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epistolario di John Ronald Reuel Tolkien Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Lettere (1914-1973) è un epistolario che raccoglie 354 lettere scritte dall'autore inglese John Ronald Reuel Tolkien dal 1914 fino alla fine della sua vita. Fu pubblicato per la prima volta in Italia dall'editore Rusconi nel 1990 con il titolo La realtà in trasparenza. Nel 2018 è stato ripubblicato con una nuova traduzione e l'attuale titolo.[1][2][3]
Lettere (1914-1973) | |
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Titolo originale | The Letters of J. R. R. Tolkien |
Altro titolo | La realtà in trasparenza |
Autore | J. R. R. Tolkien |
1ª ed. originale | 1981 |
1ª ed. italiana | 1990 |
Genere | epistolario |
Lingua originale | inglese |
Si tratta di una selezione delle lettere di J.R.R. Tolkien operata dal figlio Christopher, in collaborazione col biografo Humphrey Carpenter. Ricche di informazioni, spiegazioni e aneddoti sulla creazione dell'ambientazione dei suoi romanzi, le lettere di Tolkien offrono altresì uno spaccato della vita intima e familiare dello scrittore e dei suoi personali convincimenti e ideali. È considerata dagli esegeti tolkieniani un testo fondamentale per comprendere l'autore inglese.
La pubblicazione de Lo Hobbit ha rivestito, sia per gli abitanti della Terra di Mezzo che per la carriera di scrittore di Tolkien, una importanza capitale: Il Signore degli Anelli probabilmente non sarebbe mai stato ideato, né Il Silmarillion avrebbe avuto la stessa estensione, descrivendo gli avvenimenti della Terza Era.
Le lettere percorrono questo evento, documentando anche e soprattutto gli aspetti tecnici, dalla realizzazione delle mappe alla cura delle illustrazioni; questioni che Tolkien curò di persona con molto zelo.
Una versione de Lo Hobbit era già pronta nel 1932, anche se incompleta, quando fu letta da C.S. Lewis. La stesura di gran parte del testo avvenne nei primi sette anni in cui Tolkien era professore di lingua anglosassone a Oxford, incarico che assunse nel 1925.
Fu anche grazie all'insistenza di una studentessa di Oxford, Susan Dagnal, che il libro, scritto per essere letto ai propri figli e a una stretta cerchia di amici, capitò nelle mani dell'editore Stanley Unwin nel 1936.
Unwin fu, di conseguenza, l'editore che pubblicò la prima edizione de Lo Hobbit e che spronò Tolkien alla stesura di un seguito: quello che sarebbe stato Il Signore degli Anelli. A quel periodo risale la stesura di due favole: Mr. Bliss e Il cacciatore di draghi.
La stesura e la pubblicazione del Signore degli Anelli richiesero tempo e impegno tali che Tolkien, citando l'autore dell'Ancrene Wisse, ebbe a dire:
«Preferirei, Dio mi sia testimone, andare a piedi fino a Roma che iniziare quest'opera da capo!»
Il Signore degli Anelli è un testo complesso con una genesi complessa, e lo strumento delle lettere è di fondamentale importanza per comprenderlo appieno: in molte lettere, infatti, viene spiegato con chiarezza il senso e il messaggio dell'opera ed è assai interessante notare come la comprensione di tale senso, per Tolkien, evolva con il tempo, persino dopo la pubblicazione.
Il Signore degli Anelli, come tutto il corpus di racconti sulla Terra di Mezzo, è stato, infatti, una scoperta per Tolkien, una invenzione nel senso etimologico del termine.
La potenza di questa avventura è stata subito chiara sin dalla prima fase della stesura del dattiloscritto, quando Stanley Unwin spronava Tolkien nello scrivere un seguito de Lo Hobbit. In risposta a quelle lettere Tolkien scriveva:
«[...] è difficile trovare qualcosa di nuovo in quel mondo.»
oppure:
«[...] potrei scrivere un numero illimitato di "primi capitoli"...»
Eppure tempo dopo avrebbe confessato:
«...le cose sembrano scriversi da sole dopo che ho iniziato.»
Lo scoppio della seconda guerra mondiale sorprende l'opera ad un quarto circa della sua definitiva stesura. Le lettere di questo periodo nella raccolta sono quasi tutte destinate al figlio Christopher impegnato in Sudafrica nell'esercito. Dopo il termine della guerra, l'attività di composizione del romanzo procede, ma occorreranno ancora dieci anni affinché, nel 1955, Il Signore degli Anelli venga pubblicato. A ridosso di questa data si susseguono lunghe lettere destinate agli editori che, nel frattempo, avevano perso interesse alla pubblicazione, soprattutto per il grande volume dell'opera, poiché Tolkien desiderava che Il Signore degli Anelli fosse pubblicato assieme al Silmarillion. In queste lettere, l'autore non risparmia precise e utilissime spiegazioni sul senso e sul significato del romanzo, nella speranza che tali chiarimenti possano essere di qualche convincimento.
Finalmente l'opera nasce, ma il "parto" è così problematico da lasciare insperato un successo; quando questo arriva, sorprende moltissimo l'autore:
«Ho esposto il mio cuore, affinché lo colpiscano.»
Alla pubblicazione seguono, ancora, una serie di risposte a critiche, interpretazioni erronee, fraintendimenti e, infine, lunghe lettere di risposta a domande di lettori e appassionati.
Tolkien inizia a scrivere Il Signore degli Anelli dietro la richiesta dell'editore Stanley Unwin di dare un seguito a Lo Hobbit. La stesura dei primi capitoli è difficoltosa e la trama della storia molto incerta, tanto che Tolkien dà un titolo all'opera solo nell'agosto del 1938. Le pressioni dell'editore, unite alla difficile situazione familiare e economica,[4] rendono ancora più complicato il lavoro.
In data 19 dicembre 1937, Tolkien comunica al signor Furth della Allen & Unwin di aver completato il primo capitolo.
«Ho scritto il primo capitolo di una nuova storia sugli Hobbit: una festa a lungo attesa. Buon Natale.»
Nel febbraio 1938, questo capitolo viene battuto a macchina e spedito all'attenzione del giovane figlio di Stanley Unwin: Rayner; Tolkien chiede a un bambino di fargli da critico; come per Lo Hobbit, che aveva scritto per i propri figli, così anche il "seguito allo Hobbit" non poteva, infatti, che riprenderne i caratteri di letteratura per l'infanzia.
Il 17 febbraio, in una missiva (lettera nº33) in cui accenna al proposito di pubblicare Mr. Bliss, e il giorno seguente, rispondendo ai complimenti di Rayner (lettera nº24), Tolkien esprime il timore di essersi arenato, di non riuscire ad andare oltre al suo spunto iniziale avendo esaurito i temi narrativi migliori nella pubblicazione precedente. Ma di lì a un mese la situazione inizia a sbloccarsi: Tolkien comunica al suo editore di essere giunto al terzo capitolo, «ma [ancora] i racconti tendono a sfuggire di mano e anche questo ha preso una svolta inaspettata»[5]; una "svolta" non gradita da Unwin che critica i due nuovi capitoli affermando che contengono troppo "linguaggio Hobbit", una valutazione condivisa, nella lettera di risposta, dallo stesso autore che si propone di limitarsi ammettendo di divertirsi di più a scrivere in quel modo che a portare avanti effettivamente la trama (lettera nº28).
Come traspare dal carteggio con l'editore, Tolkien non aveva inizialmente le idee chiare sul seguito, ma ciò dipendeva anche dal suo stile narrativo[6]; si era messo in qualche modo ad osservare ciò che facevano i suoi personaggi alla festa di Bilbo (cfr. lettera nº31) per vedere se fosse accaduto qualcosa di curioso, aspettando che gli Hobbit e Gandalf combinassero qualcosa da cui fosse scaturita tutta l'avventura: proprio come nelle pagine iniziali del precedente romanzo quando un improvvido invito ad uno stregone a prendere un tè avrebbe sconvolto per sempre la tranquilla routine esistenziale di Bilbo.[7]
Non a caso la critica di Unwin avrà, quindi, poco successo e gli Hobbit di Tolkien continueranno a parlare in modo buffo e a comportarsi fanciullescamente perché tale è la loro natura. Un giudizio personale di Tolkien, quasi una poetica, sul proprio modo di scrivere verrà sviluppato tuttavia solo più tardi quando l'autore parlerà del concetto di "subcreazione" e con insistenza correggerà gli equivoci interpretativi rispondendo alle critiche di chi vedeva nel Signore degli Anelli un racconto allegorico.
Tuttavia scrivere Il Signore degli Anelli non fu una faccenda da poco e le difficoltà, compresi momenti di aridità artistica, si presentarono subito. Nel luglio del '38 Tolkien affronta un periodo lavorativo intenso e «[il seguito allo Hobbit] ha perso ogni attrattiva ai miei occhi e non ho idea di cosa farne. [...] Tutti i "motivi" che posso usare sono racchiusi nel libro originario, cosicché un seguito apparirebbe più "esiguo" [!!!] e puramente ripetitivo. [Tuttavia] a me gli Hobbit divertono immensamente e potrei contemplarli mangiare e fare i loro scherzi abbastanza sciocchi all'infinito» (lettera 31). In seguito gli impegni del professore si faranno tanto gravosi da sfiorare l'esaurimento nervoso, così Tolkien sarà costretto al riposo (lettera 33); qui le sorti del seguito allo Hobbit, grazie all'ozio e all'aria aperta, trovano rinnovata speranza. Per la prima volta è documentata la scelta di "Il Signore degli Anelli" come titolo per il seguito allo Hobbit, anche se tale titolo è provvisorio, ed entro il 31 agosto è pronto il capitolo VII che «prosegue verso obiettivi imprevisti» (lettera 33). È chiaro che questo si è trasformato in un libro più "adulto" e non necessariamente «più adatto o più idoneo al pubblico dello Hobbit. [...] non è una storia da leggere prima di addormentarsi». Tuttavia, man mano che la storia progredisce, l'autore si accorge che «Il Signore degli Anelli è molto migliore dello Hobbit», che sembra aver trovato ormai la giusta forma, tanto che «se la parte scritta finora [capitolo XII nel febbraio '39] La soddisfa non dovrò temere per l'opera nel suo complesso» (lettera 35 alla Allen & Unwin). Così, sempre sospettando che il seguito allo Hobbit non sarebbe piaciuto al pubblico, Tolkien arriva al dicembre '39, ormai alle soglie della seconda guerra mondiale, al termine del capitolo XVI.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale coinvolse personalmente alcuni membri della famiglia Tolkien. Michael, il secondo figlio, si era arruolato volontario nell'estate '40 partecipando alla battaglia d'Inghilterra del '41 in difesa degli aerodromi ed era rimasto ferito. Nell'estate del '43 Christopher, il terzo figlio, era stato chiamato nella RAF e nel '44, dopo un periodo di addestramento, si era trasferito in Sudafrica per diventare pilota.
Tolkien impiegò 18 anni a scrivere e pubblicare Il Signore degli Anelli proprio perché c'era bisogno di riscriverne alcune parti alla luce delle nuove scoperte che l'autore faceva percorrendo la Terra di Mezzo. Fu infatti necessaria una correzione del capitolo 5 de Lo Hobbit ("Indovinelli nell'oscurità") prima della pubblicazione de La Compagnia dell'Anello insieme alla riscrittura di molti capitoli del Signore degli Anelli.
Questa lettera contiene una testimonianza di due importanti aspetti della vita di Tolkien: l'essere padre e l'essere profondamente appassionato di letteratura; a partire da questa passione si scaglia in un'invettiva contro Hitler, presentato come un vandalo distruttore della germanità stessa.
«Tuttavia tu sei la mia carne ed il mio sangue e tieni alto il nostro nome. [...] Il legame tra padre e figlio non è costituito solo dalla consanguineità: ci deve essere un po' di aeternitas. Esiste un posto chiamato "paradiso" dove le opere buone iniziate qui possono venire portate a termine. [...] Ho trascorso gran parte della mia vita, fin quando avevo la tua età [21 anni], a studiare germanistica. C'è molta più forza e veridicità nell'ideale "germanico" di quanto gente ignorante non immagini. Io ne ero molto attratto da studente, come reazione contro i "classici". [...] [Hitler] sta rovinando, pervertendo, distruggendo e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all'Europa, che io ho sempre amato, e cercato di presentare in una giusta luce.»
La stesura del seguito allo Hobbit prosegue e
«ora mi sto avvicinando alla conclusione. Spero di avere un po' di tempo libero durante queste vacanze e spero di finirlo per l'inizio del prossimo anno. [...] Sono arrivato al capitolo XXXI [divenuto il capitolo 9 del libro III] e ce ne vogliono almeno sei per finirlo (sono già delineati).»
Tutta la lettera è un consiglio a ricordare il proprio angelo custode e un richiamo alla preghiera e alla letizia; cita infatti il Libro di Exter:
«Conoscerà meno il dolore chi sa molte canzoni o può toccare l'arpa con le sue mani: possiede un dono di gioia (musica e/o versi) datogli da Dio»
Per Tolkien l'arte di scrivere era vissuta innanzitutto come "dono di gioia" da comunicare agli altri. A questa gioia Tolkien riconosce un valore universale tanto che prosegue:
«In tutte le epoche gli uomini (simili a noi, i più consapevoli) l'hanno sentito: non necessariamente causato dal dolore o dalle durezze del mondo, ma affilato da queste. Queste ultime parole sono di grande aiuto per comprendere le vicende degli Hobbit nel Signore degli Anelli poiché essi sono i personaggi più gaudenti e gioiosi (quante volte li si sorprende ridere!) ed è per questa letizia, non piuttosto nonostante, che affrontano tutti i pericoli di una missione, direi, suicida.»
Sebbene fosse (buona) intenzione dell'autore finire la stesura del libro per i primi mesi del 1943, nell'aprile del '44 Il Signore degli Anelli è ancora in cantiere poiché
«sono necessarie molte riletture e ricerche. Ed è molto faticoso e difficile mettersi in movimento.»
Mancano ancora undici anni alla fine della pubblicazione, le lettere successive (60-63) documentano progressivamente il lavoro di stesura del testo nei momenti liberi.
Questa lettera comincia a chiarire la natura del palpitante "realismo delle storie fantastiche" che fa del Signore degli Anelli e del Silmarillion due penetranti affondi nella realtà. Un commento alla situazione storica è affidato ad un paragone con le vicende della Guerra dell'Anello:
«Perché noi stiamo tentando di conquistare Sauron utilizzando l'Anello. E ci riusciremo (sembra). Ma lo scotto sarà, come tu ben sai, di nutrire nuovi Sauron e di trasformare lentamente uomini ed elfi in orchi. Non che nella vita reale le cose siano così definite come in una storia, e noi siamo partiti con un gran numero di orchi al nostro fianco.»
Da questo spunto l'autore passa a descrivere il cuore delle ragioni che lo hanno portato a scrivere della Terra di Mezzo:
«Io sento tra gli altri tuoi dolori (alcuni solo fisici) il desiderio di esprimere i tuoi sentimenti sul bene, sul male, sul bello, sul brutto: di razionalizzarli, di impedire che incancreniscano. Nel mio caso questo desiderio ha generato Morgoth e la Storia degli Gnomi (Il Silmarillion).»
Dunque la lettura di queste due opere sarà tanto più gustosa quanto sarà desiderosa di scoprire il fiorire di questi sentimenti, il loro nascere e prendere vita.
A corollario della lettera 66:
«Così ho optato per l'"evasione": trasformando le altre esperienze in altre forme e in simboli con Morgoth e gli orchi e l'Eldalië (che rappresenta la bellezza e la grazia nella vita e nell'arte) e così via»
Un utile richiamo a pesare sempre il paragone fra le realtà della Terra di Mezzo e quelle esistenti:
«Uruk-hai è solo un parto dell'immaginazione. Non ci sono veri Uruk, cioè gente resa cattiva per volontà del loro creatore; e non c'è molta gente così corrotta da non poter essere redenta.»
Continua accusando una fatica:
«Sono assolutamente a corto di ispirazione per quanto riguarda l'Anello e sono fermo allo stesso punto di questa primavera, con tutta l'inerzia da superare. Che sollievo sarebbe riuscire a finirlo»
Questa lettera spiega quali sono per l'autore le ragioni del valore de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli. La lettera contiene il racconto del miracolo accaduto ad un bambino assai malato che, andato a Lourdes, non era stato inizialmente guarito, ma che sul treno del ritorno presentò i segni della guarigione; in riferimento a ciò l'autore prosegue:
«Ma la storia del ragazzino con la sua conclusione in apparenza triste e poi l'improvviso inaspettato lieto fine mi ha profondamente commosso [...]. E all'improvviso mi sono reso conto di cosa si trattasse: proprio quello che avevo cercato di scrivere e spiegare nel saggio sulle fiabe che vorrei tanto che tu avessi letto e che anzi ti manderò. Per questa situazione ho coniato la parola "eucatastrofe": l'improvviso lieto fine di una storia che ti trafigge con una gioia da farti venire le lacrime agli occhi (che io argomentavo essere il sommo risultato che una fiaba possa produrre). E nel saggio esprimo l'opinione che produce questo effetto particolare perché è un'improvvisa visione della Verità, il tuo intero essere legato dalla catena di causa ed effetto, la catena della morte, prova un sollievo improvviso come se un anello di quella catena saltasse. Si intuisce che così è fatto il Grande Mondo per il quale è fatta la nostra natura. E concludevo dicendo che la Resurrezione è la più grande "eucatastrofe" possibile nella più grande Fiaba [...]. Naturalmente non voglio dire che i Vangeli raccontano solo fiabe; ma sostengo con forza che raccontano una fiaba: la più grande. L'uomo, narratore, deve essere redento in modo consono alla sua natura: da una storia commovente. Ma dato che il suo autore è l'artista supremo e l'autore di tutta la realtà, questa storia è fatta per essere vera anche al primo livello. [...] Per venire a cose meno importanti: mi resi conto di aver scritto una storia che vale con Lo Hobbit, quando leggendola (dopo che era abbastanza maturata perché me ne staccassi) provai improvvisamente in modo intenso l'emozione "eucatastrofica" all'esclamazione di Bilbo: "Le Aquile! Stanno arrivando le Aquile!" [...] E nell'ultimo capitolo dell'Anello che ho appena scritto spero che noterai, quando l'avrai ricevuto (sarà presto in viaggio) che la faccia di Frodo diventa livida e Sam si convince che è morto, proprio quando Sam rinuncia a sperare.»
Un nuovo spunto per comprendere le ragioni del nuovo eroismo viene dal commento che Williams, un appartenente al circolo degli Inklings, scrive a Tolkien dopo aver letto una parte del Signore degli Anelli:
«La cosa più interessante è che il nocciolo della storia non è nella discordia e nella guerra e nell'eroismo (benché queste cose siano capite e dipinte) ma nella libertà nella pace, nella vita quotidiana e nei piccoli piaceri. Tuttavia lui concorda che queste cose richiedono l'esistenza di un grande mondo al di fuori della Contea — altrimenti diventerebbero stantie per l'abitudine e la monotonia»
I manoscritti del Signore degli Anelli furono passati agli editori ben prima della data di pubblicazione (1954). Durante una cena con Sir Unwin, Tolkien concordò che Rayner, il figlio dell'editore, che già a suo tempo aveva letto lo Hobbit, avrebbe letto il primo libro del Signore degli Anelli: da questo momento, 9 luglio 1947, Tolkien sarà impegnato nel vedere realizzato il suo progetto di pubblicazione.
Terminata la lettura Rayner scrive all'autore le impressioni suscitategli dal libro:
«Il corso degli eventi tortuoso e contrastante in questo mondo all'interno di un altro mondo quasi sopraffà il lettore. [...] La battaglia tra oscurità e luce (a volte uno sospetta che la storia passi in secondo piano per diventare pura allegoria) è macabra e più evidente che ne lo Hobbit." Tolkien ribatte a questi appunti dimostrando che il libro contiene molto di più di quanto non sia stato notato dal lettore: "Mi dispiace che si sia sentito sopraffatto, e in particolare ho notato l'assenza di qualsiasi riferimento alla commedia, di cui pensavo che il primo libro fosse ben fornito. [...] Mi sembra che nella vita reale, come qui, è proprio dal contrasto con l'oscurità del mondo che nasce la comicità, ed è meglio quando l'oscurità non viene nascosta.»
Una delle più comuni mistificazioni del Signore degli Anelli è quella che lo legge come se fosse una allegoria: ecco la prima occasione in cui Tolkien scredita questa interpretazione:
«[...] che Rayner non sospetti l'allegoria! [...] Persino la battaglia fra oscurità e luce (come lui la chiama, non io) per me è solo una particolare fase della storia, un esempio dei suoi modi, forse, ma non il Modo; e gli attori sono individui: ognuno di loro, naturalmente, contiene l'universale, altrimenti non vivrebbero affatto, ma non sono rappresentati come universali. [...] quanto più è strettamente intrecciata una storia tanto più facilmente quelli intenzionati a farlo vi troveranno un'allegoria."»
Tolkien spiega poi che i numerosi intrecci della storia nascono da un'esigenza di realismo:
«Si può fare dell'Anello una allegoria della nostra epoca volendo: un'allegoria dell'inevitabile fine cui vanno incontro tutti i tentativi di sconfiggere il potere del male con un potere analogo. Ma questo è solo perché tutti i poteri magici o tecnici lavorano sempre in questa direzione. Non si può scrivere una storia su un anello magico apparentemente semplice senza che la storia si gonfi, se davvero prendi sul serio l'anello, e senza fare accadere tutte le cose che accadrebbero, se un anello del genere esistesse davvero.»
Secondo l'autore, le vicende narrate nel legendarium si svolgono in un'epoca mitica o immaginaria della nostra Terra.[8] In alcuni scritti Tolkien ha inquadrato il periodo come un'epoca molto antica, ma collegata alla nostra storia attraverso Ere successive alla Quarta Era, arrivando a specificare che attualmente ci troveremmo tra la fine della Sesta e l'inizio della Settima Era.[9]
La lettura di Rayner trova un elemento di discontinuità fra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Nel capitolo V, "Indovinelli nell'oscurità", della prima edizione de lo Hobbit, troviamo Gollum, sconfitto nel duello verbale, che desidera di cuore donare l'anello a Bilbo e si dispiace molto nel non trovarlo: Bilbo allora ottiene di farsi accompagnare fuori dalla caverna dove i due si salutano civilmente. Tolkien allora promette che ne avrebbe tenuto conto in una successiva correzione del capitolo II del Signore degli Anelli; crede comunque che
«il modo adatto per aggirare la difficoltà sarebbe di aggiustare leggermente la storia originaria»
La soluzione finale prevede la riscrittura del capitolo V de lo Hobbit come oggi noi lo leggiamo mentre, nel capitolo II del Signore degli Anelli, Gandalf tiene presente il fatto che Bilbo nel suo racconto fosse massimamente premuroso a legittimare il possesso dell'anello; la vicenda della correzione dei capitoli può essere seguita nelle lettere 111, 128, 129 e 130.
Finora Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion erano rimasti circoscritti alla lettura di una stretta cerchia di amici e questo non soddisfaceva l'animo e il desiderio dell'autore che voleva poter mostrare a tutti il frutto del proprio lavoro. I rapporti con la Allen & Unwin tuttavia si fanno via via più difficili: il 14 aprile 1950, Tolkien chiede un sì o un no alla proposta di pubblicare "Il Signore degli Anelli" insieme al "Silmarillion" e la risposta sarà negativa. Parallelamente a questa corrispondenza Tolkien scrive e incontra l'editore Milton Waldman della londinese HarperCollins: costui si mostra subito assai interessato all'opera ed è sua intenzione pubblicarla nel rispetto delle intenzioni dell'autore. Nel 1951 tuttavia la Collins cominciò ad allarmarsi per la lunghezza dell'opera e Tolkien scrive una lunga lettera (la 131) nell'intenzione di dimostrare l'indivisibilità del Signore degli Anelli dal Silmarillion. Lo sforzo è vano: nel 1952, Tolkien perse la pazienza per i ritardi della pubblicazione. Nel giugno dello stesso anno Tolkien scrive una lettera (lettera 133) a Rayner Unwin, con il quale i rapporti non si erano mai del tutto deteriorati a differenza che con il padre Stanley, in risposta ad una sua gentile lettera. Qui Tolkien si dimostra disponibile al compromesso per la pubblicazione. Da questo momento i lavori di pubblicazione cominciano ad avviarsi e i progressi possono essere seguiti nelle lettere 134-137, 139-143, 145-174, 149 e 150, lettere che comprendono il periodo di tempo dall'agosto 1952 al settembre 1954.
Nella stretta cerchia di amici dell'autore cui furono dati i manoscritti del "Signore degli Anelli" compare anche Robert Murray, un sacerdote cattolico intimo amico di famiglia. Una volta letta la parte del Signore degli Anelli che gli fu mandata, questi scrisse una critica costruttiva che Tolkien apprezzò moltissimo e che rappresenta lo spunto per spiegare il senso religioso dell'opera (lettera 142). Padre Murray trovò "una positiva compatibilità con la dottrina della Grazia" a tale appunto Tolkien commenta:
«Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un'opera religiosa e cattolica; all'inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo "la religione", oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l'elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo.»
Se Tolkien è tanto colpito dall'esperienza reale, quella che uscirà dalla sua penna sarà un'opera concentrata sul realismo: ed è quanto affermato nella lettera 89, dove Tolkien spiega nella teoria dell'eucatastrofia l'efficacia e il valore de "lo Hobbit" e de "il Signore degli Anelli" nel mostrare la verità. L'arte allora è in grado di riflettere la verità sebbene agisca con oggetti che non necessariamente sono reali, ed è proprio il caso de "il Signore degli Anelli" che racconta una storia vera ma non esistente. La questione del rapporto fra l'opera di Tolkien e la verità è del tutto centrale poiché coinvolge tutto lo sforzo artistico dell'autore.
Ancora una volta lo spunto per una riflessione costruttiva su questo punto viene da una interessante domanda espressa da un lettore [lettera 153]; si tratta di Peter Hastings, manager della libreria cattolica Newman Bookshop. Egli rimane colpito dalla facoltà degli Elfi di reincarnarsi e a questo proposito scrive:
«Dio non ha usato questo espediente per nessuna delle cose create di cui siamo a conoscenza, e mi sembra che questo superi la posizione di un sub-creatore, perché un sub-creatore, quando si occupa dei rapporti fra creatore e creato, dovrebbe usare quei canali che sa che il creatore ha già usato.»
Tolkien risponde ringraziando subito il mittente e puntualizza:
«Naturalmente io ho già preso in considerazione tutti i punti che lei ha sottolineato. [...] l'intera opera dall'inizio alla fine è principalmente legata al problema della Creazione e della sub-creazione (e secondariamente con il secondo problema connesso, quello della morte). [...] la liberazione dai modi conosciuti che il creatore ha già usato è la funzione fondamentale della sub-creazione, un omaggio all'affinità della Sua potenziale capacità di cambiamento, uno dei modi in cui si rivela, come in effetti io dico nel Saggio".»
La lettera 181, una risposta alle domande di un lettore, è illuminante per spiegare il realismo e la religiosità dell'opera di Tolkien. Fin dall'inizio contrappone allegoria e romanzo fantastico:
«Perché io penso che le storie fantastiche abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall'allegoria, o dalla satira (quando è elevata) o dal realismo, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere, e anche commuovere a volte..."»
La lettera prosegue concentrandosi sulla scena del fallimento di Frodo dove tutto lo spirito religioso dell'opera si compie, e infatti l'autore spiega quello che accade sul monte Fato appellandosi alle ultime tre domande del Padre Nostro;
«La catastrofe esemplifica (per un aspetto) le parole familiari: 'Perdona i nostri nemici come noi perdoniamo chi ci ha offeso. Non indurci in tentazione ma liberaci dal male". Continua Tolkien: "'Non indurci in tentazione etc...' è la richiesta più dura e meno considerata. L'idea all'interno della mia storia è che ci sono situazioni anormali in cui uno può trovarsi."»
In queste situazioni
«il bene del mondo dipende dal comportamento di un individuo in circostanze che gli richiedono sofferenza e sopportazione oltre la norma. Frodo si trovò in una situazione sacrificale: era "votato al fallimento".»
La salvezza ha bisogno dell'uomo e della sua vita per realizzarsi nella storia:
«Ma a questo punto la salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente capacità di perdonare le offese. In qualunque momento una persona prudente avrebbe detto a Frodo che Gollum l'avrebbe tradito e alla fine avrebbe potuto derubarlo. [...]Grazie ad una situazione creata dalla sua precedente capacità di perdonare, Frodo si salva, e viene sollevato dal suo fardello."»
L'espediente letterario utilizzato è quello del viaggio. La costruzione della nobilitazione di Frodo all'interno dell'eccezionalità di un viaggio avventuroso suscitò le perplessità del poeta W. H. Auden che recensì Il ritorno del re scrivendo:
«Ma quando osservo i miei simili questa immagine mi sembra falsa. Vedo, per esempio, che solo i ricchi e quelli che possono prendersi delle vacanze fanno viaggi; [...] Non riesco a vederli [la maggior parte degli uomini] fare delle scelte, solo compiere gesti, e di quelli che conosco bene, di solito posso anche prevedere cosa faranno in una data situazione" (lettera 183). Naturalmente per Tolkien le cose stanno diversamente, infatti nella lettera di risposta alla recensione troviamo "Come ho cercato di dire nella 'Canzone per camminare' di Bilbo, anche una passeggiata serale può avere conseguenze importanti. Sam non aveva ancora oltrepassato il confine del bosco che aveva già aperto gli occhi. Perché se c'è qualcosa in un viaggio di qualunque durata, per me è questo: lo scuotersi da una situazione vegetativa di sofferenza passiva e senza scopo....»
Tolkien inoltre considera il viaggio nella sua interezza, andata e ritorno, ed il ritorno non è meno importante dell'andata perché ha il compito di restituire alla quotidianità quanto vissuto nell'eccezionalità. E anche in questa occasione si scova un'ultima debolezza; Tolkien la spiega citando le parole di Frodo (lettera 246):
«Anche se venissi nella Contea, non mi sembrerebbe più la stessa, perché io non sono più lo stesso'. Questa in realtà è una tentazione delle Tenebre, un'ultima scintilla di orgoglio: il desiderio di poter tornare come 'eroe' non soddisfatto di essere stato un puro strumento del Bene. Ed era mescolata con un'altra tentazione, più oscura e tuttavia (in un certo senso) più giustificata, perché comunque lo si spiegasse lui di fatto non aveva gettato l'Anello con un gesto deliberato: era tentato di rimpiangere la sua distruzione e di desiderarlo ancora 'È andato per sempre, e adesso tutto è buio e vuoto' disse non appena si svegliò dalla malattia del 1420.»
Gandalf gioca il ruolo del maestro e dell'educatore. Tolkien, nella lettera 192, cita due episodi nei quali si rivela questo "magistero"; il primo riguardante la questione della pietà:
«Pietà? È stata la pietà che ha fermato la mano di Bilbo. Pietà e compassione: non colpire senza necessità. Ed è stato ben ricompensato, Frodo. Stai certo che è stato ferito così lievemente dal male e alla fine è riuscito a sfuggirli, perché il suo possesso dell'Anello è iniziato in questo modo. Con pietà".»
Il secondo episodio riguarda la presenza discreta dell'Unico:
«Dietro di quello, c'era qualcos'altro al lavoro, dietro ogni disegno di colui che fece l'anello. Non posso dire di più se non che era stabilito che Bilbo trovasse l'anello, e dal suo facitore»
Di Gandalf Tolkien dice:
«Il suo ruolo di "stregone" è il ruolo di angelo e di un messaggero dei Valar o Governatori: aiutare le creature razionali della Terra di Mezzo a resistere a Sauron [...]. Ma dato che secondo questa storia o mitologia il potere [...] è considerato malefico, questi stregoni si incarnano in figure compatibili con la Terra di Mezzo, e così soffrono pene fisiche e spirituali [...]. Il loro peccato principale è quello dell'impazienza, che poteva provocare il desiderio di forzare gli altri verso il loro destino finale positivo, e in questo modo inevitabilmente avrebbero imposto la loro volontà.»
Nella lettera del 5 novembre 1954 a Padre Murray, Tolkien specifica che la morte di Gandalf è reale e non apparente:
«Gandalf morì per davvero, e venne cambiato: questo per me è l'unico vero imbroglio, rappresentare qualcosa che può essere chiamato 'morte' come qualcosa che non fa nessuna differenza.»
In realtà affrontare il Balrog non fu per niente una scelta scontata, anzi agli occhi dello stregone appariva come una scelta drammatica. Questo perché gli stregoni avevano fallito o meglio
«la crisi era diventata troppo grave e richiedeva un rafforzamento del potere. Così Gandalf si sacrifica, il suo sacrificio viene accettato, e fa ritorno più forte.»
Il suo ritorno non è opera sua:
«nudo sono stato rimandato indietro, per breve tempo, finché non fosse assunto il mio compito. Mandato indietro da chi, e da dove? Non dalle divinità che si occupano solamente del mondo fisico e del suo tempo; perché lui è passato 'dal pensiero e dal tempo'".»
Elfi e uomini
«naturalmente [...] sono solamente due diversi aspetti dell'umanità, e rappresentano il problema della morte così come viene vista da persone finite ma consapevoli e di buona volontà. [...] Gli Elfi rappresentano l'aspetto artistico, estetico e puramente scientifico della natura umana ad un livello più elevato di quanto non si trovi negli uomini. Cioè: hanno un amore infinito nei confronti del mondo fisico ed il desiderio di capirlo per la propria ed altrui salvezza.»
Prosegue l'autore:
«Gli Elfi affrontano il ciclo nato dal male del mondo con il fardello dell'immortalità, direi molto adeguato alla natura 'scientifica' delle loro menti. Così sono predisposti a compiere un errore fondamentale: essi diventano 'imbalsamatori', ovvero "tentare di fermare i cambiamenti e la storia, di fermare la sua crescita, considerarla un luogo di delizie, anche se in gran parte deserta, dove potevano essere gli 'artisti' -e contemporaneamente essere pieni di tristezza e di rimpianto nostalgico.»
Prosegue Tolkien
«A modo loro gli uomini di Gondor erano uguali: un popolo in estinzione per la quale l'unica cosa sacra erano le tombe.»
E ancora:
«Gli uomini sono 'caduti' [...] ma le genti dell'Occidente, il lato buono, sono ri-formate. Cioè sono i discendenti degli uomini che hanno cercato di pentirsi e sono fuggiti verso Occidente lontano dalla dominazione del primo Signore delle Tenebre, e del suo falso culto, e in contrasto con gli elfi hanno rinnovato (e ampliato) la loro conoscenza della verità e della natura del mondo»
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