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pittore impressionista francese (1840-1926) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Claude-Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 5 dicembre 1926) è stato un pittore francese, considerato uno dei fondatori dell'impressionismo francese e certamente il più coerente e prolifico del movimento. I suoi lavori si distinguono per la rappresentazione della sua immediata percezione dei soggetti, in modo particolare per quanto riguarda la paesaggistica e la pittura en plein air.
Oscar-Claude Monet era figlio del droghiere Claude Adolphe Monet, che dopo avere solcato i mari europei in qualità di marinaio su una nave mercantile di Le Havre, era tornato a Parigi per sposare Louise-Justine Aubrée.
Quest'unione fu coronata dalla nascita di Léon Pascal, nel 1836, e di Oscar, battezzato in questo modo dai genitori ma destinato a entrare nelle pagine dei libri di storia dell'arte come Claude Monet.
Il piccolo Claude fu battezzato nella Chiesa di Notre-Dame-de-Lorette il 20 maggio 1841: egli, tuttavia, beneficiò poco del fervente clima culturale parigino perché, quando aveva solo cinque anni, la famiglia si trasferì a Le Havre, dove una sorellastra del padre aveva un commercio di articoli marittimi insieme al marito Jacques Lecarde.
Monet beneficiò di uno stile di vita borghese, trascorrendo una fanciullezza agiata e all'aria aperta, grazie alla quale poté coltivare un amore viscerale per i paesaggi normanni, le campagne ed il mare; una passione che sarà cruciale per la sua futura carriera pittorica.
La scuola non lo attraeva, e i quattro anni trascorsi al collège communal di Le Havre non fecero che soffocare la sua creatività: «ero un ragazzo naturalmente indisciplinato» osservò Monet cinquant'anni dopo «anche nella mia infanzia odiavo obbedire alle regole [...] Vivevo la scuola come una prigione e odiavo trascorrere il mio tempo lì, anche se per sole quattro ore giornaliere». Il suo elemento, come si è già accennato, era l'aria aperta, «dove il sole era allettante, il mare affascinante, e dove era semplicemente meraviglioso correre lungo le scogliere, o magari sguazzare nell'acqua». Nonostante Monet odiasse trascorrere il suo tempo dietro ai banchi di scuola, ebbe modo di assimilare i fondamenti della lingua francese e dell'aritmetica, ed erano ben pochi i compagni di classe che non apprezzavano la sua personalità affascinante e il suo senso dell'umorismo.[1]
Una materia che tuttavia catturò sin da subito il suo interesse fu il disegno. «Disegnavo ghirlande sui margini dei miei libri ed ero solito ricoprire la fodera blu dei miei eserciziari con ornamenti fantastici, o magari con raffigurazioni irriverenti dei miei insegnanti, soggetti a distorsioni estreme». Nonostante Monet avesse individuato con successo la sua passione, questi anni per lui furono tutt'altro che felici: nell'estate del 1857 lasciò il collège, privo ormai del sostegno della madre, scomparsa il 28 gennaio di quell'anno, e del padre, dal quale era considerato poco più che un fallito. Se Monet, ormai divenuto un adolescente, non abbandonò le sue ambizioni artistiche per darsi al commercio insieme al padre fu solo grazie alla zia, la quale, incapace di colmare il vuoto lasciato dalla morte del marito Jacques, decise di cimentarsi con i pennelli «come solo le donne sposate sanno fare».
Grazie all'interessamento della zia, Monet fu in grado di proseguire la sua passione sotto la guida di Jacques-François Ochard, docente presso il collège dai modi assertivi e cordiali. Dopo essersi opportunamente formato Monet licenziò i suoi primi cimenti artistici, specializzandosi nella realizzazione di sferzanti caricature da vendersi al prezzo di venti franchi. Accentuando in modo ridicolo e satirico i tratti salienti degli abitanti di Le Havre, Monet riuscì certamente a farsi un nome e ad aumentare la sua stima in sé stesso; non vi è sorpresa, dunque, se realizzò un centinaio di caricature, arrivando persino a esporle in cicli settimanali presso la vetrina di una bottega sulla rue de Paris, Gravier's. Quando ogni domenica il popolino di Le Havre si dava appuntamento lì davanti e scoppiava a ridere fragorosamente, Monet, per usare le sue stesse parole, «scoppiava di orgoglio».[2]
Ormai consapevole di avere raggiunto una certa perizia artistica, Monet era fermo nel volere proseguire la sua vita nel solco dell'arte. Fondamentale, in tal senso, fu l'intervento del corniciaio operante presso Gravier's, grazie al quale il Claude fece conoscenza di un paesaggista normanno modesto ma determinato, Eugène Boudin. «Dovresti conoscere monsieur Boudin» rivelò il corniciaio al giovane Claude «checché ne dicano le persone sa assolutamente il fatto suo [...] potrebbe darti ottimi consigli». Le perplessità di Monet furono rilevanti - il suo spirito di autodidatta era insofferente ai freni - ma le insistenze del corniciaio furono talmente pressanti da sollecitarlo a rivolgersi a Boudin, che era ben contento di insegnare la sua arte a un «giovane uomo così versato per le caricature».
Fu un incontro intensissimo. Boudin ammirava le opere «sconvolgenti, ricche di entusiasmo e di vita» del giovane allievo, che dal suo canto ammise di avere beneficiato non poco degli insegnamenti del maestro: «Boudin, con instancabile gentilezza, intraprese la sua opera d'insegnamento. I miei occhi finalmente si aprirono e compresi veramente la natura; imparai al tempo stesso ad amarla. L'analizzai con una matita nelle sue forme, la studiai nelle sue colorazioni».[3] Se un tutoraggio accademico lo avrebbe confinato nel claustrofobico chiuso degli atelier, Boudin fu perfettamente in grado di convertire la passione di Monet in temperamento artistico, trasmettendogli un grande amore per la pittura en plein air: «È ottimo come inizio, ma presto ne avrai abbastanza delle caricature. Studia, impara a vedere e a disegnare, dipingere, fare paesaggi».[4]
La vocazione artistica di Monet, ormai fattasi intensa, non poteva che convergere a Parigi, dove nel maggio 1859 i maggiori artisti di tutta Francia si erano dati appuntamento per il Salon. Monet comunicò tempestivamente i fatti artistici osservati durante il soggiorno parigino al Boudin, cui confidò le seguenti parole:
«Non potete credere quale interesse troverete venendo subito a Parigi. C'è un'esposizione di dipinti moderni che comprende le opere della scuola del 1830 e che prova che non siamo tanto in decadenza come si dice. Vi sono diciotto Delacroix splendidi [...]. Vi sono altrettanti Decamps, una dozzina di Rousseau, di Dupré, vi sono anche da sette a otto Marilhat [...]. E poi sappiate anche che il solo buon pittore di marine che noi abbiamo, Jongkind, è morto per l'arte: è completamente folle. [...] Ho dimenticato di dirvi che Courbet e Corot brillano anche in quest'esposizione, così come Millet»
Monet espresse ammirazione anche per le composizioni di Troyon, benché osservò che «avevano le ombre un po' nere». Il nostro, nonostante la giovane età, poteva già giovarsi di una solida erudizione artistica, arrivò persino a conoscerlo di persona: «gentile e senza pretese», Constant Troyon ammirò i pregi cromatici intessuti da Monet e fece pressione affinché egli si iscrivesse presso l'atelier di Thomas Couture, artista di impronta accademica che nel 1847 aveva stupito il pubblico del Salon con la sua opera Les Romains de la décadence. Couture, dunque, era un artista ligio alla tradizione accademica, e scettico verso gli sperimentalismi pittorici promossi da Monet che, infatti, non fu ammesso ai suoi corsi, anche per via della sua indigenza economica.
Neanche Monet, d'altronde, era desideroso di asservirsi a un artista troppo legato ai convenzionalismi borghesi e pertanto non esitò a iscriversi all'Académie Suisse, scuola d'arte privata fondata a Parigi da Charles Suisse, un pittore emulo di David: in questa scuola Claude aveva a disposizione modelli veri per pochi soldi e poteva sperimentare liberamente i propri progetti artistici, considerata la totale assenza di esami di ammissione o di docenti troppo restrittivi. Sotto l'ala protettiva di Suisse, Monet fu esposto a una quantità inestimabile di stimoli pittorici, germogliati poi grazie all'assidua frequentazione della Brasserie des Martyrs, luogo di riunione di molti scrittori e intellettuali: «È lì che ho conosciuto quasi tutte quelle persone di cui parla Firmin Maillard nel suo libro Les Derniers Bohémes, ma soprattutto Firmin Maillard, Albert Glatigny, Théodore Pelloquet, Alphonse Duchesne, Castagnary, Delvaux, Alphonse Daudet, e altri cattivi soggetti come me..». Preso da una vera e propria ebbrezza intellettuale, Monet, in questi anni di tirocini e scoperte, stabilì una fittissima rete di conoscenze, destinata a rivelarsi vincente per la sua carriera. Nel frattempo, malgrado i pochi dipinti di rilievo eseguiti in questo periodo, approfondì la sua amicizia con Boudin, del quale si dichiarò fiero discepolo e compagno.
Ben presto, tuttavia, accadde l'impensabile: nel 1861, infatti, Monet dovette presentarsi alle autorità del dipartimento della Senna, dalle quali fu chiamato a prestare il servizio militare. Ciò, stando alla legislazione francese del tempo, poteva essere evitato a patto che si pagassero 2.500 franchi di contributo per retribuire opportunamente un eventuale sostituto. I genitori di Monet potevano permettersi un esonero, ma per colmare la voragine finanziaria che si sarebbe generata avrebbero necessitato del figlio nella drogheria di famiglia: Claude, tuttavia, non era affatto disposto ad abbandonare i pennelli e perciò si arruolò nel reggimento dei Cacciatori d'Africa, di stanza ad Algeri, città che in effetti lo affascinò molto.[5] Ci rimangono testimonianze molto vivide, pittoresche, se non liriche del soggiorno algerino di Monet, che in terra d'Africa si disse «non scontento di vestire l'uniforme»: a Mustapha, villaggio presso il quale si era poi stabilito con gli altri camerati, egli in effetti trascorse «un periodo genuinamente meraviglioso».
Quel favoloso Oriente, con il suo splendore cromatico e luministico, seppe soddisfare la sua curiosità insaziabile e la sua sete di meraviglie e, per di più, rafforzò la sua vocazione artistica: «Pensavo solo a dipingere, tanto m'inebriava quello stupendo paese». Durante il tempo libero, in effetti, Monet, stimolato anche dai suoi superiori, aveva l'opportunità di fissare la luce e il colore di quei luoghi che ben rispondevano al gusto orientalista diffusosi in Europa. Tuttavia, una fatale caduta da un mulo gli costò condizioni di salute assai precarie e pertanto fu rimpatriato in Francia, a Le Havre, per un breve periodo di convalescenza.[6]
«Il buon amico Boudin» si era allontanato da Le Havre, e pertanto Monet si ritrovò a dipingere da solo: nonostante l'assenza di quello che, sostanzialmente, era il suo più grande maestro spirituale, Claude strinse un intenso sodalizio artistico e umano con Johan Barthold Jongkind. Era costui un pittore di marine di origine olandese che, all'aperto, si limitava a riprodurre il paesaggio in schizzi e acquerelli, per poi definirli sulla tela nel suo studio, conservando tuttavia la freschezza della prima osservazione. Monet giovò molto dell'amicizia di Jongkind, dal quale fu esortato a intraprendere un apprendistato con maggiore dedizione e impegno, in modo tale da produrre finalmente capolavori sublimi.[7]
Papà Alphonse, infatti, era dello stesso avviso, e fu disposto persino a pagare i 2 500 franchi richiesti per l'esonero dal servizio militare (la convalescenza era ormai conclusa) affinché il figlio potesse migliorare i propri mezzi tecnici: «Mettiti in testa che d'ora in poi lavorerai, e seriamente. Voglio vederti in un atelier sotto la guida di un maestro rispettabile. Se decidi nuovamente di essere indipendente, la paghetta che fino ad ora ti ho concesso svanirà senza pietà. Sono stato chiaro?». Monet, ormai, era messo alle strette, e pertanto su consiglio del padre si appellò al pittore Auguste Toulmouche, di casa al n. 70a di rue Notre-Dame-des-Champs. Per saggiare le sue competenze artistiche Monet si cimentò davanti agli occhi del Toulmouche in una natura morta, e certamente non mancò di impressionarlo: «È ottimo, forse un po' vistoso [...] sei veramente promettente, Claude, ma devi spendere le tue energie con più saggezza... giovane uomo, hai definitivamente talento. Devi entrare in un atelier».[8]
Lo stesso Monet, d'altronde, era dello stesso avviso, e perciò incominciò a frequentare l'atelier di Charles Gleyre, artista dalla pennellata «lieve, graziosa, fine, sognante, alata» con «qualcosa d'immateriale» presso il quale egli ebbe modo di perfezionare gli aspetti tecnici della sua pittura, allenandosi nel disegno, nello studio del nudo, nella prospettiva e nelle altre discipline previste dallo studio accademico. Importantissimo per l'evoluzione pittorica di Monet fu poi l'incontro con Alfred Sisley, Pierre-Auguste Renoir e Jean-Frédéric Bazille, artisti che come lui ripudiavano la sterilità del disegno accademico. Fu con loro, infatti, che nell'aprile del 1863 si recò a Chailly-en-Bière, nel cuore della foresta di Fontainebleau, sull'esempio di quei pittori come Corot, Daubigny e Rousseau che si immergevano nella vegetazione e si misuravano direttamente con la natura, offrendone un'interpretazione squisitamente realistica e priva di quella retorica presente nel paesaggismo tradizionale.
Stregato dal «fascino imperituro» di Chailly, Monet vi rimase per lungo tempo e si esercitò fruttuosamente nella pittura en plein air, così detta perché esercitata all'aperto: lasciata Chailly si recò con Bazille a Honfleur, poi a Sainte-Adresse, a Rouen e infine fare ritorno a Chailly. Qui fece uno degli incontri decisivi per la sua maturazione pittorica: quello con Gustave Courbet, patriarca del realismo che aveva dato vita a un «ampio principio» particolarmente apprezzato dal nostro: «Courbet dipingeva sempre su fondi scuri, su tele preparate con il marrone, comodo procedimento che tentò di farmi adottare. Là sopra, diceva, potete disporre le vostre luci, le masse colorate e vederne subito gli effetti». Nonostante le ire furibonde del padre, che in seguito a una lite cessò di inviargli denaro, Monet grazie all'interessamento di Courbet poté dedicarsi alla pittura con dedizione ancora più intensa: fu in questo periodo che, infatti, incominciò a firmarsi come «Claude».[9]
Nonostante soggiornasse per lunghi periodi in località di campagna, Monet non mancò di interessarsi ai maggiori avvenimenti pittorici della capitale, la quale nel 1863 era attraversata dal virulento scandalo sobillato dalla Colazione sull'erba di Manet, quadro che non rispondeva affatto alle prescrizioni accademiche per via della presenza di un nudo femminile non avallato da una sicura contestualizzazione storica o mitologica. Affascinato dalla Colazione sull'erba Monet decise di assimilarne la vibrante modernità e di realizzare, sulle orme di Manet, una serie di quadri particolarmente significativi, tutti destinati a riscuotere qualche tiepido consenso tra i critici dei Salon: La foce della Senna a Honfleur, La punta della Héve con la bassa marea, La foresta di Fontainebleau e La donna col vestito verde. Più fredda, invece, fu l'accoglienza riscossa dalla sua Colazione sull'erba, replica diretta dello scandaloso dipinto manettiano, che fu duramente criticata da Gustave Courbet.
Oscillando tra il realismo courbettiano e il nuovo naturalismo promosso da Manet in questi anni Monet realizzò opere rigorosamente en plein air che, nella trascrizione pittorica dei paesaggi francesi, cercavano di rispettare gli stessi meccanismi che regolano la visione umana: un'ambizione, forse, troppo alta, tanto che i suoi maggiori capolavori di questo periodo - si pensi a La colazione - non furono accettati ai Salon. Monet, tuttavia, poteva godere del supporto morale di una vasta schiera di amici e conoscenti, oltre che di una buona moglie. Camille-Léonie Donciuex era una giovane ragazza di Lione con la quale ebbe un figlio, Jean: i due, dopo una storia d'amore molto accidentata, convolarono a nozze il 28 giugno 1870.[10]
Fondamentali, poi, furono anche le amicizie con l'ormai inseparabile Bazille e con Pierre-Auguste Renoir, aspirante artista che gli faceva spesso visita nella sua dimora a Saint-Michel e che a tal proposito scrisse: «Sto quasi sempre da Monet [...] . Non tutti i giorni si mangia. Tuttavia, sono contento lo stesso perché, per quel che riguarda la pittura, Monet è un'ottima compagnia». Monet intrecciò con Renoir una amicizia fervida e vitale, ben testimoniata dai dipinti che entrambi licenziarono sul tema dell'isolotto della Grenouillère. Si trattava di un piccolo ristorante, affiancato da uno stabilimento balneare e collocato sulle rive della Senna, a poca distanza da Parigi. Per Monet e Renoir si trattava di un pretesto eccellente per sperimentare la nuova tecnica pittorica che in quegli anni andavano coltivando, tutta basata sulle variazioni degli effetti di luce: perciò nell'estate del 1869 entrambi si recarono presso l'isolotto, piazzando i propri cavalletti l'uno di fronte all'altro, e in poco tempo ciascuno aveva realizzato la propria Grenoullière. Il confronto tra le due opere è ancora oggi indispensabile per mettere opportunamente a fuoco queste due grandi personalità artistiche.
Nel 1870 Monet si trasferì con Camille e il piccolo Jean a Trouville, in Normandia. Quello che inizialmente era un tranquillo soggiorno in un paesino, tuttavia, fu ben presto insanguinato dallo scoppio della guerra franco-prussiana: sotto il fuoco dei cannoni tedeschi il Secondo Impero crollò rovinosamente, Parigi fu assediata e Monet, per evitare di essere arruolato e di sacrificare la propria vita per Léon Gambetta e l'Alsazia-Lorena, si rifugiò a Londra: fu una scelta saggia, considerato che Bazille, offertosi volontario per la grandezza della patria, morì ucciso in combattimento. Stabilitosi al n. 11 di Arundel Street, nei pressi di Aldwych, Monet a Londra fece conoscenza di Daubigny, artista che gli introdusse il proprio gallerista personale, Paul Durand-Ruel, anch'egli fuggito a Londra (era, d'altronde, titolare di una galleria d'arte a New Bond Street, particolarmente fiorente).
Grazie all'intercessione di Durand-Ruel, poi, Monet strinse amicizia con Camille Pissarro, artista con il quale si divertì a esplorare Londra e il suo vibrante patrimonio museale, che vedeva in Turner, Gainsborough e Constable gli artisti prediletti: pur non riuscendo a esporre alla Royal Academy Monet continuò comunque a lavorare alacremente, fissando nei suoi quadri il fascino emanato dal fiume Tamigi e dai vari parchi londinesi.[11] Con la stipula dei trattati di pace nel 1871, tuttavia, la guerra franco-prussiana poteva dirsi definitivamente conclusa: non aveva più senso, dunque, rimanere a Londra, né per Monet, né per Pissarro e gli altri esuli francesi. Se tuttavia questi ultimi rimpatriarono immediatamente, Monet preferì dilungarsi e fare tappa a Zaandam, nei Paesi Bassi, «paese molto più bello di come si ritiene comunemente»: visitò il Rijksmuseum il 22 giugno ed eternò i mulini a vento, i canali e il paesaggio olandese in generale in «tele [...] dove rivela una grande libertà stilistica e un marcatissimo distacco nei confronti del soggetto, che non ha più niente di pittoresco, singolare o naturalista, ma non è più altro che un veicolo per meditazioni plastiche, non esiste se non al termine di trasposizioni pittoriche che si susseguono e dalle quali trae il suo valore emotivo e poetico» (Lemaire).[12]
Fu solo nell'autunno del 1871 che Monet tornò in Francia soggiornando per un breve periodo a Parigi, dove approfondì la sua fraterna amicizia con Renoir e Pissarro, ponendo in questo modo le basi per l'età d'oro dell'Impressionismo. La metropoli, tuttavia, non lo affascinava più, e complice anche la ricezione di alcune cattive notizie - innanzitutto la morte dell'amato Bazille e l'incarcerazione di Courbet per via del suo sostegno alla Comune - egli sentì ben presto l'esigenza di stabilirsi in un sobborgo agreste. Argenteuil rispondeva perfettamente a questo desiderio: si trattava di un piccolo villaggio placidamente disteso sulla riva destra della Senna di notevole interesse storico e architettonico che godeva di un'attività viticoltrice e velistica assai intensa.
Ad Argenteuil Monet fu rapidamente raggiunto da Renoir, Sisley e Caillebotte e, stimolato dal genio degli amici, raggiunse subito la pienezza della sua potenza artistica: il suo tocco, infatti, incominciò a farsi più mobile e vibrante, assumendo un carattere virgolato particolarmente congeniale per una resa più veritiera della luce e degli effetti cromatici che da essa derivano. Fu questo un periodo di grande splendore artistico di Monet, che poteva finalmente beneficiare di un clima di camaraderie e di fiducia, oltre che di un certo benessere economico - i collezionisti e i mercanti reclamavano in gran numero le sue tele. Per captare con maggiore immediatezza il brillio della luce che trascolora nella Senna arrivò persino a farsi adattare con l'aiuto di Caillebotte un'imbarcazione in atelier flottant, ovvero in uno studio galleggiante con il quale potere dipingere in mezzo al fiume.
Nel frattempo incominciò a formarsi in Monet la volontà di dare una costituzione ufficiale al gusto pittorico che andava informando gli sperimentalismi della sua bande. Da qui il progetto di emanciparsi dalle istituzioni ufficiali e di organizzare una mostra artistica nei locali di un vecchio studio fotografico al n. 35 di boulevard des Capucines messo a disposizione da Nadar. Nonostante le varie difficoltà di sorta tutto era pronto per il 15 aprile 1874, giorno in cui i trenta artisti che avevano aderito - tra i tanti ricordiamo, oltre a Monet, anche Degas, Cézanne, Boudin, Pissarro, Berthe Morisot, Renoir e Sisley - poterono finalmente esporre le loro tele al pubblico. Tra i dipinti proposti da Monet vi era Impressione, levar del sole, opera che fu accolta con pubblico dileggio da una corte di osservatori scandalizzati dalle eccessive libertà compositive e cromatiche che Monet vi si era preso. Tra i critici più virulenti vi fu senza dubbio Louis Leroy, autore del seguente brano, apparso sul Le Charivari:
«"Ah, eccolo, eccolo!" esclamò dinanzi al n. 98. "Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il catalogo". "Impressione, sole nascente". "Impressione, ne ero sicuro. Ci dev'essere dell'impressione, là dentro. E che libertà, che disinvoltura nell'esecuzione! La carta da parati allo stato embrionale è ancor più curata di questo dipinto"»
Fu in quest'occasione che Monet e i suoi colleghi adottarono per la prima volta l'appellativo di «impressionisti», accettando con provocatoria ironia un aggettivo che il Leroy, come si è visto, aveva invece coniato a fini esclusivamente denigratori. Il pubblico parigino, in effetti, fu scandalizzato dall'aspetto formale delle opere esposte, come ci testimonia Zola nel suo romanzo L'Œuvre: «Il riso che si udiva non era più quello soffocato dai fazzoletti delle signore e la pancia degli uomini che si dilatava quando davano sfogo alla loro ilarità. Era il riso contagioso di una folla venuta per divertirsi, che progressivamente si andava eccitando, scoppiava a ridere per un nonnulla, spinta all'ilarità tanto dalle cose belle che da quelle esecrabili».
C'è tuttavia da sottolineare che, se una parte della critica concordava nel ritenere Monet e gli altri Impressionisti dei dilettanti che non sapevano tenere in mano un pennello, alcuni apprezzarono l'iniziativa dei giovani, ammirandone la spontaneità e la freschezza adoperate per la resa della vita contemporanea. Fra questi recensori vi era Jules-Antoine Castagnary, il quale - accettando il neologismo di «Impressionisti» - scrisse: « [...] sono impressionisti nella misura in cui non rappresentano tanto il paesaggio quanto la sensazione in loro evocata dal paesaggio stesso. E proprio questo termine è entrato a fare parte del loro linguaggio [...]. Da questo punto di vista hanno lasciato alle loro spalle la realtà per entrare nel regno del puro idealismo. Quindi la differenza essenziale tra gli impressionisti e i loro predecessori è una questione di qualcosa in più e qualcosa in meno dell'opera finita. L'oggetto da rappresentare è lo stesso ma i mezzi per tradurlo in immagine sono modificati [...]».
Nonostante i timidi apprezzamenti di Castagnary la prima esposizione impressionista si risolse in un totale insuccesso, e al suo termine Monet, Renoir e gli altri furono costretti a prendere atto di un terrificante deficit finanziario. Sotto la spinta di Renoir, dunque, il gruppo si accinse a organizzare, in data 24 marzo 1875, un'asta pubblica all'Hôtel Drouot, nella prospettiva di fare fronte alle drammatiche difficoltà economiche che opprimevano tutti. La spietata recensione del critico Albert Wolff lasciava presagire un nuovo fiasco: «L'impressione che danno gli impressionisti è quella di un gatto che passeggia sulla tastiera di un pianoforte, o di una scimmia che si è impossessata di una scatola di colori». La vendita, presieduta in qualità d'esperto da Durand-Ruel, ebbe in effetti esiti deprimenti: con il ricavato Monet riusciva a malapena a pagarsi il prezzo delle cornici, e fu necessario persino l'intervento della polizia per evitare che gli alterchi potessero degenerare in rissa.
Gli esigui guadagni non furono dunque sufficienti per tranquillizzare le preoccupazioni economiche di Monet, funestato tra l'altro dall'improvvisa e terribile malattia che aveva colpito la moglie Camille. «Sebbene io abbia fede nel futuro, il presente è veramente difficile da affrontare» scrisse il pittore a Edouard Manet in data 28 giugno 1875. Queste difficoltà, tuttavia, non prosciugarono le sue ambizioni artistiche e pertanto nell'aprile 1876, nonostante il fiasco conosciuto in occasione della prima mostra, Monet organizzò una seconda esibizione impressionista, proponendovi ben diciotto quadri, fra i quali La giapponese. Pur attirandosi l'ostilità della critica e del pubblico in questa occasione Monet riuscì a guadagnare qualche soldo, anche grazie al caldo supporto di Zola, per il quale egli era «innegabilmente il capogruppo» per il «suo pennello che si distingue per uno straordinario splendore», e di Castagnary, che elogiò senza mezzi termini l'«immenso sforzo verso la luce e la verità» compiuto dal gruppo.[13]
Era il periodo in cui i critici d'arte si ponevano con serietà il problema di una corretta comprensione del fenomeno impressionista: per Paul Mantz l'impressionista era «l'artista sincero e libero che, rompendo con i procedimenti di scuola, con i raffinamenti alla moda, subisce, nell'ingenuità del suo cuore, il fascino assoluto che promana dalla natura e traduce, con semplicità e con la maggiore franchezza possibile, l'intensità dell'impressione subìta»; per Duranty, « [...] la scoperta degli impressionisti consiste propriamente nell'aver riconosciuto che la grande luce scolora i toni, che il sole riflesso dagli oggetti tende, per forza di chiarezza, a ricondurli a quella unità luminosa che fonde i sette raggi prismatici in un unico sfavillio incolore, che è la luce. D'intuizione in intuizione, a poco a poco sono arrivati a decomporre la luce solare nei suoi raggi, nei suoi elementi, e a ricomporre la sua unità attraverso l'armonia generale delle iridescenze che essi spandono nelle tele». Nonostante Monet dovesse affrontare spesso fatiche e disagi soprattutto per le scarse disponibilità economiche, poi, in questi anni incominciò lentamente a formarsi intorno al pittore una leale cerchia di ammiratori e mecenati: oltre a Caillebotte, fervente collezionista di opere impressioniste, vanno indubbiamente citati il medico George de Bellio e, soprattutto, il mercante Ernest Hoschedé.
Era quest'ultimo nato a Parigi il 18 settembre 1837 da una famiglia di modeste origini commerciali che, dopo avere sposato l'amatissima Alice nel 1863, generando con lei vari bambini, consacrò la propria carriera alle Belle Arti, tributando una sincera ammirazione soprattutto per quanti, come Monet, avevano il coraggio di sfidare i convenzionalismi accademici e di percorrere strade nuove. Da Hoschedé Monet ricevette la commissione di decorare le pareti del suo castello di Rottembourg, presso Montgeron: di questo soggiorno ci sono rimaste tele di particolare pregio artistico, come Les dindons. Ben presto, tuttavia, anche la famiglia Hoschedé soffrì un atroce tracollo economico e, considerati i buoni rapporti che intercorrevano con i Monet, ambedue le famiglie decisero di congiungere i loro sforzi e di trasferirsi in un'unica casa presso Vétheuil, lungo le rive della Senna, nel dipartimento della Val-d'Oise.[14]
Pur amando fino alle lacrime l'idillio campestre che percorreva i fiumi, i campi, le distese erbose delle campagne intorno Parigi, Monet non poteva fare a meno di ritenere affascinante lo scalpitio della vita moderna che gravitava intorno a Parigi. Fu per questo motivo che, a partire dal 1877, il pittore tornò a indagare la realtà metropolitana, con un particolare occhio di riguardo rivolto alla stazione di Saint-Lazare, dalla quale partivano tra l'altro i treni per l'amata Argenteuil. Su questo scalo ferroviario Monet dipinse circa una dozzina di tele, e - pur ripudiando il teatro, i caffè rumorosi, le corse ippiche preferite da Degas e dai suoi discepoli - non mancò nei suoi quadri di occhieggiare sul tessuto urbano parigino, luogo che favoriva incontri stimolanti e che era ricolmo di autentici monumenti della modernità: non bisogna dimenticare, d'altronde, che la Parigi dove visse Monet era quella che il potente barone Haussmann aveva trasformato in moderna capitale europea con la messa in essere di un ambizioso piano di riqualificazione urbanistica che vedeva nei boulevard, quegli ampi viali alberati ricolmi di negozi, caffè ed eleganti palazzi signorili, il fattore chiave per un vigoroso e generalizzato rilancio economico, morale e culturale. Monet immortala questa incalzante modernità, lucidamente descritta in letteratura da opere come La bestia umana di Zola e Alla ricerca del tempo perduto di Proust, in tele come La Gare Saint-Lazare e La rue Montorgueil a Parigi.
Al di là delle apparenze, tuttavia, questo era per Monet un periodo difficile e buio. Nonostante il maggiore interesse dimostrato dalla pratica impressionista, ben testimoniato dalla pubblicazione del The Impressionists and Edouard Manet di Mallarmé, il movimento stava inesorabilmente esaurendo ogni spinta propulsiva, con i singoli aderenti che, complici anche delle divergenze artistiche impossibili da ignorare, ritornarono a esporre al Salon ufficiale. Monet, dal suo canto, non disertò affatto le mostre impressioniste, anche se il destino del movimento era segnato: nel 1883 scoccò la sua ora definitiva con la morte di Manet il quale, pur non avendo mai formalmente preso parte alle esposizioni organizzate da Monet, era stato comunque in grado di operare una netta cesura con l'arte precedente e di porre le basi dell'arte impressionista.
Ancor più catastrofica era la sua vita personale. Le asperità economiche non si attenuarono e, per di più, la malattia dell'amata Camille si aggravò. «Mia moglie ha appena avuto un altro bambino e io sono in pena perché sono incapace di provvedere alle spese per le cure mediche di cui entrambi hanno assolutamente bisogno»: alla fine fu soprattutto Caillebotte a sopperire alla cronica mancanza di denaro che affannava Monet. Nulla, tuttavia, sembrava alleviare il dolore di Camille: «È soprattutto la cagionevole salute di Madame Monet a preoccuparci in questi giorni. Penso che non abbia altro che due giorni rimanenti per vivere [...] la sua morte lenta è alquanto triste...» scrisse, disilluso, Hoschedé alla madre in una lettera datata maggio 1879. Nonostante le amorevoli cure del dottor Tichy e del dottor de Bellio Camille fu tormentata da dolori atroci e, alla fine, persino da un cancro all'utero aggravato dalla nascita del figlio Michel. «Sento che le sofferenze di quella povera donna alla fine le risulteranno fatali. È orribile vederla sottoposta a questa tortura, talmente strazianti che persino la morte, al loro posto, sarebbe desiderabile» scrisse la moglie di Hoschedé, Alice, alla madre.
Camille si spense il 5 settembre 1879 alle 10:30 del mattino: non aveva che trentadue anni. Per Monet fu un colpo terribile, siccome gli era morta la compagna di una vita, una persona alla quale voleva immensamente bene e con la quale aveva sempre condiviso gioie e dolori. «Un giorno, all'alba mi sono trovato al capezzale del letto di una persona che mi era molto cara e che tale rimarrà sempre. I miei occhi erano rigidamente fissi sulle tragiche tempie e mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali»: con queste strazianti parole Monet descrisse il momento in cui comprese che la moglie era passata a miglior vita.
Il vuoto affettivo ed emotivo deflagrato dopo la morte di Camille fu colmato da Alice, moglie di Ernest Hoschedé, con la quale intraprese una relazione extraconiugale che venne ufficializzata solo nel 1892, un anno dopo la morte del marito della donna. Quello a Vétheuil, tuttavia, fu un soggiorno significativo non solo perché ricolmo di questi luttuosi eventi, ma anche perché segnò un momento in cui Monet soffrì in prima persona la crisi dell'Impressionismo e, immerso in un lavoro accanito e solitario, incominciò gradualmente ad allontanarsi dalle ricerche figurative dei suoi colleghi. Il periodo a Vétheuil, non a caso, è il trait d'union cronologico che correla la felice stagione creativa di Argenteuil con gli accordi finali di Giverny, cittadina presso la quale Monet si isolò definitivamente dal gruppo degli Impressionisti, che d'altronde non poteva più godere né del sostegno di Durand-Ruel, anch'egli tormentato da periodi difficili, né del supporto di Zola, che ormai per pittori come Monet e Cézanne non provava più simpatia.
Nel frattempo Monet incominciò a farsi sempre più irrequieto. Nell'inverno 1883 fu a Étretat, città la cui principale caratteristica morfologica è costituita dalle candide falesie che, con la loro solenne verticalità, inquadrano dall'alto la placida distesa del mare. I ripetuti studi di queste «alte falesie caratterizzate dalla presenza di tre singolari aperture chiamate Porte», come le descrisse Guy de Maupassant, preannunciano tutte le serie degli anni a venire: Monet, pur subendo la fascinazione di un luogo così pittoresco, non voleva tuttavia stabilirsi a Étretat, né intendeva continuare la sua vita a Vétheuil. Come fare, allora?
Vi era, nella valle della Senna, alle porte del Vexin e della Normandia, un piccolo e tranquillo villaggio agricolo immerso nella quiete idillica della campagna dove «la luce era unica: non si trova uguale in nessun'altra parte del mondo», per usare le parole dello stesso pittore: il nome di questo luogo era Giverny, e fu lì che Monet, al seguito della moglie e dei figli, si trasferì nel 1883. Egli, d'altronde, aveva spesso visto questo pittoresco villaggio affacciandosi dal finestrino del treno che, da Saint-Lazare, correva nelle campagne francesi fino ad Argenteuil.
Questo trasferimento, poi, fu accompagnato da una rinnovata sete di nuovi stimoli pittorici e istanze culturali, da soddisfare solo con un viaggio in un luogo nuovo e tonificante, come la Costa Azzurra e la Liguria: Monet, d'altronde, non aveva mai visto il Mediterraneo se non grazie al soggiorno algerino.
La scelta cadde su Bordighera, uno dei più ameni e frequentati luoghi di villeggiatura della Riviera di Ponente, in Liguria: il compagno di viaggio fu individuato in Renoir. Fu un soggiorno molto piacevole per entrambi: Renoir, infatti, diede finalmente avvio a un drastico mutamento stilistico che trovò espressione nella cosiddetta svolta aigre, mentre Monet rimase talmente stregato dalla vivace esuberanza del paesaggio italiano che decise di ritornare a Bordighera nel gennaio 1884, da solo.
A conoscere questo suo progetto era solo Paul Durand-Ruel, cui Monet richiese il massimo riserbo: «Gentile Signor Durand Ruel, voglio passare un mese a Bordighera, uno dei luoghi più belli che abbiamo visto durante il nostro viaggio. Da laggiù, nutro la speranza di portarvi tutta una serie di cose nuove. Perciò vi domando di non parlare a nessuno di questo proposito, non perché voglia fare un mistero, ma perché ci tengo a farlo da solo: come mi è stato piacevole fare il viaggio da turista con Renoir, così mi sarebbe imbarazzante farlo in due per lavorare. Ho sempre lavorato meglio nella solitudine e secondo le mie sole impressioni».[15] Stabilitosi presso la pensione Anglaise, Monet rimase estasiato dalla luce e dai colori della Liguria: a rapirlo furono soprattutto i giardini del signor Moreno, un luogo «fantasmagorico» dove «tutte le piante dell’universo sembrano crescervi spontaneamente», in un tripudio naturalistico per lui insolito di ulivi, aranci, limoni, mandarini, palme e piante rare.
Di questi giorni fecondi, trascorsi nel tepore della luce mediterranea, il carteggio di Monet parla abbondantemente. Di seguito si riporta il testo di una lettera indirizzata alla compagna Alice:
«Cara Alice, oggi ho lavorato duro: cinque tele e domani conto di iniziare la sesta. Procede dunque abbastanza bene, anche se è tutto assai difficile da realizzare: queste palme mi fanno dannare e poi i motivi sono estremamente difficili da ritrarre, da mettere sulla tela. Qui è talmente folto dappertutto. ... È delizioso da vedere. Si può passeggiare indefinibilmente sotto le palme, gli aranci, i limoni e gli splendidi ulivi, ma quando si cercano dei soggetti è molto difficile. Vorrei fare degli aranci che si stagliano sul mare azzurro, ma non sono ancora riuscito a trovarne come voglio. Quanto al blu del mare e del cielo, riprodurlo è impossibile. Comunque, ogni giorno aggiungo e scopro qualcosa che prima non avevo saputo vedere. Questi luoghi sembrano fatti apposta per la pittura en plein air. Mi sento particolarmente eccitato da quest'esperienza e, dunque, penso di tornare a Giverny più tardi del previsto, anche se la vostra assenza disturba la mia serenità»
Il tempo sembrava volare in un posto dove Monet poteva godere quotidianamente dell'amicizia del signor Moreno («è decisamente un uomo delizioso»), di un mare e di un cielo tinti di un blu profondissimo, di una vegetazione variopinta ed esuberante che gli dispensava «fiori, arance, mandarini, limoni dolci che sono deliziosi a mangiarli» e di paesaggi che sembravano quasi riproporre il mito del paradiso terrestre. Dolceacqua, un paesino medievale dell'entroterra ligure abbarbicato su uno sperone roccioso, affascinò enormemente Monet:
«Abbiamo compiuto una escursione meravigliosa. Partiti in carrozza di buonora abbiamo raggiunto un villaggio della Val Nervia straordinariamente pittoresco. Intenzionati a ritornare a Bordighera a piedi lungo un percorso collinare ... sfortunatamente non potrò mai raccontare le meraviglie che ho visto durante il ritorno attraverso dei quadri a causa delle difficoltà che dovrei affrontare per ritornarvi a dipingere»
Il soggiorno a Bordighera fu di immenso giovamento per Monet, che beneficiando dei colori, della luce e del tepore del Mediterraneo recuperò un entusiasmo che, considerati i dispiaceri degli anni passati, sembrava quasi perduto. Anche una volta ritornato a Giverny egli seppe rivolgersi alla natura con un rinnovato vigore che si può percepire persino dal suo epistolario, dove troviamo scritto: «Scopro ogni giorno motivi sempre più belli. C'è di uscirne pazzi, tanto sento il desiderio di fare tutto [...] la testa mi scoppia». Anche Guy de Maupassant, quando strinse amicizia con il pittore presso Étretat nel settembre 1886, fu testimone di questa straordinaria foga pittorica:
«Lo scorso anno, in questo paese, ho spesso seguito Claude Monet in cerca di ‘impressioni’. Non era un pittore, in verità, ma un cacciatore. Andava, seguito dai bambini che portavano le sue tele, cinque o sei tele raffiguranti lo stesso motivo, in diverse ore del giorno e con diversi effetti di luce. Egli le riprendeva e le riponeva a turno, secondo i mutamenti del cielo. E il pittore, davanti al suo soggetto, restava in attesa del sole e delle ombre, fissando con poche pennellate il raggio che appariva o la nube che passava… E sprezzante del falso e dell’opportuno, li poggiava sulla tela con velocità … L’ho visto cogliere così un barbaglio di luce su una roccia bianca, e registrarlo con un fiotto di pennellate gialle che, stranamente, rendevano l’effetto improvviso e fuggevole di quel rapido e inafferrabile bagliore. Un’altra volta ha preso a piene mani uno scroscio d’acqua abbattutosi sul mare e lo ha gettato rapidamente sulla tela. Ed era proprio la pioggia che era riuscito a dipingere, nient’altro che della pioggia che velava le onde, le rocce e il cielo, appena distinguibili sotto quel diluvio»
Furono questi anni straordinari, in cui Monet dipinse con fertile e sollecita attività. L'implacabile esigenza di trovare nuovi spunti pittorici lo spinse a viaggiare per tutta la Francia: nel settembre 1886 fu a Belle-Île-en-Mer, in Bretagna, dove ebbe agio di dipingere le terribili scogliere del luogo che sorgono dalle acque agitate e di conoscere Gustave Geffroy, destinato a diventare un suo fervente ammiratore. Nel 1888, invece, si recò ad Antibes, nel sud della Francia, nel tentativo di riscoprire quella luce e quei colori che tanto lo avevano affascinato durante il soggiorno a Bordighera: «Dopo Belle-Île ci sarà qualcosa di dolce; qui non c'è che blu, rosa e oro [...] Ma quale difficoltà, buon Dio!» scrisse, divertito, al critico Théodore Duret, mentre a Geffroy rivelò: «Sgobbo e fatico enormemente, molto preoccupato di ciò che faccio. Qui tutto è così bello, chiaro e luminoso! Si galleggia nell'aria blu: è sconvolgente». Ad Antibes, Monet era in ammirazione di una natura che gli appariva meravigliosamente esotica, con la luce del mar Mediterraneo, con le sue palme e la sua acqua blu, e che in effetti non mancò di raffigurare in un ampio concorso di dipinti, destinati stavolta all'esposizione al pubblico.
Nel 1889, tornato a Giverny e a Parigi, infatti, Monet volle sottrarsi dalla tutela di Durand-Ruel, in modo tale da farsi conoscere da un più ampio circuito di collezionisti, e rivolgersi a Georges Petit, il quale - dopo avere consacrato la propria carriera all'arte ufficiale e alle pompose opere di Meissonier, Cabanel e Gérôme - volle gettarsi sull'arte impressionista. Fu una scelta, per entrambi, vincente: in concomitanza con l'Esposizione Universale Petit aveva deciso di riunire le tele più belle di Monet con i capolavori di Auguste Rodin, scultore adulato e oberato di committenze, realizzando un'esposizione congiunta che decretò brillantemente la fortuna dell'Impressionismo. Certo, non mancarono conflittualità, dovute perlopiù al cattivo carattere di Rodin e alla perplessità di alcuni critici, ma perlopiù l'esito della mostra si può condensare nel giubilante urlo che il dottor de Bellio profuse durante l'inaugurazione: «E ora lunga vita a Monet! Lunga vita a Rodin! Evviva Monet! Evviva Rodin! Hourrrrha!».[18] Octave Mirbeau, vedendo rincorrersi davanti ai propri occhi quadri come Nevicata ad Argenteuil, Tramonto sulla Senna in inverno, Mare selvaggio e altri, lasciò un commento rimasto celebre:
«Tra il nostro occhio e l'apparenza delle figure di mari, fiori, campi, s'interpone un'atmosfera reale. Manifestamente l'aria inonda ogni oggetto, lo riempie di mistero, lo avvolge di tutte le colorazioni, ora sfumate ora sfavillanti, che ha accumulato prima di raggiungerlo. Il dramma è messo a punto scientificamente, l'armonia delle forze si accorda alle leggi atmosferiche, con l'andamento regolare e preciso dei fenomeni terrestri e celesti ...»
Monet aveva vinto. Dopo anni e anni di incomprensioni, diffidenze e privazioni, il pubblico stava incominciando a riconoscere, e soprattutto ad apprezzare, la rivoluzione estetica stimolata dagli Impressionisti: lui, finalmente, non era più visto come un ozioso imbrattatele, bensì come un autentico caposcuola, in grado di cantare la bellezza della modernità e di imporre un suo modo di vedere il mondo e l'arte con virtù pittoriche umanamente cercate e conquistate con sforzo e impegno. Lo stesso Monet, per sottolineare questo cambiamento di rotte, organizzò una sottoscrizione pubblica simbolica, finalizzata ad acquistare dalla vedova di Manet l'Olympia, quadro che appena un ventennio prima aveva sobillato scandali enormi e che poi diede avvio all'avventura impressionista. Il quadro, poi, sarebbe andato donato al Louvre, in modo da sottolineare non l'ufficialità, ma l'universalità della produzione manettiana.[19] Raccogliere il denaro non fu difficile e, superate le prudenze di una volta, l'Olympia fu finalmente esposta in un museo: «questa volta» commenta il critico Lemaire «la battaglia si è veramente conclusa».[20]
Monet, dunque, dopo la mostra organizzata da Petit poté godere del sostegno economico e morale di un pubblico finalmente svincolatosi dalle pastoie della pittura accademica. La gloria, tuttavia, non offuscò né la sua umiltà né le sue ambizioni pittoriche, finalizzate a rendere «l'immediatezza, l'atmosfera soprattutto e la stessa luce diffusa ovunque». Volendo indagare in maniera più accurata i problemi della luce e dalle sensazioni di colore, dunque, Monet intraprese le cosiddette serie, nelle quali uno stesso soggetto viene ripreso in decine e decine di tele, in modo tale che l'unico fattore cangiante è proprio la luce: si trattava di un'escogitazione pittorica ottimale per dimostrare come la sola luce riuscisse a generare percezioni visive sempre mutevoli e stimolanti. Lo stesso Monet racconta: «Dipingevo alcune macine che mi avevano colpito e che costituivano un magnifico gruppo, a due passi da qui. Un giorno mi accorgo che l'illuminazione è cambiata e dico a mia nuora: "Vada a casa a prendermi un'altra tela!"- Me la porta, ma poco dopo è nuovamente diversa: "Un'altra! E un'altra ancora!". Così lavoravo a ciascuna di esse solamente quando avevo l'effetto giusto [...] ecco tutto».[21]
Monet ritrasse le macine ben quindici volte, in stadi climatici e luministici talora radicalmente differenti. Quest'originalissima esperienza pittorica fu rivissuta dal pittore varie volte: innanzitutto con i Pioppi, anche loro rappresentati in ore del giorno e in stagioni differenti. Dal 1889 al 1891, invece, incominciò a dipingere la serie dei Covoni, anch'essi scanditi come di consueto nel mutare delle stagioni e delle ore. Sempre attingendo dall'epistolario comprendiamo con quanta dedizione Monet si cimentava in questi cicli: «Sgobbo molto, mi ostino su una serie di diversi effetti, ma in questo periodo il sole declina così rapidamente che non mi è possibile seguirlo [...] vedo che bisogna lavorare molto per riuscire a rendere quello che cerco: l'istantaneità, soprattutto l'involucro, la stessa luce diffusa ovunque, e più che mai le cose facili, venute di getto, mi disgustano» scrisse il pittore nell'ottobre del 1890 a Gustave Geffroy. Sempre più indifferente al soggetto, le forme servivano a Monet solo per tradurre pittoricamente il suo interesse per l'irradiazione della luce: interessantissima, in tal senso, la serie delle Cattedrali di Rouen.
Nel 1883 Monet, forte di una certa sicurezza economica, poté finalmente acquistare il suo casolare di Giverny e realizzare il sogno di una vita: quello di dedicarsi al giardinaggio e di realizzare un sontuosissimo parco ornamentale intorno alla sua dimora. «Il giardinaggio è un'attività che ho imparato nella mia giovinezza quando ero infelice. Forse devo ai fiori l'essere diventato un pittore» ammise una volta, consapevole di come il suo interesse per la pittura di paesaggio fu tutt'altro che fortuita. Lavorando con tenacia e tenerezza il pittore tinse la propria casa di rosa e di verde e, alle spalle di quest'ultima, diede vita al Clos Normand, un giardino che con mezzi floreali orchestra una vera e propria sinfonia di luce, di arte e di vita.
Camminando per la ragnatela di sentieri di questo hortus conclusus, con tanto di archi metallici impreziositi da rose canine e gelsomini, Monet poteva infatti godere della variopinta benevolenza di una quantità innumerevole di essenze: iris, papaveri orientali, verbene, peonie, rose, campanule, tulipani, narcisi e, infine, quelli che Marcel Proust definì «fiori sbocciati in cielo»: le ninfee. Sfruttando la tranquilla confluenza del fiume Epte nel territorio di Giverny, infatti, Monet creò nel proprio giardino un piccolo stagno «che delizi gli occhi» e che gli offra buoni «soggetti da dipingere». Lo specchio d'acqua, sovrastato da un suggestivo ponte color verde brillante di chiara ispirazione giapponese, fu poi popolato di peonie, glicini viola e bianchi, bambù, di cotogni, ciliegi ornamentali, ontani, tamerici, agrifogli, frassini, salici piangenti, cespugli di lamponi, agapanthus, lupini, rododendri, azalee e ciuffi di erba della Pampa.[22][23] In questo microcosmo acquatico e vegetale, poi, un posto di primaria importanza spetta alle delicatissime ninfee bianche e rosa che riposano sul laghetto e che catturarono con il loro placido fluttuare l'attenzione di molti, a partire da Marcel Proust, che nel suo Alla ricerca del tempo perduto ne fornì una descrizione molto suggestiva:
«[...] giacché il colore che creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente di quello stesso dei fiori; e sia che facesse scintillare sotto le ninfee, nel pomeriggio, il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che si colmasse verso sera, come certi porti lontani, del rosa sognante del tramonto, cambiando di continuo per rimanere sempre in accordo, intorno alle corolle dalle tinte più stabili, con quel che c'è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso – con quel che c'è d'infinito – nell'ora, sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo»
Il febbraio del 1895 vide Monet in Norvegia, paese dove viveva il figliastro Jacques Hoschedé e che offriva ai pittori condizioni luministiche particolarmente interessanti, soprattutto di inverno («Monet viene a dipingere il nostro inverno in tutta la sua luminosità e il suo splendore», annunciò trionfante il critico norvegese Andreas Auber).[24] Giunto a Christiania (l'odierna Oslo) dopo un viaggio decisamente travagliato, Monet, descritto dai giornali locali come un «piccolo francese robusto ed elegante», si trasferì immediatamente presso Sandviken, alla ricerca di soggetti da immortalare con il suo pennello. Le sue aspettative non furono deluse: le vaste foreste boreali, i labirinti di fiordi, il Bjørnegård, lo stesso villaggio di Sandviken («sembra di essere in Giappone» commentò il pittore) sono tutti soggetti che compaiono nei quadri di questo periodo, pervasi da una melanconica dolcezza. «Oggi ho dipinto buona parte della giornata, sotto la neve che cade senza posa: avreste riso nel vedermi completamente bianco, con la barba piena di ghiaccioli a stalattite» scrisse a Geffroy in merito al suo soggiorno norvegese.[25]
La morte di Berthe Morisot, illustre pittrice impressionista, colse Monet quando era ancora in Norvegia. Fu un lutto che lo fece soffrire molto, e che sembrava suggellare in maniera salda e definitiva il tramonto dell'Impressionismo: non fu un caso, dunque, se Monet nel 1896 decise di recarsi in quei luoghi che furono teatro del suo esordio pittorico, ovverosia Dieppe e Pourville. Questo ritorno alle radici accese in maniera impressionante il suo entusiasmo, leggermente affievolitosi negli anni precedenti sotto il peso di un lungo trentennio di attività. I quadri realizzati durante questo soggiorno non soddisfecero pienamente Monet che, tuttavia, dopo avere finalmente assaporato le emozioni di un tempo, tornò a Giverny con un rinnovato ardore. Egli, d'altronde, andava procurandosi una fama sempre più grande, che si consolidò definitivamente nel giugno 1898 con le due mostre svoltesi sotto l'egida di Georges Petit e di Durand-Ruel. Il maestro era richiesto a Berlino, Bruxelles, Venezia, Stoccolma e persino negli Stati Uniti d'America: i suoi dipinti ora valevano migliaia e migliaia di franchi e procuravano al loro autore fortune cinematografiche.
Gli inizi del nuovo secolo, il Novecento, videro Monet a Londra, città dove viveva il figlio Michel e che risultava particolarmente di suo gradimento per via di quella nebbia caliginosa che avvolgeva in modo soffuso le sue strade e i suoi monumenti. Vi si recò ben tre volte, nel 1899, nel 1900 e nel 1901: nei quadri risalenti a questi anni sono presenti monumenti e infrastrutture celebri - si pensi ai ponti di Charing Cross e di Waterloo e, soprattutto, al palazzo di Westminster - che, tuttavia, non rivelano il dinamismo di una metropoli in pieno sviluppo, bensì restituiscono immagini malinconiche, avvolte in un silenzio che sembra volere pietrificare per sempre gli spazi urbani della Greater London. Le sue Vedute del Tamigi, una volta esposte in Francia, riscossero in effetti un brillante successo per via della loro capacità di cogliere gli effetti contrastanti «dell'incubo, del sogno, del mistero, dell'incendio, della fornace, del caos, dei giardini galleggianti, dell'invisibile, dell'irreale [...] di quella prodigiosa città», come ebbe modo di osservare Octave Mirbeau nella presentazione del catalogo.[26]
Il grande viaggio che concluse i peregrinaggi europei di Monet fu effettuato a Venezia, in Italia, nel 1908. Stabilitosi presso il palazzo Barbaro e poi al Grand Hotel Britannia, Monet si trattenne nella città dei dogi per ben due mesi, dal settembre al novembre 1908: si disse subito «stregato dall'incantesimo di Venezia», città che palpitava di una vibrante scena artistica, architettonica, e soprattutto luministica, considerato il rifrangersi della luce sulle acque della laguna.[27] Monet trovò subito congeniale l'atmosfera catalizzata dalla città con le sue ricerche pittoriche:
«L'artista che concepì palazzo Ducale fu il primo degli Impressionisti. Lo lasciò galleggiare sull'acqua, sorgere dall'acqua e risplendere nell'aria di Venezia come il pittore impressionista lascia risplendere le sue pennellate sulla tela per comunicare la sensazione dell'atmosfera. Quando ho dipinto questo quadro, è l'atmosfera di Venezia che ho voluto dipingere. Il palazzo che appare nella mia composizione è stato per me soltanto un pretesto per rappresentare l'atmosfera. Tutta Venezia è immersa in quest'atmosfera. Venezia è l'Impressionismo in pietra»
Il 19 maggio 1911 morì la moglie Alice. Il 1º febbraio 1914 Monet perse anche il figlio Jean - l'altro figlio, Michel, morirà in un incidente d'auto nel 1966. La sua quiete famigliare, dunque, si frantumò con questi due lutti. Per fortuna, però, Monet poté godere della compagnia della figlioletta Blanche, la quale andò ad abitare insieme a lui a Giverny, dove egli disponeva finalmente di un nuovo, più grande studio, adatto a contenere i grandi pannelli con la rappresentazione delle ninfee del suo giardino.
Tornato da Venezia, in effetti, Monet non lasciò mai più il suo giardino, tanto che trascorse gli anni della vecchiaia dipingendo incessantemente specchi d'acqua costellati da ninfee. «Lavoro tutto il giorno a queste tele, me le passano una dopo l'altra. Nell'atmosfera riappare un colore che avevo scoperto ieri e abbozzato su una delle tele. Immediatamente il dipinto mi viene dato e cerco il più rapidamente possibile di fissare in modo definitivo la visione, ma di solito essa scompare rapidamente per lasciare il suo posto a un altro colore già registrato qualche giorno prima in un altro studio, che mi viene subito posto innanzi; e si continua così tutto il giorno».
Non vi è sorpresa, dunque, se nel 1920 Monet offrì allo Stato francese dodici grandi tele di Ninfee, lunga ciascuna circa quattro metri, le quali verranno sistemate nel 1927 in due sale ovali dell'Orangerie delle Tuileries; altre tele di analogo soggetto saranno raccolte nel Musée Marmottan. «Non dormo più per colpa loro - scrisse il pittore nel 1925 - di notte sono continuamente ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare. Mi alzo la mattina rotto di fatica [...] dipingere è così difficile e torturante. L'autunno scorso ho bruciato sei tele insieme con le foglie morte del giardino. Ce n'è abbastanza per disperarsi. Ma non vorrei morire prima di avere detto tutto quel che avevo da dire; o almeno avere tentato. E i miei giorni sono contati».
Già affetto da cataratta bilaterale che per la prima volta gli fu diagnosticata nel 1912 questa malattia progressivamente impedì al pittore di percepire i colori con la stessa intensità di prima: l'occhio sinistro perdeva acutezza e il destro reagiva soltanto agli stimoli luminosi. Nell'estate del 1922, ormai quasi cieco, Monet è costretto a smettere di dipingere. Spinto da Georges Clemenceau, Monet si sottoporrà a intervento di rimozione del cristallino nel gennaio del 1923, all'età di 82 anni. In seguito a tale intervento recuperò gradualmente l'uso dell'occhio destro, ma con alcune conseguenze: l'intervento ridusse la visione opaca dovuta alla cataratta, ma al contempo diminuì anche il ruolo di filtro svolto dal cristallino. Di conseguenza la retina reagiva molto di più alla luce solare e questo lo portava a soffrire di frequenti abbagliamenti e di una visione bluastra. Con l'utilizzo di occhiali con lenti colorate, prescritti dal dottor Jacques Mawas, la sintomatologia si attenuò. Gli occhiali messi a punto da Mawas, infatti, avevano la lente sinistra opaca per evitare la visione doppia, e la destra, corrispondente all'occhio operato, era convessa e leggermente colorata. In questo modo si rettificava la visione dei colori e si attenuava la sensazione di abbagliamento che affliggeva Monet. Tuttavia il proprio modo di dipingere cambiò notevolmente, in special modo in relazione all'utilizzo dei colori stessi.[28] Egli infatti dipingendo il Viale delle Rose (1920-1922) disse:
«La mia povera vista mi fa vedere tutto annebbiato. Ma è comunque bello ed è questo che mi sarebbe piaciuto riuscire a rendere.»
Il ponte giapponese, nelle versioni del 1924 al Musée Marmottan, o La casa dell'artista, dello stesso anno, sono opere ormai astratte, che vengono giustificate non solo da uno specifico programma artistico ma dalla stessa malattia agli occhi che gli impediva di riconoscere l'effettiva tonalità dei colori: scriveva lo stesso Monet: « [...] i colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi [...] Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che lo studio della luce naturale non mi era più possibile ma d'altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all'interno di una massa di tonalità scure».
Nel giugno del 1926 gli venne diagnosticato un carcinoma del polmone e il 5 dicembre morì: ai funerali partecipò tutta la popolazione di Giverny. Quello stesso anno aveva scritto di avere avuto «il solo merito di avere dipinto direttamente di fronte alla natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fuggevoli, e sono desolato di essere stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte del quale non aveva nulla di impressionista».
Claude Monet è stato il sostenitore più convinto e instancabile del «metodo impressionista» che vide già riassunto in nuce nelle opere dell'amico Manet. Per comprendere appieno la carica rivoluzionaria della figura di Monet, tuttavia, è necessario calarla con precisione nell'ambiente storico e artistico francese della seconda metà dell'Ottocento. La Francia della seconda metà del XIX secolo era una nazione viva, moderna, ricca di magnificenze e di contraddizioni, che in seguito all'offensiva prussiana del 1870 aveva conosciuto un impetuoso sviluppo economico e sociale che, tuttavia, aveva inizialmente mancato di investire le arti figurative.
Allo scoccare della seconda metà del secolo, infatti, i pittori francesi continuavano a osservare scrupolosamente le norme tradizionali dell'autorevole art pompier, la quale tendeva inesorabilmente a un esasperato classicismo, non solo nella contenutistica ma anche nella forma. Artisti come Alexandre Cabanel o William Bouguereau, infatti, continuavano a ripercorrere in maniera acritica i sentieri accademici, dando vita a immagini uniformi, stereotipate, ripetitive, prive di elementi di interesse: come giustamente osservò Leo Steinberg gli araldi dell'art pompier avevano «la presunzione di creare un’arte vivente con impulsi già da molto morti e mummificati». Impulsi, vale la pena ricordarlo, che descrivevano le figure e gli oggetti in maniera industriosamente meticolosa, a tal punto da riuscire a mettere a fuoco ogni minimo dettaglio: si otteneva, come risultato, un'immagine talmente levigata da sembrare quasi «laccata».[29] Monet, tuttavia, non si riconosceva nelle forme fossilizzate dell'arte ufficiale e, in questo momento cruciale dell'arte mondiale, negò il sistema di valori che nutriva le celebrità dei Salon. La prassi accademica, secondo il giudizio di Monet, rappresentava la realtà sensibile in modo obsoleto, arido: è a partire da questa constatazione, e nel segno di una resa del mondo circostante più autentica e vigorosa, che si innesta la «missione pittorica» di Monet, particolarmente innovativa sia sul piano tecnico sia su quello tematico.
Le premesse che hanno consentito la nascita e lo sviluppo dell'arte monetiana sono dunque da ricercarsi nella rivolta all'accademismo e nella volontà tutta positivista di ripristinare il senso del vero. La scienza, infatti, nella seconda metà dell'Ottocento stava vivendo una fase di grande splendore, ed era pervenuta grazie all'esame obiettivo dei fatti empirici a scoperte che influirono non poco sulla poetica impressionista adottata da Monet. Si notò, innanzitutto, che tutte le nostre percezioni visive avvengono grazie alla luce e ai colori, i quali - dopo essere sottoposti opportunamente a una rielaborazione cerebrale - ci fanno intuire la forma dell'oggetto osservato e le sue coordinate spaziali. Forma e spazio, nonostante la loro condizione di subordinazione alla luce e ai colori, erano tuttavia i protagonisti indiscussi dell'arte accademica, che per elaborare immagini analoghe a quelle date dalla visione diretta si serviva di espedienti come la prospettiva e il chiaroscuro.
Questo atteggiamento non era affatto condiviso da Monet, il quale - in virtù del già ricordato primato della luce e dei colori - nei propri dipinti abolì in maniera completa e definitiva la prospettiva geometrica. Egli, infatti, amava rapportarsi alla natura - l'unica fonte della sua ispirazione - senza precostituite impalcature mentali, abbandonandosi all'istinto della visione che, quando è immediata, ignora il rilievo e il chiaroscuro degli oggetti, che sono invece il risultato dell'applicazione al disegno di scuola. Da qui la volontà del pittore di liberarsi dalla schiavitù del reticolo prospettico, che «immobilizza» gli spazi in maniera statica e idealizzata, e di cogliere la realtà fenomenica con maggiore spontaneità e freschezza.
Nei quadri monetiani, dunque, la natura si offre in maniera immediata agli occhi dell'osservatore: questa, tuttavia, fu una scelta gravida di conseguenze. Se, infatti, i nostri organi visivi registrano in maniera oggettiva tutti i dettagli sui quali ci soffermiamo, è pur vero che il nostro intelletto scarta il superfluo e, con un'operazione di sintesi, mantiene solo l'essenziale, in maniera del tutto analoga a «quando, terminata la lettura di un libro, noi ne abbiamo compreso il significato, senza per questo ricordarne dettagliatamente tutte le parole che lo compongono» (Piero Adorno).[30] A partire da queste premesse Monet approda non a uno stile liscio e attento ai dettagli come quello accademico, bensì a una pittura priva di forma disegnativa, vibrante, quasi evocativa, finalizzata con la sua indefinitezza a cogliere l'impressione pura. All'affermarsi delle teorie di Monet, non a caso, non era affatto estranea la fotografia, procedimento che produceva immagini impeccabili per la loro precisione: grazie a questa clamorosa invenzione il pittore poté legittimare la non-documentarietà delle proprie opere, le quali erano finalizzate piuttosto a cogliere l'impressione che determinati dati oggettivi suscitavano nella sua soggettività.
Come già detto Monet persegue questa tecnica suggellando il definitivo trionfo pittorico del colore e della luce. Anche questa volta fondamentale è il ricorso alle ricerche scientifiche effettuate in quel periodo nel campo della cromatica. Era stato infatti osservato che i tre colori a cui sono sensibili i coni dell'occhio umano, ovvero il rosso, il verde e il blu, se combinati in quantità equilibrate danno vita a un fascio luminoso bianco. Sempre gli studi e gli esperimenti ottici dell'epoca, poi, notarono come il colore non fosse inerente agli oggetti, che al contrario si limitano a riflettere alcune particolari lunghezze d'onda, interpretate dal cervello come colore, per l'appunto: ecco, allora, che una mela rossa assorbe tutte le lunghezze d'onda, tranne quella relativa al colore rosso.
È per questo motivo che, sovrapponendo gradualmente più colori diversi, questi perderanno gradualmente la loro luminosità, fino a degradare nel nero. Da queste ricerche scientifiche Monet desunse una serie considerevole di peculiarità stilistiche: egli, infatti, evitò sempre di utilizzare i bianchi e i neri, i quali come si è appena appurato sono una sorta di «non-colori», e arrivò persino a teorizzare l'esistenza delle «ombre colorate», proprio perché le tinte in un dipinto subiscono l'influenza di quelle vicine seguendo concatenamenti continui (i colori che tingono un oggetto esposto al sole, dunque, si imprimono nell'ombra da esso proiettata, che pertanto non sarà mai completamente nera, come d'altronde si è già visto). Egli, poi, utilizzò sempre colori puri, evitando di contaminarli con i chiaroscuri artificiali (più colori si miscelano e si sovrappongono, si è visto, meno luce riflette il dipinto). È per questo motivo che nei quadri monetiani i colori sono dissolti in una luce intensissima, quasi abbagliante.
Ma quali sono le caratteristiche della luce inseguita da Monet? Innanzitutto è naturale: Monet, infatti, dipingeva en plein air, non nel chiuso amorfo degli atelier bensì all'aria aperta, immergendosi nella vegetazione di un boschetto o nella folla brulicante di un boulevard parigino e subendone direttamente l'influsso. Il pittore, d'altronde, non poteva certo ricorrere alla luce artificiale, siccome solo i baleni del Sole riuscivano a offrirgli quella brillantezza che egli intendeva cristallizzare nei propri dipinti. Particolarmente eloquente, in tal senso, la risposta che Monet diede al giornalista Émile Taboureux quando questi gli chiese di entrare nel suo atelier: «Mon atelier! Mais je n'ai jamais eu d'atelier, moi, et je ne comprends pas qu'on s'enferme dans une chambre» e poi, indicando con un gesto solenne la Senna, il cielo e il villaggio di Vétheuil, «Voilà mon atelier».[31]
La natura, insomma, con la pratica del plein air - saggiata, a onor del vero, già da Constable e dai pittori di Barbizon, ma finalmente impiegata in tutte le sue potenzialità - venne assunta da Monet come punto di partenza per decodificare la realtà: se ciò, dopo la rivoluzione impressionista, potrebbe sembrare quasi banale, all'epoca era assolutamente innovativo, siccome Monet fu tra i primi ad approfondire le potenzialità intrinsecamente connesse con l'atto della visione (e non è un caso se Cézanne, pieno di deferenza verso il maestro, una volta esclamò: «Claude Monet non è un occhio, ma [...] che occhio!»).[32] La pratica del plein air, poi, obbligava Monet a una rapidità d'esecuzione particolarmente spiccata: ciò, tuttavia, era perfettamente compatibile con il suo credo pittorico, finalizzato come si è già accennato a cogliere le impressioni fuggevolissime e irripetibili. Monet, infatti, concepisce la realtà come un flusso perenne dove tutto si anima in «un incessante e fantastico divenire» senza pietrificarsi in «uno stato definitivo e acquisito» (Cricco, di Teodoro): il compito del pittore, dunque, sarà quello di cogliere con il suo pennello l'attimo fuggente, quel momento transeunte che passa e non torna più. Da qui nasce l'ammirazione di Monet per quei soggetti perennemente in movimento, come gli specchi d'acqua, che a seconda delle condizioni del colore, della luce, dei riflessi sovrastanti e della disposizione delle increspature forniscono stimoli pittorici inesauribili. Soggetti, dunque, in opposizione a ciò che è stabile, a ciò che dura: le pennellate di Monet, pertanto, non saranno fluide e ben definite come quelle accademiche, bensì saranno veloci e sintetiche.
Il catalogo di Monet comprende almeno cinquecento dipinti, fra i quali:
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