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potere di applicare le leggi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Nelle scienze politiche, secondo il principio di separazione dei poteri dello Stato, il potere esecutivo, generalmente posseduto da un'istituzione denominata "governo" o "esecutivo", è in prima istanza il potere di far applicare e rispettare le leggi.
L'esecutivo è distinto dal potere legislativo, che è il potere di fare le leggi (legiferare), e dal potere giudiziario che è invece il potere di giudicare ed eventualmente punire chi non rispetta le leggi. Tali poteri sono in genere riservati al sovrano in caso di monarchia assoluta.
In ambito democratico il potere esecutivo è esercitato da organi che eseguono le prescrizioni delle leggi e attuano in concreto le pubbliche finalità. La tutela del Governo, nell'esercizio di tali funzioni, risponde all'esigenza di governabilità, che le singole forme di governo[1] bilanciano variamente con l'esigenza di rappresentatività propria delle assemblee elettive.
Il potere esecutivo può talvolta svolgere funzioni di rango normativo primario: nei regimi presidenziali ciò è imputato direttamente alla responsabilità del Presidente (Executive order negli USA), mentre in Italia avviene con l'emanazione di decreti legge in situazioni di emergenza (che vanno poi approvati dal parlamento entro 60 giorni) o con i decreti legislativi delegati, attraverso i quali il governo agisce su incarico del Parlamento in riferimento a determinati ambiti. In questi casi il potere esecutivo si pone in rapporto dialettico[2] non soltanto con il Parlamento, ma anche con il Capo dello Stato, che esercita il potere di firma in modo variamente incisivo.
In maniera analoga anche gli enti locali e le regioni (enti territoriali) esercitano il potere esecutivo per l'amministrazione locale a mezzo di sindaci, presidenti e organi collegiali quali le giunte.
I suoi compiti sono molteplici:
Il rapporto del Governo con la pubblica amministrazione è oggetto di configurazioni divergenti: per Sabino Cassese, "il governo da parte di un’oligarchia per conto del popolo, quello che chiamiamo democrazia, ha bisogno di strumenti per la realizzazione delle politiche pubbliche proposte all’elettorato e da questo approvate con le votazioni [...] Un braccio forte deve assicurare l’attuazione delle decisioni degli eletti dal popolo [...] Di qui l’importanza fondamentale per il successo della democrazia, della conformazione dell’esecutivo [...] La scarsa attenzione per l’aspetto esecutivo è stata causa dell’astrattezza di molte riflessioni sulla democrazia”[3]. Per Claudio Petruccioli, invece, «il cardine fra “area rappresentativa” e “area non rappresentativa” è quello che chiamiamo ordinariamente “governo”. Le trasformazioni e le innovazioni di vario tipo che stanno investendo le nostre società accrescono funzioni e importanza di quel cardine, del “raccordo” (...) l’area rappresentativa come quella non rappresentativa dello Stato possono in tal modo disporre di una facile testa di turco. Le inadeguatezze dell’una e dell’altra vengono scaricate sul “raccordo” che non funziona, non è all’altezza: accusato di incapacità nel tradurre coerentemente le disposizioni e gli input che gli vengono dalla “rappresentanza” – cioè dalla politica – e nello stesso tempo di voler far prevalere gli arbitrii della politica sulle rigorose competenze “super partes” dell’amministrazione»[4].
Secondo la Corte costituzionale italiana, lo "scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, (...) costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo", ma va conseguito mediante un "bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti"[5]. La dottrina ha letto la sentenza come affermazione dell'impegno della Corte a garantire "quell’equilibrio che, nella forma di governo parlamentare, dovrebbe sempre sussistere tra Parlamento e Governo, e quindi tra rappresentatività e governabilità"[6]: si tratta di un equilibrio funzionale al principio pluralistico[7].
La cosiddetta "governabilità" del sistema - richiesta affermatasi a livello economico nel 1975 con un rapporto della Trilateral Commission, ma già presente nell'ordine del giorno Perassi all'Assemblea costituente - è quindi un'esigenza imprescindibile, ma non può prevalere su diritti fondamentali equiordinati[8] o sull'equilibrio costituzionale tra i poteri[9]. La giuridicità di un ordinamento non può infatti "coniugarsi con l'idea che la necessità di elaborazione di schemi che soddisfino le esigenze di governabilità possa tutto giustificare o spiegare. La repubblica non esiste al di fuori, o al di sopra, del diritto, e le supreme potestà dell'ordinamento che essa esprime esistono solo in quanto giuridicamente istituite e regolate, nel senso di forza regolata dal diritto"[10].
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