltiglia da un pezzo.» (p. 67)
- In questo reggimento tutti odiano tutti, l'odio e la follia incombono sul piazzale, come una nuvola fetida e gravida che impregna i giovani di terrore; è succo di limone: dobbiamo macerarvi dentro come uno spiedino, macerare nel terrore e nell'odio prima di essere mandati al macello. Così per noi sarà più facile crepare. (p. 68)
- Non sappiamo come scavare una trincea, non sappiamo ripararci dal fuoco delle mitragliatrici e non sappiamo nemmeno come disporre correttamente una trappola esplosiva perché non ci scoppi fra le mani. Nessuno ci sta insegnando a fare queste cose. Non siamo nemmeno capaci di sparare, nella nostra compagnia abbiamo tenuto tutti le armi in mano solo due volte. Se dovessimo andare in guerra proprio adesso, da sotto quest'albero di albicocche, difficilmente sopravvivremmo più di qualche ora. (p. 80)
- La fregatura è che non hai un posto dove andare. Scappare a casa? Lì ci attenderebbe il carcere, saremmo considerati dei disertori, sempre ammesso di riuscire ad arrivarci: non sono pochi i casi di soldati uccisi per strada o sequestrati o portati via direttamente alla stazione e ridotti in schiavitù. Non dimentichiamo poi le pattuglie. Alla fine, rimanere nel reggimento è la cosa più sicura. (p. 81)
- «Ascolta, tu sei di Mosca,» continua Osipov «quindi sai tutto. Chi ha iniziato questa guerra?»
Chissà perché Osipov è convinto che i moscoviti siano onniscienti.
«Non ne ho idea. Chiedimi qualcosa di più facile.»
«Be', ma tu che ne pensi?» insiste.
«Il presidente, suppongo.»
«Lui personalmente?»
«No, prima si è consultato con me.»
[...]
«Ma il ministro della Difesa può cominciare una guerra senza fare rapporto al presidente?»
«No, non può» risponde Zjuzik. «Il presidente per noi è il comandante supremo. Le guerre le può iniziare solo lui.»
«E questa guerra com'è che è cominciata?» Osipov cerca di capire. «Di solito perché iniziano le guerre?»
Bella domanda, perché iniziano?
«Per il potere» risponde Zjuzik. A volte dimostra un acume raro. «Tutte le guerre cominciano solo per una questione di potere.»
«Che cavolo vuol dire "per il potere"? Davvero si possono uccidere tante persone solo per il potere? Di che aveva bisogno ancora El'cin, è il presidente, più potere di così! O forse Dudaev voleva rovesciarlo?»
«Che cazzo ne so, chi voleva rovesciare chi. Si vede che non sono riusciti a spartirsi qualcosa. Tanto, che differenza fa adesso?» (p. 82)
- «Per voi i ceceni sono nostri nemici o no?» insiste Osipov, cercando di venirne a capo. Con la sua voglia di sapere, sarebbe stato utile nei reparti speciali.
«No, non combattiamo contro i ceceni. Combattiamo contro formazioni illegali armate» replica Zjuzik.
«Ma queste bande armate sono ceceni o no?»
«Ceceni.»
«Quindi combattiamo contro i ceceni» conclude Osipov. «Ma loro cos'è che vogliono?»
«L'indipendenza.»
«E perché non possiamo dargliela?»
«Perché nella Costituzione c'è scritto che nessuno può prendere e staccarsi dalla Russia così quando gli salta il ticchio, arrivederci e grazie» spiega Zjuzik, che sa tutto.
«Io però non capisco: i ceceni sono cittadini della Russia o suoi nemici? Se sono nemici, allora bisogna ammazzarli tutti senza tanti complimenti. Ma se sono cittadini russi, come si fa a combattere contro di loro? È così o no?» (pp. 83-84)
- Nessuno, dal comandante del reggimento al soldato semplice, sa perché si trova qui. Nessuno vede un senso in questa guerra. Solo una cosa è chiara: questa guerra è stata venduta dall'inizio alla fine. Questa guerra è stata condotta da incompetenti fin dall'inizio e per gli errori dello stato maggiore, del ministro, del comandante supremo e di tutti gli altri, i soldati pagano con la vita. Nessuno è in grado di spiegare in nome di che cosa avvengono tutte queste morti. "Restaurazione dell'ordine costituzionale", "operazioni antiterrorismo": parole che non vogliono dire niente, invocate per giustificare l'omicidio di migliaia di persone. (p. 84)
- «Sarei curioso da sapere» chiede Anrjucha «se El'cin pesta Gračëv. È il più alto in grado. Come ad esempio Ciak con i sottufficiali. Ve lo immaginate: il ministro della Difesa gli fa un rapporto inesatto e lui, sbam, un pugno sul muso. Eh?»
«Sapete cosa sarebbe davvero forte?» interviene Zjuzik. «Piazzare El'cin e Dudaev lì sulla pista, a darsele loro due, di brutto. Chi mette l'altro al tappeto vince. Secondo te, chi stende chi? El'cin Dudaev o viceversa?»
«Secondo me è Dudaev che stende El'cin. Non è alto, è sveglio e deve avere un montante niente male.»
«El'cin ha le braccia più lunghe, ed è molto più alto e possente, deve avere un jab a effetto.» Osipov non è d'accordo.
«È anche grosso e goffo. Poi tracanna così tanto che farà fatica di sicuro a muoversi in fretta. No, io punterei su Dudaev» dico.
«Anch'io.» Passante mi appoggia.
«Io invece su El'cin» sorride Zjuzik «giusto per fargli un po' di tifo. Spero che si riempiano di botte il più a lungo possibile. Da solo El'cin mi va in depressione e non le prende come si merita. E neanche Dudaev le prenderebbe. Che se le diano fra loro.»
Scoppiamo a ridere. Immagino la scena: due presidenti che come due veri sottufficiali si pichiano sulla pista. Le maniche dei loro costosi abiti si strappano, i pantaloni di rappresentanza si lacerano. E tutti in cerchio a fare il tifo: noi per il nostro, i ceceni per il loro. E nessuna guerra. Nessun cadavere. (pp. 84-85)
- Elmetti perforati e ammaccati, giubbotti antiproiettili sfasciati, fori nelle giacche a vento, schegge incastrate nei rinforzi, macchie marroni di sangue incrostato che cerchiamo di non toccare... Sono andati in Cecenia nel gennaio del '95, poi un sergente maggiore, di cui non sappiamo il nome, li ha tolti dai corpi ormai freddi e li ha buttati in un angolo del deposito. Ha bevuto per qualche mese. (p. 86)
- Non abbiamo età. Non abbiamo casa, né vita, né desideri, né anima, né paura, né speranza. Solo morte. Non abbiamo futuro. Nessuno ci sta aspettando in quella vita cui aneliamo. Per noi non c'è nessun posto verso il quale tornare, il nostro passato è rimasto lì da qualche parte dietro la recinzione della fabbrica, ben lontano. Lo percepiamo come estraneo, come fosse un cartone animato per bambini, di cui non ci sentiamo più personaggi, questi miseri brandelli, fotogrammi della memoria non suscitano struggimento ma un'angoscia opprimente. Non si può tornare indietro. (p. 154)
- Non abbiamo futuro: nessuno ci aspetta, in quella vita che agogniamo, e questo è un ulteriore tradimento nei nostri confronti, veterani diciottenni, molti dei quali già canuti. (p. 154)
- Non esiste nessuna solidarietà del fronte. Remarque ha mentito. Adesso ci riscaldiamo a vicenda con il calore dei nostri corpi, ma ognuno di noi è comunque per conto suo. Quello che ci tiene insieme è la guerra. Le uccisioni e la morte dei compagni. Non avremo voglia di vederci in futuro. Già lo sappiamo: sarà dura incontrarsi con qualcuno che ti ha conosciuto quando eri un animale. Sorridere e scambiarsi pacche sulle spalle. Non ci amiamo. Amore, affetto non sono parole che appartengano a questo mondo. Il sentimento che proviamo qui l'uno per l'altro è più alto dell'amore, ma non è possibile descriverlo, in russo non esistono parole adatte per esprimere la devozione di un essere vivente verso un altro essere, entrambi condannati a morte, questo sentimento è possibile solo qui. Per quello c'è posto là, come qui non c'è posto per l'amore. Non abbiamo futuro. (p. 155)
- Il nostro mondo è questa guerra. La nostra vita è la morte. I nostri desideri, le nostre aspirazioni sono morti. Abbiamo solo diciotto anni, ma non desideriamo altro dalla vita. Possiamo dirci davvero giovani? (p. 155)
- Ogni volta i nuovi arrivi sono peggiori dei precedenti, si vede che in Russia è rimasta solo teppaglia randagia che a parte nell'esercito o in prigione non sa dove ficcarsi. (p. 156)
- Questa guerra è costruita sul furto e va avanti per amore del furto. I soldati vendono le cartucce, gli autisti vendono carburante, i cuochi la carne in scatola. I comandanti ci rubano il rancio a pacchi interi: ecco lì la nostra carne in scatola, è lì sul loro tavolo, la accompagnano alla vodka e non se ne vergognano nemmeno. I comandanti dei reggimenti ne rubano a carichi interi, i generali rubano direttamente i mezzi. Sono noti casi di blindati per trasporto truppe nuovi di zecca, appena lubrificati, venduti direttamente dalla fabbrica. Ancora oggi, per la Cecenia, circola attrezzatura diventata merce all'epoca della prima guerra, che figura come perdita in combattimento. Gli intendenti inviano a Mozdok dalla Cecenia intere colonne piene zeppe di oggetti rubati, si appropriano di tutto: tappeti, televisori, materiali edili, mobilio. Smantellano le case e le portano via a blocchi. Gli aerei da trasporto traboccano di cianfrusaglie, non rimane spazio per i feriti. Cosa sono due o tre scatole di cartucce in questa guerra venduta dall'inizio alla fine? Noi siamo già stati venduti con tutte le viscere: io, Arkaša, Pinča, il comandante di battaglione e questi due che stanno massacrando, già venduti tutti e registrati come perdite. Le nostre vite sono il saldo versato per le villette dei generali, che spuntano come funghi lungo il Rublëvskoe Šosse, lo stradone dei vip. (pp. 163-164)
- Il nostro è un esercito di operai e contadini portati alla disperazione dall'eterna mancanza di soldi, affamati fino alla ferocia, senza alloggi, inculati e pestati da tutti disperatamente e a prescindere dal grado, senza diritti; non è un esercito, è un branco che ha attinto da pezzenti strafottenti il peggio, la prepotenza, le leggi sono le stesse del cavolo, se non hanno nemmeno di che sfamare i propri figli. Le persone istruite, gli ufficiali che desiderano servire non si fermano a lungo nell'esercito, rimangono solo quelli che non hanno un posto dove vivere e si nutrono del miraggio di un appartamento, o quelli che non sono capaci di mettere due parole in fila correttamente e non sanno fare di meglio che spaccare i denti a una recluta. Fanno carriera scalando la piramide delle gerarchie, non perché siano i migliori, ma perché non c'è nessun altro. Abituati a darle e a prenderle anche quando arrivano in cima, insegnando a fare lo stesso. E noi siamo stati addestrati moltissimo tempo fa. Le legnate sono diventate la lingua universale dell'esercito. (p. 165)
- Il comando si ricorda dei soldati solo quando ci ammucchiamo a terra a centinaia. Dopo ogni assalto, ci inquadrano sempre in formazione e ci incensano chiamandoci eroi. Per due o tre giorni ci danno da mangiare normalmente. Poi ricominciano di nuovo i soliti cereali insapori e mezzi crudi a colazione e mazzate a pranzo. (p. 167)
- Ascoltiamo il racconto di Lëcha a bocca aperta. Water bianchi, mense, doppi vetri! Ci sembra incredibile che a Groznyj possa esserci un albergo. Quella città l'abbiamo conosciuta morta, i suoi unici abitanti erano cani randagi che mangiavano i morti nei seminterrati, e adesso c'è un albergo. Non può essere. Nel nostro immaginario, la gente lì deve stare male, molto male, perché nessuno dimentichi quello che è successo. Altrimenti tutta questa guerra non sarà che omicidio ordinario, il cinico omicidio di migliaia e migliaia di persone. Come si fa a costruire una nuova vita sulle loro ossa? Noi siamo appena tornati dalla montagna, dove il battaglione è stato dimezzato, dove continuano ad ammazzare e ad abbattere gli elicotteri, mentre a Groznyj il nostro comando guarda la tv via cavo e si fa la doccia. Ai water bianchi nelle caserme possiamo anche crederci, ma un albergo per i generali è decisamente troppo. (pp. 170-171)
- Più di una volta abbiamo visto queste donne in coda per essere ricevute dallo Stato. In coda per ricevere pietà, compassione, il rispetto dovuto a una madre che ha dato alla Patria quanto aveva di più caro: la vita del figlio. In cambio non ricevono niente, nemmeno i soldi per il funerale. Queste madri vengono evitate dappertutto. (p. 171)
- Non credo ad Arkaša, mi sembra poco verosimile che ci sia nonnismo addirittura all'interno del ministero della Difesa. Anche se... Sa il diavolo, perché no? I generali non sono di certo fatti di miele, e prima saranno stati anche loro tenenti. Ancora un paio di guerre così e anche il nostro comandante di battaglione diventerà generale, passerà a un livello più alto e da lì continuerà a triturare tutti. Logico, no? (p. 172)
- No, nessuno di noi rifiuterà una medaglia. Dal momento che ciascuno di noi serve a spingere su per la piramide del potere almeno cinque colonnelli e generali, che ce ne venga qualcosa. (p. 173)
- Due barattoli di latte condensato, un pacco di biscotti, una decina di caramelle e una bottiglia di limonata, ecco la nostra ricompensa per le montagne, per Groznyj, per quattro mesi di guerra e sessantotto morti. E non dallo Stato, ma dalle nostre madri, che hanno messo da parte, copeco dopo copeco, quel poco che rimane delle loro misere pensioni di campagna, decurtate da questo stesso Stato a vantaggio delle spese militari. Ma andatevene affanculo! Le vostre medaglie, appuntatevele sul didietro, così luccicherete come alberi di Natale. (p. 177)
- Prima della partenza per la Cecenia, il reggimento due volte a settimana usciva fuori dalla caserma in riga, e lì, a gruppi, stavamo con le chiappe al vento, dopo esserci messi sotto dei fogli di carta. Fra i ranghi camminava un giovane medico donna, di bell'aspetto, mentre noi dovevamo defecare davanti ai suoi occhi e porgerle i nostri escrementi, per verificare che non avessimo la dissenteria. Il bestiame deve andare al macello sano, a nessuno importava che ci vergognassimo o meno. (pp. 179-180)
- Sono ricominciate le perdite di sangue, i calzoni sono tutti incrostati. Fra l'altro, quelle perdite le abbiamo tutti. Il retto si gonfia e sporge dal sedere per diversi centimetri. Ti cali le braghe con mezzo culo fuori e siedi come il fiore scarlatto e luminoso della favola di Aksakov, dai luce a un intero distretto. Ora che ti pulisci tutto l'intestino fai fuori mezzo rotolo di carta igienica. Carta igienica? Tiriamo via dalle pareti dei depositi la carta da parati rimasta e ci grattiamo il culo con brandelli induriti di colla. Non è che al nostro ano giovi molto, dai pantaloni il sangue ormai si può raccogliere a bicchieri. (p. 180)
- Sparare alla schiena di una merda di ufficiale, ai nostri occhi, non è una vigliaccata, ma un normale castigo. I miserabili non devono vivere, se poi muoiono ragazzi in gamba. Per noi non esiste nessun'altra punizione che la morte, perché tutto il resto è vita. (p. 190)
- I soldati a contratto odiano gli ufficiali perché rubano la carne in scatola senza alcuna vergogna, perché vendono il gasolio a cisterne intere, per mancanza di professionalità, per l'incapacità di preservare le vite dei loro soldati, per l'arrivismo fatto sul sangue, perché arraffano a destra e a manca e viaggiano trionfali su jeep Mitsubishi Pajero, perché hanno tende stracolme di mobili in pelle e tappeti, prendono a calci con gli stivali i soldati ubriachi, mentre loro si permettono di sbronzarsi di brutto, per gli abusi e i maltrattamenti, per il congedo senza retribuzione, perché le donazioni alimentari non sono mai arrivate ai plotoni, neanche una volta, per la vigliaccheria durante i combattimenti. Perché sono sciacalli. Nell'esercito non sono mai stati definiti altrimenti. Gli sciacalli sono sciacalli.
Gli ufficiali odiano i "contrabassi" per ricambiare il loro odio, perché si ubriacano e vendono il carburante, perché colpiscono gli ufficiali sparando alla schiena, perché finiscono al mercato con le cartucce, perché tutti, senza eccezioni, fanno man bassa, perché tutti, senza eccezioni, sono alcolizzati e vagabondi, perché di combattere non sono capaci e non hanno voglia, mentre sono bravissimi a imboscarsi fra i ruderi e riempire gli zaini di qualsiasi cianfrusaglia, perché nel bel mezzo della battaglia gettano via il mitra, perché tutti, senza eccezioni, vogliono congedarsi da questo esercito del cazzo, da cui non pretendono niente se non i soldi, perché se ne sbattono degli ufficiali. Gli ufficiali sono poveri, eternamente senza speranza e non riescono a dare ai propri figli abbastanza da mangiare. Anche questo è un motivo di odio. E ancora, odiano i soldati di leva perché crepano come mosche e a loro tocca scrivere le notifiche di decesso per le madri. (pp. 221-222)
- Lo sporco era dappertutto. La grassa terra argillosa cecena impastata dai tank si rapprendeva sugli stivali a zolle pesanti, si pargeva per la tenda in un batter d'occhio, ricadeva a tocchi sui tavolacci, sulle coperte, si insinuava sotto la giacca, intaccava la pelle. Aderiva alle cuffie della radio, ostruiva le canne dei mitra, non c'era assolutamente possibilità di liberarsene; le mani, appena lavate, si risporcavano immediatamente, bastava toccare qualcosa. I soldati, intontiti, ricoperti di questa crosta argillosa, cercavano di muoversi il meno possibile, la loro vita si era indurita, si era congelata insieme alla natura, concentrandosi solo sulle giacche calde in cui si avvolgevano, preservando il calore, non avevano la forza di uscire dal loro piccolo guscio per lavarsi. (pp. 235-236)
- Le notti del Sud sono nere, la vista è superflua. Di notte si può contare solo sull'udito. È l'udito infatti che, captando i suoni, aiuta a rilassarsi, fa capire che intorno tutto è tranquillo. Oppure, al contrario, il corpo si irrigidisce di botto, ti manca il respiro, che si blocca fra i denti serrati, la mano silenziosamente si allunga verso il mitra, impercettibilmente si poggia su di esso, la testa, cauta, trainata soltanto dagli occhi, si volta verso il suono inaspettato, tentando di non sfregare con la nuca sul bavero, di non fare il minimo rumore, di non impedire alle orecchie di valutare le circostanze... (p. 249)
- La guerra era passata in secondo piano, al primo posto c'era la vita quotidiana, gli eterni problemi dei soldati: mettere qualcosa sotto i denti, scaldarsi e fumare. Pance vuote e freddo avevano la meglio sull'istinto di conservazione, il senso del dovere e la guerra; zombie in divisa da fanteria sbucarono dalle trincee, iniziarono a muoversi, a vagare in cerca di cibo. Se un soldato fosse ben nutrito, ben equipaggiato e lavato, combatterebbe dieci volte meglio, questo è poco ma sicuro. (pp. 251-252)
- «Hai sentito che El'cin si è dimesso?»
«Come lo sai?»
«A Capodanno, pare. L'hanno fatto vedere in tv. Ha fatto un discorso, ha detto che la salute non glielo consente. Certo che non glielo consente, se beve come una spugna.»
«Tutte balle. Non può essere. Quel figlio di puttana avrebbe rinunciato al trono su due piedi? È un ladro, e anche un assassino. Un opportunista che per brama di potere prima ha dissolto l'impero, poi ha iniziato una guerra, nel frattempo ha assediato il parlamento con i carri armati. E un bel giorno prende e si ritira, così? Sai,» Artëm si voltò di scatto verso Igor', il volto una maschera d'odio «non gli perdonerò mai la prima guerra cecena. Né a lui, bastardo, né a Pavel Gračëv, il suo ministro della Difesa. Avevo diciotto anni, ancora un ragazzino, mi hanno strappato dalla sottana della mamma e mi hanno sbattuto in questo porcile. Come uno stecco. Affoga pure. Io annaspo, voglio sopravvivere, e loro di nuovo, con un dito, mi affondano... Mia madre era ancora un fiore, e nei miei due anni di servizio militare si è trasformata in una vecchia.» Il volto si deformò per l'agitazione crescente. «Mi hanno distrutto la vita, ti rendi conto? E ancora non lo sai, ma l'hanno distrutta anche a te. Sei già morto, non avrai mai più una vita. La vita finisce qui, in questa palude. Quanto ho desiderato questa guerra! Dall'altra, dalla prima, non sono mai tornato, come i dispersi fra i campi di Ačchoj-Martan. Il Vecchio, Antocha, Bambino, Oleg... nessuno di noi è più tornato. Prendi tutti i soldati a contratto che vuoi, quasi tutti sono qui per la seconda volta. E non per i soldi. Volontari... Oggi siamo volontari perché ieri ci hanno costretto. Abbiamo gustato carne umana e non possiamo farne a meno. Siamo psicopatici, tu e io, capisci? Incurabili. Anche tu, adesso. Solo che qui non te ne accorgi, perché siamo tutti così. Ma lì, si vede subito... No, il nostro zar ci è costato troppo, ha pagato il suo trono con migliaia di vite, non può svendere la sua corona al primo che passa.» (pp. 255-256)
- Non adoperavano quasi mai quelle tavolette [sterilizzanti] che ricevevano insieme alle razioni. Si potevano usare solo avendo tempo e molta acqua. Di solito bevevano l'acqua senza sterilizzarla, direttamente dai fossi, dalle pozzanghere, o dai torrenti del posto. E, strano ma vero, nessuno si ammalava, anche se a ogni sorso assumevano la stessa quantità di germi patogeni che normalmente si prende in un anno. Ma non c'era tempo per ammalarsi. Nelle situazioni estreme l'organismo si focalizza su un solo obiettivo: sopravvivere, non bada alle minuzie come il tifo addominale. Gli stomaci vuoti si erano abituati a mandare giù batteri intestinali come popcorn, succhiando loro fino all'ultima caloria. (p. 264)
- [...] negli occhi di un soldato che scruta dentro di sé sono leggibili tutte le verità di questo mondo. Hanno tutto ben chiaro, comprendono ogni cosa eppure se ne fregano a tal punto di tutto da incutere paura. Ti viene voglia di strapazzarli, di scuoterli: «Ragazzo, svegliati, ripigliati!». Si passa la mano sul volto senza focalizzare, non dice una parola, e di nuovo si volta, abbracciando il mitra, in un eterno stato di sospensione, guarda e sente tutto, ma senza analizzare, si connette solo agli scoppi o alle scie luminose dei traccianti. (pp. 273-274)
- Pensi di avere un soldato normle, poi lo guardi e ti accorgi che muove appena le gambe, cammina come un sonnambulo, con la testa reclinata, come se non avesse abbastanza forze per tenerla su dritta, dal naso cola l'eterna goccia di muco. A mandarlo in tilt è stata la guerra. E in fretta: in uno, due giorni al massimo un uomo si lascia andare, senza opporre resistenza a niente, assorbendo ogni cosa nella più totale apatia. Puoi picchiarlo, prenderlo a calci, strappargli la carne con le pinze, amputargli le dita... non si sveglierà comunque, non accellererà il ritmo, non dirà niente. Lo curi solo con il sonno, il riposo e l'alimentazione. (p. 282)
- Artëm si mise le mani fra le ginochia e iniziò a sfregiarle contro i pantaloni. Sapeva che si trattava di una forma di psicosi, di pazzia, ma non poteva farci niente. Sentiva di avere le mani appiccicaticce, come dopo aver mangiato in un bar lurido, caldo come un forno: l'uccisione gli si era attaccata addosso, l'uccisione più vile, non c'era modo di raschiarla via. (p. 304)
- «Sai, ieri, quando i cechi ce le hanno suonate ad Alchan-Jurt? Insomma... è venuto fuori che durante la sparatoria abbiamo ucciso una bambina. Una bambina di otto anni e un vecchietto...»
«Capita. Non stare a pensarci. Passerà. Se ti tormenti ogni volta, vai fuori di testa. Qui si uccide, e allora? Loro uccidono noi, noi uccidiamo loro. Anche io ho ucciso. È la guerra, merda. Non valgono un cazzo le nostre vite, figurati quelle degli altri... Non pensarci! Almeno finché non torni a casa. Gli sei ancora troppo vicino. Lei è morta, tu sei vivo, ma marcite sulla stessa terra, lei sotto, tu sopra. E magari la differenza fra voi può essere solo di un giorno.» (p. 305)
- La guerra ha sempre lo stesso odore: diesel, polvere e un po' di angoscia. (p. 309)
- In guerra le distanze si misurano in centimetri, il tempo si misura in secondi. Passano solo alcuni minuti, e sei già morto dieci volte, dieci volte sei risorto e altre dieci hai fatto in tempo a uccidere... (p. 349)
- I galeotti non erano una novità nell'esercito. Soprattutto in Cecenia. Dagli albori delle guerre caucasiche sono confluiti qui avanzi di galera da tutta la Russia. L'odore del saccheggio e dell'impunità era così intenso per loro che nemmeno la paura della morte poteva fermarli. Impossibile, anche oggi, fare una stima dei delinquenti che all'epoca invasero la Cecenia. Avere uno o due precedenti per i soldati a contratto era una cosa normale. Molti avevano delle sentenze in sospeso. Si potevano incontrare persino individui che avevano sottoscritto l'obbligo di non abbandonare la propria residenza. (pp. 385-386)
- Nell'immaginario romantico i soldati più disperati, quelli dotati di un eroismo impetuoso, si trovano proprio fra i galeotti. La leggenda vuole che in galera abbiano appreso le legi ferine della sopravvivenza.
Nulla di più falso. Coraggio e cattiveria sono due cose diverse. Per essere un buon soldato è necessario non aver paura di morire. Bisogna essere pronti a dare la vita per il compagno, a strisciare per recuperare il ferito in uno spazio aperto sotto il fuoco dei tiratori scelti. La morale del criminale è ben altra: prima io, poi il resto.
Quelli così non prendono parte agli scontri nemmeno se ce li mandi a fucilate. Troveranno sempre mille pretesi per rimanere accanto ai fornelli a controllare il fuoco. In casi estremi possono invocare la violazione dei diritti costituzionali e presentare istanza di congedo; infatti il contratto può essere rescisso in qualsiasi momento, persino nel bel mezzo della battaglia. Esiste uno specifico paragrafo a tal proposito. (p. 387)
- Nel giro di un paio d'anni il raggruppamento unificato delle truppe in Cecenia si è trasformato in un rifugio sicuro per ex carcerati. Solo che adesso non affluiscono in un rifugio sicuro per ex carcerati. Solo che adesso non affluiscono qui per amor del saccheggio. Non è rimasto nulla da rubare, se si esclude qualche fusto di greggio da portare via. Adesso gli ex carcerati sono spinti dalle "scadenze". Per toccare il fondo non esiste un posto migliore della Cecenia. Ma l'importante è che in maniera assolutamente legale si possa scampare alla prigione. Secondo il codice penale, il termine di prescrizione viene applicato solo nel caso in cui il sospetto non si sia sottratto alle indagini. E se non solo non si è sottratto ma ha anche servito lo Stato? E magari si è anche guadagnato una medaglia? (p. 387)
- I detenuti hanno introdotto la crudeltà nell'esercito. Risentimento e avidità sono i loro tratti distintivi. Ricordo un episodio a Černoreč'e: obbligarono un guerrigliero prigioniero a muoversi su un campo minato. Il campo era ricoperto di cadaveri, il reparto di Basaev che aveva sfondato uscendo da Groznyj. Il ceco riportò ai soldati armi, droga e soldi; loro lo rispedirono di nuovo sul campo a frugare nelle tasche dei morti. Il prigioniero riuscì a compiere tre viaggi, arricchendo i suoi padroni di trentamila dollari, finché una mina saltante antiuomo non gli spappolò mezzo piede. Lo fucilarono.
La cosa peggiore è che con la loro crudeltà quei balordi contagiano gli altri. Quel ceceno era stato ucciso da un giovane di leva. Il soldato lo aveva condotto sulla diga e lì gli aveva sparato. E se ne vantava pure: «Ho fatto fuori un ceceno». Senza rendersi conto che sparare a un prigioniero senza un piede ed essere un soldato sono due cose diverse. (p. 388)
- Il nonnismo è considerato una manifestazione estrema dell'esercito di leva. Si tende a credere che per risolvere il problema sia sufficiente il passaggio a un esercito a contratto. In realtà esistono già, da parecchio, reparti interamente formati da militari professionisti. Il risultato è lo stesso. Solo che il ruolo dei "nonni" è stato preso dai criminali. Ho visto con i miei occhi un piantone, un laureato, ex ingegnere, che puliva la caserma con uno straccio, prepararsi al turno successivo mentre un "nonno" spilungone e tatuato lo spronava a calci. (p. 389)
- Per un esercito dal volto umano, di tipo non carcerario, è necessario mettere in pratica una serie di assiomi tanto ovvi quanto impossibili da applicare. Un soldato dovrebbe servire, mentre la pulizia dei cessi andrebbe riservata ai civili volontari. Un soldato dovrebbe ricevere uno stipendio adeguato e tenerci così a non perdere il proprio posto. La selezione professionale dovrebbe ispirarsi ai criteri delle scuole per astronauti, dove una multa per eccesso di velocità equivale a mettere una grossa croce sulla carriera. Un soldato dovrebbe essere inviolabile: chiunque alzi le mani su di lui, compreso il ministro della Difesa, dovrebbe finire dietro le sbarre. Allo stesso modo, qualunque atto di violenza commesso da parte del soldato andrebbe punito con la detenzione.
D'altronde è evidente che questa è un'utopia.
Frasi come "Faccia a terra, brutto stronzo, ora flessioni!" si sentiranno ancora per un bel po'. (pp. 389-390)
- Non puoi spiegare che cos'è la guerra a chi non ha combattuto, così come non puoi trasmettere a un cieco la sensazione del verde, o a un uomo cosa vuol dire essere incinta e partorire. Perché sono privi degli organi sensoriali necessarie. La guerra non si può raccontare o capire, la si può solo provare. (pp. 392-393)
- In dieci anni di guerra circa un milione di militari è passato per la Cecenia. La popolazione di una grande città. Cinquanta divisioni di soldati sottoposti al fuoco, che rientrando a casa introducono nella vita civile la loro filosofia di pensiero, la filosofia della guerra. Ave Caesar, morituri te salutant! A diciotto anni avevano già ucciso degli adulti più anziani dei propri padri, avevano visto come questi uomini adulti morivano per i proiettili sparati con le loro mani. Le autorità non esistono più. E nemmeno Dio. Sono pronti a tutto. Nel loro mondo non c'è spazio per le donne, i bambini, gli anziani, i malati, gli scienziati. Esistono solo obiettivi: rischiosi, potenziali. (p. 397)
- Si dice che le guerre giuste generino poeti, mentre quelle ingiuste i pazienti degli ospedali psichiatrici. Si dice anche che debbano trascorrere fra i dieci e i dodici anni prima che inizino a scrivere di guerra. La Cecenia è iniziata dieci anni fa. L'Afghanistan, venti. I parametri temporali sono rispettati. I manicomi traboccano di veterani, non ne prendono più. Ma questa guerra ha generato anche dei poeti.
Così come ne ha uccisi. (p. 400)
Explicit
Non abbiamo combattuto contro i ceceni o contro gli afghani. Abbiamo combattuto contro questo modo di vivere. Abbiamo combattuto contro la falsità, per il bene e la giustizia.
Ogni proiettile esploso contro di noi è stato sparato contro la giovinezza di questo mondo; ha colpito la fede nell'integrità morale, nell'amore e nella speranza, il desiderio di cambiare questa vita. Ogni colpo ha raggiunto direttamente i nostri cuori. Ha dilaniato non soltanto i corpi, ma le anime, e sotto il fuoco la nostra visione del mondo si è incenerita. Non avevamo nulla per colmare il vuoto che si era formato dentro di noi, non ci è rimasto niente, a parte noi stessi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri compagni. Tutto quello che conosciamo della vita è la morte. Tutto ciò che amiamo è il nostro passato, un miraggio spettrale nel mondo che infuria.
Abbiamo perso questa guerra, e adesso, stiamo nei lazzaretti a leccarci le ferite. Ma siamo rimasti vivi. L'operazione "Vita" continua. Una nuova colonna attende al punto di accesso.
Tutti pronti?