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Sono considerate vestigia (dal latino vestigium, impronta, orma) quegli elementi di un organismo (per esempio l'Uomo) che in esso persistono, ma che hanno perso del tutto la funzionalità che invece avevano in un antenato o nell'embrione.
Si possono individuare due tipi di vestigia: filogenetico e ontogenetico. Nel primo caso, un esempio classico è l'appendice vermiforme, residuo intestinale erbivoro, nel secondo l'ombelico.
Un elemento vestigiale può non aver alcun ruolo nell'organismo, come l'epooforon nella donna, oppure può avere ancora qualche funzione, come i denti del giudizio[1], o ancora aver cambiato funzione, come il sacco vitellino nell'embrione umano.
Verso la fine del XIX secolo, nel contesto dell'affermarsi della teoria evoluzionistica, vennero definiti vestigiali diversi organi umani[2] cui più tardi venne invece riconosciuta una funzione effettiva, come il timo.
Tra gli ultimi elementi che si consideravano vestigia nell'uomo, ma ne è stata dimostrata una funzione[senza fonte], vi sono:
Oggi gli organi vestigiali sono interpretati come "relitti evolutivi" che erano funzionali negli antenati. Poiché la loro esistenza sarebbe difficilmente spiegabile nell'ipotesi di fissità delle specie, essa costituisce una prova dell'evoluzione.
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