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concetto artistico Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
La plasticità nelle arti figurative è la qualità di un'opera di articolarsi nello spazio, in maniera più o meno spiccata. Il termine ha avuto vari significati nel tempo, ma si possono tuttavia indicare due filoni fondamentali:
L'arte plastica per eccellenza è la scultura, dove si creano forme tridimensionali che si dispongono naturalmente nello spazio. La scultura a tutto tondo si definisce "plastica" quando il modellato riporta senza semplificarle le forme "naturali", mentre quando queste vengono quasi "disegnate" sulla pietra (con scuri solchi di trapano e altri effetti che si limitano a rappresentare la realtà) si può tutt'al più parlare di rilievo illusorio, simile a quello pittorico.
Una statua tridimensionale non è necessariamente definibile "plastica": a volte i giochi di luce e ombre creano linee e ritmi che niente hanno a che fare con la reale fisicità delle figure che ritraggono: si pensi ai panneggi delle Madonne gotiche che ne nascondono i corpi. Per parlare di plasticità serve un senso di concretezza, di vigore e slancio.
Nei rilievi si può ottenere un senso di plasticità anche con i soli giochi di luci ed ombre che, nonostante una variazione di spessore magari di pochi millimetri, riescano a trasmettere, se osservati in un certo modo (in genere frontalmente) la sensazione di tridimensionalità. Un esempio tipico è lo stile "stiacciato" di Donatello.
Si parla di "posa plastica" quando una persona si atteggia con eleganza, come se fosse una scultura[1]. In vari contesti l'aggettivo "plastico" è semplicemente sinonimo di scultoreo: esempio con decorazione "plastica" di un edificio, si intende il suo abbellimento con statue e rilievi.
In pittura il concetto plasticità è legato al problema della resa dello spessore e del volume delle figure, pur disponendo di una superficie bidimensionale. Le fonti antiche ci tramandano come questo problema fosse stato già affrontato e superato dai pittori greci a partire dal V secolo a.C. L'illusione di tridimensionalità si ottiene essenzialmente tramite lo studio delle luci ed ombre e tramite l'apposizione di un efficace chiaroscuro; inoltre devono essere rispettati, almeno sommariamente, i rapporti dimensionali e spaziali tra le varie figure e tra di esse e lo sfondo[2].
Nella storia dell'arte occidentale, se nella pittura medievale prevalevano in genere caratteristiche di piattezza (che aumentavano un senso simbolico e astratto), a partire da Cimabue, alla fine del XIII secolo[3] in Italia, si tornò a porsi il problema di come la luce illumini realisticamente le figure, in modo da ottenere un maggiore realismo e, quindi, senso di rilievo[4]. Tali scoperte vennero poi pienamente sviluppate da Giotto[5] e ancora di più da Masaccio[6], per poi venire accolte e sviluppate dagli altri pittori rinascimentali, fino alla piena espressione volumetrica di Michelangelo[7] o di Raffaello[8].
Nel Nord-Europa fece invece scuola la produzione artistica alla corte del Duca di Borgogna, con l'esempio delle vigorose statue di Claus Sluter[9], alla cui massiccia fisicità attinsero pittori come Jean Malouel e poi Robert Campin e Jan van Eyck, fondatori della scuola fiamminga[2].
Anche in architettura si può parlare di plasticità, intesa come qualità di un edificio di svilupparsi liberamente nello spazio, lasciando perfettamente visibile il suo volume e la ricchezza di forme articolate. Il concetto si applica tipicamente all'architettura barocca, dove le superfici appaiono spesso modellate come sculture. La plasticità è spesso data poi dal chiaroscuro e dal movimentato disporsi degli elementi architettonici. Il contrario è un effetto compatto e piano.
La plasticità di un edificio si percepisce meglio quando esso si trovi isolato nel contesto[10].
Anche in letteratura si può parlare di "plasticità", in particolare legata ad effetti di particolare espressività e concretezza[1].
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