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campagna di attacchi aerei ad opera della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
L'operazione Allied Force (in italiano "Forza Alleata") è stata la campagna di attacchi aerei portata avanti dalla NATO per oltre due mesi contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milošević, con l'intento di ricondurre la delegazione serba al tavolo delle trattative, che aveva abbandonato dopo averne accettato le conclusioni politiche, e di contrastare l'operazione di spostamento della popolazione del Kosovo allo scopo di predisporre una sua spartizione tra Serbia e Albania. L'esistenza di un piano predisposto a tale scopo non è mai stata provata con sufficiente certezza, ma resta un fatto che appena iniziarono le incursioni aeree NATO l'esercito serbo iniziò operazioni volte a ottenere esodi massicci e compì in taluni casi dei veri massacri.
Operazione Allied Force, parte della guerra del Kosovo | |||
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F-15E in partenza verso la Serbia dalla base di Aviano | |||
Data | 24 marzo - 10 giugno 1999 | ||
Luogo | Jugoslavia, soprattutto nella Repubblica di Serbia | ||
Causa | Massacro di Račak | ||
Esito | Vittoria della NATO | ||
Modifiche territoriali | Accordo di Kumanovo | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
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Effettivi | |||
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Perdite | |||
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2.500 civili morti, di cui 89 bambini[15][16] 3 giornalisti cinesi morti nel bombardamento americano dell'ambasciata cinese di Belgrado | |||
Tutte le perdite della NATO sono statunitensi; secondo alcune associazioni non governative europee, nell'esercito italiano sono stati riscontrati casi di soldati morti di cancro a seguito dell'utilizzo durante questa guerra di armi contenenti uranio impoverito, tuttavia la commissione parlamentare d'inchiesta Italiana non ha trovato correlazioni tra l'uranio impoverito e i tumori sviluppati.[20] | |||
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Durante quei mesi si sviluppò una serie molto intensa di attacchi aerei partiti dall'Italia e da navi nell'Adriatico (in un secondo momento anche dall'Ungheria), contro la presenza militare serba in Kosovo e contro la capacità bellica serba, con una scelta degli obiettivi ad ampio spettro e con interventi "dissuasivi" e intimidatori nei confronti della popolazione allo scopo di esercitare una pressione su Milošević; tra questi il bombardamento delle centrali elettriche (soprattutto con bombe alla grafite, a effetto "psicologico", che non provocano danni permanenti ma prolungati blackout), e il bombardamento della sede della televisione serba a Belgrado.
L'operazione Allied Force è stata la seconda azione militare nella storia della NATO sui territori dell'ex-Jugoslavia dopo l'operazione Deliberate Force del 1995 in Bosnia ed Erzegovina.
Il segretario generale della NATO Javier Solana dichiarò che il punto dell'operazione era applicare la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle nazioni unite n. 1199/98 per il cessate il fuoco, ma la Risoluzione non autorizzava in modo esplicito l'uso della forza.[21]
I Paesi della NATO tentarono di ottenere l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU per l'azione militare, incontrando l'opposizione di Russia e Cina, le quali dichiararono che avrebbero posto il veto su tale misura. Di conseguenza, la NATO lanciò la sua campagna senza l'approvazione dell'ONU, affermando che si trattava di un intervento umanitario. Lo Statuto delle Nazioni Unite proibisce l'uso della forza, se non per una decisione del Consiglio di Sicurezza ai sensi del Capitolo VII, o di autodifesa contro un attacco armato, ma nessuna delle due circostanze era presente in questo caso.[21]
Le origini della crisi in Kosovo risalgono alla revoca delle autonomie della regione ad opera del governo presieduto da Slobodan Milošević, presidente della Serbia, nel 1989. A seguito di questa revoca delle autonomie e di una ventata di nazionalismo serbo che minacciava la minoranza etnica albanese-kosovara, il leader del partito LDK (Lega Democratica del Kosovo), Ibrahim Rugova, promosse forme di resistenza non-violenta, richiedendo il ripristino dell'autonomia del Kosovo che era garantita nella Repubblica Federativa Jugoslava di Tito (una repubblica federativa con diritto di secessione unilaterale).
Dal 1995 alla protesta non-violenta si aggiunse una attività di guerriglia, da parte del neonato UÇK, sorto poco dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina e infiltrato anche da veterani musulmani, anche croati. Questo movimento di guerriglia, inizialmente poco attivo, emerse allo scoperto nell'aprile 1996 con alcuni omicidi e con attentati (inclusa la distruzione di raccolti) contro cittadini d'etnia serba; l'UÇK mirava all'indipendenza completa del Kosovo, in polemica con Rugova.
Nel marzo 1998 iniziò l'escalation della crisi, caratterizzata dall'intensificarsi delle attività dell'UÇK e da una occupazione militare progressiva del Kosovo da parte delle forze militari e paramilitari serbe. In questo momento la comunità internazionale inizia a seguire la crisi, con l'interessamento di vari paesi europei e degli Stati Uniti, nonché con l'intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L'interessamento internazionale riguardò anche il "gruppo di contatto" per l'ex Jugoslavia, già attivo con la guerra in Bosnia-Erzegovina.
A fine marzo il Consiglio di Sicurezza dell'ONU emana una risoluzione (n. 1160) con la quale condanna l'eccessivo uso della violenza da ambo le parti, successivamente (maggio) la comunità internazionale mette sotto embargo per gli armamenti la Repubblica Federale Jugoslava.
Nel giugno anche la NATO e il G8 si esprimono sulla crisi e a settembre viene emessa una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la n. 1199, nella quale si rafforza la richiesta di cessare le ostilità e si esprime forte preoccupazione per la sicurezza e la stabilità della regione.
Il Kosovo è sotto l'occupazione militare serba nel tentativo di interrompere i continui rifornimenti di materiale bellico che, secondo i serbi, giunge ai ribelli dell'UCK dall'Albania, ma la situazione sembra sfuggire di mano e, disattese le risoluzioni ONU, la NATO minaccia la possibilità di intervenire militarmente nella crisi proclamando un Activation Order, che sarà seguito, nei mesi successivi, da un rischieramento di circa 500 aerei NATO in varie basi italiane (principalmente nella base USAF Aviano AFB e nella base di Istrana).
Nel novembre l'OSCE media un accordo grazie al quale invierà duemila osservatori in Kosovo, per verificare la presenza di violenze e le responsabilità delle parti, nonché di sorvoli di ricognizione da parte di aerei NATO sul Kosovo (risoluzione n. 1203 del Consiglio di Sicurezza).
Successivamente alcuni Paesi NATO rischierano in Macedonia un contingente di forze terrestri (Operazione Joint Guarantor) con il triplice scopo di fare da deterrente contro eventuali infiltrazioni in Macedonia, di fare pressioni sul governo serbo e soprattutto quello di operare come forza di esfiltrazione (extraction force), in favore degli osservatori internazionali, qualora si fossero presentati pericoli.
Durante l'inverno gli scontri continuano, seppur a bassa intensità. A metà gennaio 1999 avviene però il massacro di Račak, a seguito del quale vengono rinvenuti 40-45 cadaveri di kosovari di etnia albanese, uccisi in massa dopo violenti scontri tra forze di polizia serbe ed elementi dell'UÇK, sotto lo sguardo degli osservatori internazionali. La situazione, già precaria, peggiora notevolmente.
Nel febbraio 1999 si svolge la "Conferenza internazionale di pace di Rambouillet", ultimo tentativo di ricomporre la crisi; le condizioni poste dalla Serbia saranno tra le altre cose l'accettare il fatto che il Kosovo appartiene alla Serbia, status che tutt'oggi la Serbia rivendica. Al fine di risolvere la crisi il documento, che prevede l'autonomia ma non l'indipendenza del Kosovo, verrà firmato dal rappresentante dell'UÇK Adem Demaçi solo dopo notevoli pressioni USA. Qualche settimana dopo, alla ripresa di Parigi - momento attuativo degli accordi siglati a Rambouillet - la delegazione serba rigetta l'accordo sostenendo che si trattava di un'autonomia che mascherava di fatto un processo di indipendenza, con condizioni umilianti per i serbi.
A marzo a seguito di risposte negative da parte della Serbia a tornare alle sedi diplomatiche attuative degli accordi presi, e dopo ripetute minacce di intervento da parte della NATO, con la minaccia di veto da parte della Russia e della Cina che impediscono di fatto un pronunciamento del Consiglio di Sicurezza, la NATO decide di intervenire con attacchi aerei per imporre alla Serbia il rispetto degli accordi di Rambouillet.[22]
Pochi giorni prima gli osservatori dell'OSCE vengono fatti evacuare dal Kosovo.
Fissati gli obiettivi, i vertici politici e militari della NATO optarono per una massiccia campagna di bombardamenti aerei a carattere strategico, pur tenendo aperta fino all'ultimo la possibilità di un attacco di terra (truppe erano già presenti con compiti di difesa e controllo in Macedonia e Albania, inoltre ulteriori truppe erano state mobilitate).
La scelta di condurre solo attacchi aerei fu dettata dalla esigenza di limitare al massimo le perdite, consci che molti morti avrebbero provocato una caduta del consenso da parte dell'opinione pubblica dei Paesi NATO, secondo le precedenti esperienze in Somalia. L'opzione dell'attacco terrestre fu quindi scrupolosamente evitata.
Si possono suddividere le operazioni aeree in tre fasi:
L'andamento delle operazioni e la capacità d'autodifesa serba hanno tuttavia impedito lo svilupparsi in maniera regolare di queste fasi, che si sono sovrapposte lungo tutto il corso della campagna.
Da quando la NATO si è fatta carico di imporre alla Serbia la smilitarizzazione del Kosovo e il rispetto degli accordi di Rambouillet, gli aeroporti militari italiani hanno ospitato almeno un migliaio di aerei militari con esigenze di massima operatività, nonché con la richiesta di servizi dettata dallo svolgimento intensivo di missioni di guerra.
La partecipazione italiana, basandosi sulle informazioni ufficiali[senza fonte], è stata la seguente:
Inoltre vari G.222 e C-130H italiani hanno effettuato numerose missioni di supporto tattico-logistico, per 257 sortite in totale e 419 ore di volo.
Tutti i numeri degli aerei partecipanti sono variabili, in quanto temporaneamente l'AM ha fornito altri aerei in aggiunta a quelli sopra elencati.
L'Esercito Italiano ha schierato in Puglia le batterie antiaeree del 4º Reggimento artiglieria controaerei "Peschiera",[23] con dispiegamento basato su quattro batterie Hawk a Punta Contessa di Brindisi, Torre Veneri di Lecce, Torre Cintola di Monopoli e all'Aeroporto di Bari-Palese, che hanno contribuito ad assicurare la protezione degli aeroporti della Puglia.
L'Italia ha dovuto affrontare costi particolarmente alti. Basti pensare che il costo delle sole missioni dell'Aeronautica Militare è stato di 65 miliardi e mezzo di lire (equivalente a quasi 34 milioni di euro), al quale va aggiunto lo schieramento navale che, oltre al Garibaldi con il suo gruppo aereo, includeva anche la fregata Zeffiro. A tutto questo bisogna aggiungere poi lo schieramento logistico in supporto alla NATO.
Al servizio della campagna aerea sono stati posti diciannove aeroporti dai quali ha operato la maggior parte dei velivoli NATO, richiedendo l'attivazione di tutti i servizi (meteo, rifornimenti di carburante, ATC - controllo del traffico aereo, ecc.) H-24 (24 ore al giorno). Da questi aeroporti sono state erogate 300 000 tonnellate di carburante e le piste degli aeroporti sono state affaticate al punto da richiedere lavori straordinari, in quanto l'usura è stata pari a quella di 1 anno e mezzo di utilizzo "normale". Il costo è stato quantificato in 25 miliardi di lire.
Nell'ambito dell'operazione DINAK (7 marzo 1999/21 giugno 1999), uno schieramento antiaereo basato su di un radar mobile installato vicino a Brindisi, cinque batterie Spada (Brindisi, Otranto, Gioia del Colle, Amendola e Aviano), quattro batterie Hawk dell'Esercito Italiano (Punta Contessa di Brindisi, Torre Veneri di Lecce, Torre Cintola di Monopoli (Italia) e Aeroporto di Bari-Palese), ha assicurato la protezione degli aeroporti insieme agli schieramenti della VAM (Vigilanza AM) e dell'Esercito Italiano.
La NATO, esclusa la partecipazione italiana già elencata, ha schierato un migliaio (che verso la fine della guerra era parecchio abbondante) di aerei tra bombardieri (statunitensi), cacciabombardieri e assetti vari, di ben tredici Stati differenti, ossia tutta la NATO, esclusa l'Islanda e il Lussemburgo (privi di forze aeree) e la Grecia (che per ragioni politiche ha inviato solo un cacciatorpediniere). Non vanno neppure considerate la Polonia, la Repubblica Ceca e l'Ungheria in quanto, essendo da pochissimo entrate nella NATO, non erano ancora integrate nell'apparato militare.
La partecipazione più consistente è stata statunitense, ma per la prima volta anche l'Europa si è accollata una fetta di missioni piuttosto ampia.
Importante la partecipazione francese, forse la seconda (in contesa con Regno Unito e Italia), sia per la componente da caccia e di cacciabombardieri, ma anche per le missioni di supporto.
Lo schieramento britannico, sempre notevole per partecipazione, questa volta ha sollevato dubbi in quanto a impegno, visto che gli Harrier erano all'inizio solo otto, e i Tornado hanno tardato ad arrivare. Inoltre gli Harrier hanno apparentemente deluso per un'efficacia operativa inferiore alle aspettative. La partecipazione navale ha riguardato anche un sottomarino nucleare, una fregata e una nave ausiliaria.
Il sottomarino ha lanciato vari missili da crociera del tipo Tomahawk, che hanno rappresentato il primo impiego operativo inglese per questo tipo di armi.
I Paesi Bassi, molto impegnati in questa guerra, hanno dimostrato buone capacità: i loro F-16 infatti sono intervenuti in ogni tipo di missione, e un F-16AM si è addirittura aggiudicato l'abbattimento di un MiG-29 serbo, l'unica vittoria aerea europea.
Anche per questo considerevole schieramento europeo (fatta eccezione per Canada e Turchia), i numeri sono sicuramente in difetto: durante tutto il conflitto infatti il generale Clark ha frequentemente richiesto incrementi dei numeri degli aerei schierati, e inoltre non sono considerati aerei da trasporto che hanno fornito supporto iniziale od occasionale agli schieramenti.
Non sono inclusi nell'elenco i velivoli teleguidati da ricognizione (droni) impiegati da francesi e britannici.
C'è inoltre da aggiungere che la Polonia ha offerto un An-26 da trasporto, che è stato visto più volte operare da basi italiane. Infine l'Ungheria ha fornito, durante il corso della guerra, spazio aereo e basi per uno schieramento di F/A-18 statunitensi.
Come sempre in questi ultimi conflitti gli Stati Uniti hanno vantato una presenza veramente consistente, anche se non più ai livelli di Desert Storm, sia nei numeri sia nelle percentuali. Gli Stati Uniti, in particolare, sono gli unici in grado di coprire in maniera perlomeno adeguata sia tutte le esigenze di combattimento (caccia, cacciabombardieri, SEAD, ma anche bombardieri strategici, aerei da appoggio tattico, cruise), sia tutte quelle specialità e quegli assetti più o meno pregiati come aerei da trasporto strategico, aerei radar, cisterne volanti, aerei da guerra elettronica, nuclei CSAR (da ricerca e soccorso in combattimento), ricognitori teleguidati, e aerei per l'intelligence elettronica, postazioni di comando volanti e altro ancora. Tutti assetti indispensabili in una guerra ad "alta tecnologia", ma di cui nessuno dispone in quantitativi sufficienti.
Questo l'elenco approssimativo degli aeromobili impiegati:
Gli aerei ed elicotteri schierati erano ben di più, in quanto si devono aggiungere i cargo (C-17, C-141, C-5 e C-130 Hercules), altri aerei di supporto e sorveglianza (le postazioni di comando volanti EC-130ABCCC, o gli aerei da ricognizione strategica U-2 per esempio), e gli elicotteri (MH-53J "Pave Low"), ecc. Vanno poi inclusi nel conteggio anche alcuni velivoli teleguidati da ricognizione (in particolare RQ-1A "Predator").
Aerei da PsyOps (operazioni psicologiche) hanno più volte effettuato intromissioni nelle frequenze radiofoniche e televisive serbe per lanciare comunicati diretti alla popolazione, nell'intento di creare opposizione a Milošević.
In un secondo momento sono stati inviati a Tirana ventiquattro AH-64 Apache come forza deterrente rispetto a una paventata invasione dell'Albania.
Le cifre parlano da sole, con una partecipazione che oscilla tra il 60 e il 90% del totale delle missioni.
Lo schieramento navale includeva una portaerei, la USS "Roosevelt", due unità da appoggio anfibio, la USS "Inchon" e la USS "Nassau", e altre unità di superficie e sommergibili dotate di missili da crociera Tomahawk. Il totale di BGM-109 Tomahawk lanciati da statunitensi e britannici durante l'operazione è di cento esemplari, con un rapporto di successi molto elevato, sebbene siano da contare alcuni errori gravi.
Non potendo schierare contro la NATO poco più che duecento aerei fra quelli da combattimento e addestratori armati, le forze federali jugoslave messe in campo sono state decisamente esigue e in una buona parte totalmente inadeguati ad affrontare una minaccia agli standard della NATO. Questo l'elenco approssimativo degli aerei da combattimento:
Non è ben chiaro il quantitativo del resto degli aeromobili, soprattutto elicotteri vari e aerei da trasporto, di cui si sa solo che hanno operato durante la guerra elicotteri Mi-8 e Sa-341 "Gazela" in appoggio alla campagna terrestre serba in Kosovo.
Per quanto riguarda l'antiaerea, sappiamo che la Federazione Jugoslava era dotata di due batterie a lungo raggio SA-2, e di batterie SA-3, SA-6, e forse SA-13, nonché numerosi pezzi d'artiglieria. Sicuramente l'antiaerea ha subito delle perdite, ma è certo che fino all'ultimo giorno di guerra era attiva, anche grazie alla notevole prudenza e abilità degli uomini radar.
Per quanto riguarda le truppe a terra la situazione è ben più incerta. L'unica cosa sicura è che i serbi non si sono risparmiati in questo fronte, anche perché non vi sono state minacce troppo forti: i guerriglieri dell'UCK, soprattutto all'inizio, non erano in grado di contrapporsi in maniera seriamente valida, e gli attacchi aerei della NATO non hanno saputo ostacolare in maniera significativa le forze serbe.
Le forze serbe, oltre a unità militari dell'esercito, includevano anche gruppi paramilitari facenti capo a formazioni ultranazionaliste, il cui appartenere o meno alla linea di comando governativa è stato uno dei temi principali del processo a Milošević.
Posto che da parte serba non esistono conteggi precisi sulle perdite, si può stimare che le vittime serbe degli attacchi aerei della NATO ammontino ad alcune migliaia, inclusi civili uccisi durante bombardamenti imprecisi o veri e propri errori. Come molti altri conflitti, anche in questo caso le perdite della coalizione sono state molto ridotte rispetto a quelle della parte attaccata.
I dati sui danni inflitti alle forze serbe sono stati assai controversi, dato che successive valutazioni hanno dimostrato come le perdite materiali effettive fossero contenute. In particolare si stima come più della metà della flotta di MiG-29 sia stata distrutta (a terra o in volo), mentre la linea di volo dei MiG-21 abbia limitato i danni (20 o 21 aerei distrutti). Non sono note le perdite per le altre linee di volo. Anche le perdite nella componente antiaerea hanno avuto un risultato misto: due delle batterie missilistiche fisse SA-2 su tre sono state distrutte (66%), i SA-3 semimobili hanno subito perdite all'80%, mentre i SA-6 mobili hanno perso tre radar mobili su ventidue (13%). Tutte le altre batterie a breve raggio mobili (AAA, SA-9, SA-13 e gli AA-8 e AA-11 convertiti in SAM) hanno subito perdite limitate. Nelle perdite della contraerea jugoslava va anche contata l'enorme quantità di missili sparati e mancati o schivati: alla fine della guerra, le forze serbe avevano sparato 815 missili terra-aria, con soli due aerei NATO abbattuti (oltre a un certo numero di droni da ricognizione). 665 su 815 erano a guida radar (477 SA-6 e 188 SA-3), gli altri a guida IR (124), mentre ventisei missili non sono stati identificati.
Un altro doppio risultato è evidente esaminando il numero di missili antiradar sparati dalla NATO: 743 HARM sono stati sparati dalla NATO, molti dei quali andati a vuoto grazie alle tattiche degli operatori con lo spegnimento dei radar. Tuttavia dall'altro punto di vista, contrastare le missioni di soppressione delle difese aeree con le tattiche citate precedentemente ha portato al salvataggio di molti radar, ma alla perdita delle infrastrutture che la contraerea stessa doveva difendere, ovvero al successo delle missioni aeree sui bersagli primari (edifici, fabbriche, ponti, centri di comando, infrastruttura), snaturando quindi il motivo stesso di esistenza della contraerea, ridotta alla sola preservazione di sé stessa. Inoltre, anche analizzando le tecniche jugoslave da un punto di vista prettamente militare, spegnere i radar ha voluto dire che molti dei 665 SAM jugoslavi a guida radar sono stati sparati non guidati, limitandone enormemente l'utilità.
I carri armati distrutti dall'aviazione NATO non sembrano essere stati più di dodici (a fronte di una stima iniziale di duecento perdite). Dal punto di vista della Serbia, le tattiche di camuffamento operate dalle forze jugoslave hanno impedito ai piloti alleati (che raramente scendevano al di sotto dei 15 000 piedi di quota per evitare la minaccia dell'artiglieria antiaerea) di riconoscere correttamente i bersagli. Dall'altra parte, la sola presenza delle forze aeree NATO in supremazia aerea ha impedito di concentrare truppe, impedendo di portare avanti efficacemente le operazioni anti-insurrezionali in Kosovo (e prestando il fianco agli attacchi della guerriglia dell'UCK) e portando a tutti gli effetti alla sconfitta finale.
A causa dell'inefficacia della contraerea (nonostante le tattiche di auto-preservazione), danni consistenti li ha subiti l'economia serba: a causa della distruzione di alcune centrali elettriche, delle pompe idriche, di alcuni ponti (con l'interruzione della navigabilità del Danubio) e di varie infrastrutture portata avanti in una fase avanzata dell'operazione, l'economia serba ha richiesto nel dopoguerra consistenti aiuti economici per una ricostruzione protrattasi per anni, senza considerare i pesanti danni ambientali.[24]
Numerosi sono stati i civili coinvolti direttamente nei bombardamenti, a causa di incidenti ma anche per attacchi deliberati. Tra questi vanno ricordati gli incidenti a treni e pullman durante il bombardamento ad alcuni ponti, nonché l'attacco deliberato alla stazione televisiva serba, che causò sedici morti tra funzionari, giornalisti e impiegati.[senza fonte] Vanno infine ricordati i kosovari di etnia albanese, che in fuga dalle persecuzioni serbe e i bombardamenti sono stati in più di una occasione vittime degli errori dei bombardieri NATO. Non è calcolabile poi il numero di morti causati dalle forze militari e paramilitari serbe.
Particolarmente grave per la forte tensione che ha provocato è stato il bombardamento dell'ambasciata cinese il 7 maggio, con la morte di un funzionario e due giornalisti cinesi,[25] dovuto o a un errore dell'intelligence statunitense o a un'azione deliberata a seguito dell'attività dell'ambasciata a favore dell'esercito serbo.[26] Le indagini effettuate negli anni successivi dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia[27] e da Amnesty International[28] non hanno permesso di chiarire fra queste due opzioni.
Human Rights Watch ha calcolato fra 489 e 528 le perdite di civili jugoslavi causate dai bombardamenti.
Il 23 Aprile 1999, la Federazione Russa ha attivato il Meccanismo di Mosca per analizzare l'operazione militare della NATO. Tale strumento prevede l'invio di una missione di esperti indipendenti nel territorio di uno Stato partecipante all'OSCE affinché venga accertato il rispetto degli obblighi assunti nella cosiddetta "dimensione umana" dell'OSCE (istituzioni democratiche e diritti umani).[29]
Nel 2018 le autorità della Serbia, denunciando un incremento dei casi di tumore fra i bambini i cui genitori sono nati negli anni novanta, hanno annunciato l'istituzione di un'apposita commissione d'indagine sulle conseguenze dei bombardamenti all'uranio impoverito della NATO.[30]
Le perdite della NATO sono state assai limitate. In ogni caso, la notevole prudenza dei pianificatori militari ha certamente ridotto le perdite di velivoli, che venivano fatti operare ad alta quota per evitare la contraerea (con maggiori difficoltà nell'individuazione e riconoscimento dei bersagli, con il conseguente incremento degli attacchi falliti e del rischio di colpire obiettivi civili).
L'invasione terrestre del Kosovo, che avrebbe certamente causato perdite sensibili tra le truppe, è stata accuratamente evitata.
Nel dettaglio, fatti salvi alcuni atterraggi d'emergenza a Sarajevo (Bosnia) e Skopje (Macedonia), da parte di alcuni F-15, un Harrier inglese e un A-10 con il pilota ferito, le perdite dichiarate sono state minime:
Oltre a queste perdite sono da includere i numerosi aeromobili teleguidati andati perduti e i tre soldati statunitensi fatti prigionieri (e poi liberati) durante una missione di pattugliamento al confine tra Kosovo e Macedonia.
Questo è un elenco di fatti significativi databili, come tale non deve essere considerato completo (nota che Italia e Serbia hanno lo stesso fuso orario).
Le cifre dei morti e feriti sono basate su rapporti delle autorità serbe dell'epoca. Va notato che in diversi casi sono state confermate nella sostanza tramite testimonianze della stampa, anche internazionale, e da rapporti della Croce Rossa.
Il bilancio di questa operazione è estremamente controverso: se infatti l'obiettivo primario dell'operazione era imporre alla Serbia il rispetto del trattato di Rambouillet, cosa riuscita, non è trascurabile il fatto che la repressione e la temuta pulizia etnica, che si volevano impedire con la campagna militare, siano scoppiate con maggior vigore proprio all'inizio dei bombardamenti, con un numero di profughi stimati tra i 700 000 e il milione.
La ricercata destituzione di Slobodan Milošević è arrivata, con notevole ritardo, il 6 ottobre 2000, mentre è stato consegnato al tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia il 28 giugno 2001.
Molti analisti ritengono che la mancanza di un attacco terrestre della NATO (evitato perché inaccettabile per le probabili perdite, stimate in un migliaio di uomini) abbia permesso il massacro della minoranza albanese in Kosovo, essendoci stata mano libera da parte dell'esercito serbo, difficilmente contrastabile mediante sole operazioni aeree in territorio montuoso.
Infine a guerra compiuta, con l'avvio dell'operazione KFOR e il rimpatrio dei profughi albanesi, è iniziato un fenomeno opposto al precedente, quello della fuga della minoranza serba sotto la minaccia dei kosovari albanesi, con vari episodi di violenza e successivi incendi a numerose chiese serbe ortodosse. Al 2006 la comunità serba vive sotto la diretta protezione della KFOR.
Oltre a ciò dopo la guerra si levarono molte critiche contro l'intervento della NATO quando si venne a sapere che numerosi scontri tra serbi e albanesi (con la repressione di questi ultimi), furono "cercati" dall'UCK che intendeva alzare il livello dello scontro affinché la crisi in Kosovo ottenesse visibilità internazionale; aspre critiche sono state rivolte anche al fatto che l'UCK, appoggiato durante la campagna aerea, e successivamente legittimato, fosse infiltrato da elementi fondamentalisti e legato ad affari criminali internazionali.
Accanto alle critiche, molti considerano che l'operazione abbia evitato una catastrofe politica (e, come conseguenza, umanitaria) ai danni non solo del Kosovo, ma dell'Albania e della Macedonia (regioni con enormi problemi di transizione), con l'assai probabile perpetuarsi di quello scenario di scontri sanguinosi di nazionalità ed etnie che ha provocato nel corso di dieci anni di conflitti nei Balcani ben 250 000 morti, in gran parte frutto di deliberate uccisioni di civili, perpetrate a loro volta da altri civili o da paramilitari.
Sotto questo profilo l'analisi della diplomazia internazionale in un primo periodo guardava a Milošević come potenziale elemento antidisgregatore rispetto all'esplosione delle questioni nazionali e delle secessioni nella Jugoslavia. In effetti, il regime serbo è stato l'unico (o il più conseguente) sostenitore del mantenimento della Federazione Jugoslava, e forse per questo godeva di un appoggio piuttosto incondizionato (e talvolta miope) da parte di importanti capi di Stato. Più che gli avvertimenti e le implorazioni dell'opposizione serba, è stato probabilmente il reiterato comportamento diplomatico inaffidabile della Serbia a provocare un progressivo cambiamento di valutazione. Ha senso parlare di "Serbia" e non di "Jugoslavia", perché la nazione emersa dalle rovine delle federazione del dopoguerra, ridotta alla sola Serbia e al Montenegro, di fatto coincideva in tutto e per tutto con la volontà politica del regime serbo. L'evidente tendenza a utilizzare i momenti di trattativa per preparare dietro le spalle mosse militari in aperto contrasto con il comportamento tenuto dalle delegazioni, il carattere pretestuoso delle rotture delle trattative, hanno valso a Milošević il nome di "piccolo Hitler", non tanto per le "pulizie etniche", quanto per la tendenza a considerare "i trattati come pezzi di carta".
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