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gruppo di poeti latini Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
I poetae novi, detti anche cantores Euphorionis o neoterici, furono poeti romani in lingua latina, quasi tutti provenienti dalla Gallia Cisalpina, che operarono a Roma nella prima metà del I secolo a.C., inaugurando una nuova poetica, la poesia neoterica. Il principale esponente fu Gaio Valerio Catullo.
Il termine è la traduzione dell'aggettivo greco di grado comparativo νεώτεροι (neòteroi), denominazione che implicava desiderio di innovazione, data polemicamente da Cicerone al capitolo 161 dell'Orator (in lingua latina l'aggettivo novus contiene una sfumatura negativa di rovesciamento delle convenzioni consolidate: si veda il suo uso nell'espressione novus homo) che non risparmiò loro anche il nomignolo di cantores Euphorionis (Tusculanae disputationes III, 45) per il gusto ellenizzante e aristocratico che essi possedevano e per il loro atteggiamento da innovatori.
Iniziati all'arte poetica da Partenio di Nicea ed educati idealmente alla scuola di Valerio Catone, dichiararono guerra ai lunghi poemi di imitazione enniana, preferendo gli epilli, i carmina docta, la poesia lirica.
Il tono della loro poesia era spesso scherzoso e lieve ed è per questo che i loro componimenti, per quanto sempre raffinati e preziosi nella forma, venivano chiamati παίγνια (pàignia) in greco e nugae in latino, tradotto alla lettera "bagatelle", "sciocchezze", "cosucce", "cose di poco conto". I poetae novi erano legati da reciproca amicizia, vivevano in modo libero e spregiudicato ed erano avversi a Cesare.
La loro poesia evitava infatti i grandi temi tradizionali del genere epico e drammatico, non amava trattare argomenti di carattere politico e sociale, ma si volgeva soprattutto alla sfera personale e aveva come tema centrale l'amore.
Modello ispiratore del neoterismo era l'alessandrino Callimaco[1], la cui opera affermava i principi poi ripresi dai poetae novi:
Già verso la fine del II secolo a.C. si erano già fatti sentire a Roma prima del neoterismo i primi influssi alessandrini e callimachei con il circolo di Lutazio Catulo, il cui personaggio di maggior rilievo, Levio, scrisse un'opera dal titolo Erotopaegnia (scherzi d'amore).
Ma fu la generazione successiva a quella di Lutazio Catulo, il cui capostipite fu Valerio Catone, a portare avanti questo tipo di poesia.
Tra gli altri poeti appartenenti al gruppo dei poetae novi si può annoverare Furio Bibaculo, Varrone Atacino, Elvio Cinna, Licinio Calvo, anche se il più grande fra tutti fu Catullo la cui opera è giunta fino a noi, mentre degli altri ci rimane qualche raro titolo o frammento.
La poesia neoterica è chiaramente ispirata alle concezioni alessandrine. Il maggior esponente dell'estetica alessandrina è Callimaco. Egli in una sua elegia collocata all'inizio degli Aitia esprime una polemica contro i poeti tradizionali dicendo:
«"[...] Contro la mia poesia mormorano i Telchini-gente ignorante che della musa non è amica- poiché su re o eroi un poema unico e continuato non ho realizzato in molti versi [...] ma in breve svolgo il mio canto come un bambino, anche se non poche sono le decine dei miei anni."»
Famosa è anche l'espressione «μέγα βιβλίον μέγα κακόν» (mèga biblìon, mèga kakòn), ossia «grande libro, grande male». In queste espressioni è chiaramente e completamente riscontrabile il manifesto della poetica alessandrina. Questa aveva quindi una chiara avversione verso i tradizionali poemi epici che narravano di eroi poiché erano una lunga narrazione in versi esametri, e in quanto tale secondo Callimaco il poeta (aedo o rapsodo) non poteva curarne l'eleganza e la raffinatezza.
La poesia secondo Callimaco doveva essere una creazione lieve, delicata, breve nell'estensione (oligóstichos) ma estremamente rifinita e raffinata, rifiutando la grandiosità e la magniloquenza dell'epos (la poesia epica, per esempio quella di Omero).
La poesia alessandrina era così composta in forme più agili e meno impegnative dell'epos: epigramma, giambo, elegia e epillio (poemetto mitologico, con cui Callimaco aveva tentato di rinnovare l'epica tradizionale).
Il manifesto poetico callimacheo fu pienamente assunto anche dai neoteroi.
Nel carme 95 di Gaio Valerio Catullo emerge chiaramente il programma poetico dei neoteroi:
«Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
quam coepta est nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hortensius uno
. . . . . . .
Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
Zmyrnam cana diu saecula pervoluent.
at Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
Parva mei mihi sint cordi monimenta...,
at populus tumido gaudeat Antimacho."»
«La Zmyrna del mio Cinna dopo nove estati e nove inverni
che è stata cominciata infine è stata pubblicata,
mentre Ortensio (ha scritto) 500 mila versi (in un anno)
. . . . . . .
la Zmyrna giungerà ben addentro fino alle profonde acque del Satraco,
a lungo i secoli canuti leggeranno la Zmyrna.
Ma gli Annali di Volusio finiranno sulle rive del Po
e spesso forniranno ampi involucri per gli sgombri.
I piccoli capolavori del mio (amico) mi stiano a cuore
invece il popolo si rallegri con il presuntuoso Antimaco.»
Il titolo stesso del componimento (Zmyrna) è indice della ricercatezza formale, Zmyrna è una variante più rara per Myrrha. Il mito stesso è raro e poco conosciuto. Del carme Zmyrna si conservano solo tre versi, le testimonianze più antiche lo presentano come un componimento così dotto da risultare astruso e oscuro, che necessita di approfonditi commenti filologici per esser compreso.
Il maggior esponente della poesia neoterica è Gaio Valerio Catullo. Gli altri sono:
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