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campagna di Gaio Giulio Cesare Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Con l'espressione conquista della Gallia si indica la campagna di sottomissione dei popoli delle regioni che oggi formano l'attuale Francia (ad esclusione della parte meridionale, ovvero della Gallia Narbonense, già sotto il dominio romano dal 121 a.C.), il Belgio, il Lussemburgo e parte di Svizzera, Paesi Bassi e Germania, portata a termine da Gaio Giulio Cesare dal 58 al 51/50 a.C. e da lui narrata nel De bello Gallico, che resta la principale fonte per questi eventi. Sebbene Cesare tenda a presentare la sua invasione come un'azione di difesa preventiva di Roma e dei suoi alleati gallici, molti studiosi ritengono che la sua sia stata una guerra imperialista a tutti gli effetti, da lui premeditata e ricercata, per mezzo della quale si proponeva di accrescere il suo potere e il suo prestigio[4].
Durante il suo consolato (59 a.C.), Cesare, con l'appoggio degli altri triumviri (Pompeo e Crasso), ottenne con la Lex Vatinia del 1º marzo[5] il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina[6] e dell'Illirico per cinque anni e il comando di un esercito composto da tre legioni.[7] Poco dopo un senatoconsulto aggiunse anche quella della Gallia Narbonense[8], il cui proconsole era morto all'improvviso, e il comando della X legione[9].
Il fatto che a Cesare sia stata assegnata inizialmente la provincia dell'Illirico come parte del suo imperium, e che all'inizio del 58 a.C. ben tre legioni fossero state dislocate ad Aquileia, potrebbe indicare che egli intendesse cercare proprio in quest'area gloria e ricchezze con cui accrescere il suo potere e la sua influenza militare e politica. Cesare aveva infatti bisogno di importanti vittorie militari così da costruirsi un suo potere personale con il quale controbilanciare quello che Pompeo si era costruito con le vittorie ottenute in Oriente.
A tal fine progettava probabilmente una campagna oltre le Alpi Carniche fin sul Danubio, sfruttando la crescente minaccia delle tribù della Dacia (corrispondente grosso modo all'odierna Romania), che si erano riunite sotto la guida di Burebista, il quale aveva guidato il suo popolo alla conquista dei territori dislocati ad ovest del fiume Tibisco, oltrepassando il Danubio e sottomettendo l'intera area su cui si estende l'attuale pianura ungherese, ma soprattutto avvicinandosi pericolosamente all'Illirico romano e all'Italia.
La sua avanzata si arrestò improvvisamente, forse per il timore di un possibile intervento diretto di Roma nell'area balcano-carpatica. Così, invece di continuare nella sua marcia verso occidente, Burebista era tornato nelle sue basi in Transilvania, rivolgendo poi le proprie mire ad Oriente: attaccò i Bastarni e infine assediò e distrusse l'antica colonia greca di Olbia (nei pressi dell'attuale Odessa).[10]
Cessata la minaccia dei Daci, Cesare rivolse il suo interesse alla Gallia e ai suoi popoli, divisi in molteplici fazioni, alcune delle quali erano favorevoli allo stesso popolo romano, e la cui sottomissione presentava, almeno apparentemente, minori difficoltà militari rispetto alla Dacia e ai Daci (sia per l'insidiosità del territorio che per la ritrovata unità del suo popolo). A Cesare serviva solo il pretesto per mettere piede in Gallia.
Quando Cesare entrò con le sue truppe in questa regione, trovò una terra abitata non solo dai Celti, che occupavano la maggior parte del territorio, e dai Belgi (un popolo misto di Celti e Germani che, a partire dal 200 a.C. circa, aveva occupato la zona nord-orientale della Gallia), ma anche da popolazioni probabilmente non indoeuropee come i Liguri e i Reti nella zona sud-orientale e gli Iberi in quella sud-occidentale, giunti dalla vicina Penisola iberica.
Ecco come Cesare, nel celebre incipit del De bello Gallico, descrive la Gallia:
«Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una, pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem.
Aquitania a Garumna flumine ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones.»
«La Gallia è, nel suo complesso, divisa in tre parti: la prima la abitano i Belgi, l'altra gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua prendono il nome di Celti, nella nostra, di Galli. I tre popoli differiscono tra loro per lingua, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la Marna e la Senna li separano dai Belgi. Tra i vari popoli i più forti sono i Belgi, ed eccone i motivi: sono lontanissimi dalla finezza e dalla civiltà della nostra provincia; i mercanti, con i quali hanno scarsissimi contatti, portano ben pochi fra i prodotti che tendono a indebolire gli animi; confinano con i Germani d'oltre Reno e con essi sono continuamente in guerra. Anche gli Elvezi superano in valore gli altri Galli per la stessa ragione: combattono con i Germani quasi ogni giorno, o per tenerli lontani dai propri territori o per attaccarli nei loro. La parte in cui, come si è detto, risiedono i Galli, inizia dal Rodano, è delimitata dalla Garonna, dall'Oceano, dai territori dei Belgi, raggiunge anche il Reno dalla parte dei Sequani e degli Elvezi, è volta a settentrione. La parte dei Belgi inizia dalle più lontane regioni della Gallia, si estende fino al corso inferiore del Reno, guarda a settentrione e a oriente. L'Aquitania, invece, va dalla Garonna fino ai Pirenei e alla parte dell'Oceano che bagna la Spagna, è volta a occidente e a settentrione»
In Gallia si praticava un'agricoltura intensiva e i suoi popoli avevano già da tempo compiuto importanti passi nel campo della metallurgia, senza contare che, dal 300 a.C. circa, il commercio dello stagno proveniente dalla Britannia era per lo più in mano ai Veneti della Bretagna e di altre tribù, attraverso le quali il metallo giungeva fino a Marsiglia e a Narbona. Tuttavia, sebbene dal III secolo a.C. si fossero diffuse le monete greche, loro imitazioni e anche il denario romano e nonostante fossero state già costruite vie terrestri per gli uomini e le merci, i Galli non conoscevano la scrittura, o meglio questa era prerogativa della casta sacerdotale dei druidi, che utilizzavano l'alfabeto greco. Per il resto, tutto era tramandato oralmente dai bardi.
La monarchia, come sistema di potere, resisteva ancora tra i Belgi, mentre era scomparsa da decenni nella Gallia centrale, dove vigeva una struttura aristocratica basata su un sistema clientelare. I druidi formavano una casta religiosa molto potente e influente, mentre gli aristocratici formavano la classe guerriera, quella dei magistrati e quella di governo. I druidi erano riusciti a creare una specie di confederazione tra le circa 50 tribù esistenti, al cui interno quelle più forti stavano però progressivamente assorbendo le altre. La Gallia, tuttavia, non aveva raggiunto né unità né vera stabilità politica: le tribù erano spesso in guerra tra di loro (senza contare le continue dispute esistenti all'interno della classe guerriera di ogni tribù), creando e disfacendo continuamente alleanze e avvalendosi dell'aiuto di mercenari germanici per combattere i nemici. Tutto ciò permise proprio ai Germani, popoli da tempo in movimento (come testimoniano, per esempio, le migrazioni di Cimbri e Teutoni), di spingersi fino ai fiumi Meno, Reno e Danubio a partire dal 100 a.C. Proprio questa situazione aveva permesso al capo svevo Ariovisto, attorno al 61/60 a.C., di impadronirsi dei territori della moderna Alta Alsazia.
Prima di partire nel 58 a.C., egli volle rendere sicura la sua posizione a Roma, facendo allontanare dalla città Marco Tullio Cicerone e Marco Porcio Catone (detto Catone il Giovane), capi del partito senatorio e suoi temibili avversari. Cicerone poteva impedire la sua ascesa al potere essendo stato console nel 63 a.C. e conoscendo quindi i retroscena della congiura di Catilina che, se divulgati, avrebbero danneggiato la figura di Cesare poiché questo molto probabilmente vi aveva partecipato. Lo stesso avrebbe potuto fare Catone, in quanto sostenitore e grandissimo difensore di quella fazione politica che Cesare aveva intenzione di eliminare, ovvero gli ottimati.
Cicerone fu esiliato grazie all'azione del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro, mentre a Catone fu affidata una missione diplomatica a Cipro, abbastanza lontano da assicurare una certa tranquillità a Cesare.
A fornire a Cesare il pretesto per entrare in armi in Gallia fu la migrazione degli Elvezi, stanziati tra il Lago di Costanza, il Rodano, il Giura, il Reno e le Alpi Retiche. Nel 58 Cesare si trovava ancora a Roma quando venne a sapere che gli Elvezi si stavano preparando a migrare verso le regioni occidentali della Gallia, con l'intento di attraversare il territorio della Gallia Narbonense. Il passaggio di un intero popolo all'interno della provincia romana avrebbe senza dubbio procurato enormi danni e avrebbe potuto spingere gli Allobrogi, che vivevano in quell'area, a ribellarsi contro il dominio romano.[11] Inoltre, i territori abbandonati dagli Elvezi avrebbero potuto essere occupati da popoli germanici, che sarebbero così divenuti pericolosi e bellicosi vicini dei possedimenti romani.
Cesare narra:
«A suo dire [di Orgetorige], gli Elvezi, visto che erano superiori a tutti in valore, potevano impadronirsi con facilità dell'intera Gallia. Egli li convinse di ciò in quanto, per la configurazione geografica del paese, gli Elvezi sono chiusi da ogni parte: da un lato dal Reno, largo e profondo, che divide le terre degli Elvezi dai Germani, dall'altra dal monte Giura, molto alto, che è tra loro e i Sequani e infine dal Lago Lemano e dal fiume Rodano, che li separa dalla nostra provincia. Tutto ciò riduceva l'area in cui potevano fare scorrerie e rendeva difficile fare guerra ai popoli vicini. Perciò, essendo molto bellicosi, erano afflitti. Inoltre, pensavano di avere un territorio troppo piccolo rispetto al numero del loro popolo e alla gloria che avevano per il loro valore in guerra, lungo 240 miglia e largo 180»
Orgetorige aveva bisogno di trovare alleati in Gallia per attuare il suo piano di conquista. Per prima cosa si rivolse al sequano Castico, figlio di Catamantalede, che per tanti anni era stato capo dei Sequani oltre ad aver ricevuto il titolo di "Amico del popolo romano" dal Senato romano, affinché assumesse egli stesso il potere, affiancandolo così nel suo progetto di conquista dell'intera Gallia. Subito dopo si rivolse a Dumnorige, fratello di Diviziaco, che a quel tempo era capo del popolo degli Edui, e gli diede in moglie la propria figlia in cambio dell'alleanza tra i due popoli.
I tre, convinti di poter conquistare l'intera Gallia grazie alle forze congiunte dei loro tre potentissimi popoli, si scambiarono tra loro un giuramento di fedeltà. Il loro progetto svanì nel nulla, poiché le trame di Orgetorige furono scoperte e, prima ancora che cominciasse il processo pubblico, sembra che egli stesso abbia preferito darsi la morte, piuttosto di dover sopportare la pena capitale "del fuoco". Anche dopo la sua morte, però, gli Elvezi non desistettero dal proposito di migrare.[12]
Date alle fiamme le città, i villaggi e il frumento che non potevano portare con loro, gli Elvezi si misero in marcia, dopo aver convinto i vicini popoli dei Raurici, dei Tulingi e dei Latovici a unirsi a loro e dopo aver accolto anche i Boi, migrati dalla lontana Pannonia.[13]
Si trattava di scegliere quale via percorrere: la prima li avrebbe condotti nel paese dei Sequani, seguendo una via angusta e difficile tra i monti del Giura e il Rodano, mentre la seconda, apparentemente più agevole, avrebbe però richiesto il passaggio nel territorio della Gallia Narbonense. Gli Elvezi scelsero la seconda via, pur ignorando quale sarebbe stata la reazione dei Romani alla loro richiesta di trasferire l'intero popolo sul suolo romano. Una volta raggiunto il Rodano indissero un'assemblea lungo la sua riva destra per decidere il da farsi. Era il 28 marzo.[14]
Cesare, informato delle loro intenzioni, si affrettò a raggiungere da Roma la Gallia Narbonense, percorrendo fino a 140-150 chilometri al giorno e arrivando a Ginevra il 2 aprile. Come prima misura il proconsole romano diede l'ordine di distruggere il ponte sul Rodano presso Ginevra così da rendere più difficoltoso l'attraversamento del fiume.[15] Nella Narbonense arruolò truppe ausiliarie e reclute, oltre a disporre che le tre legioni di stanza ad Aquileia lo raggiungessero ed a predisporre la formazione di due nuove legioni (la XI e la XII) nella Gallia Cisalpina.[16] Cesare aveva bisogno di guadagnare tempo: disponeva infatti della sola X legione, quindi di una forza troppo esigua per respingere un popolo in marcia che stava per abbattersi sulla provincia con oltre 368.000 individui, di cui 92.000 uomini in armi.[17]
Gli ambasciatori degli Elvezi si presentarono a Cesare chiedendogli il permesso di attraversare pacificamente la provincia. Il proconsole lasciò intendere che avrebbe preso in considerazione la richiesta, rimandando però la sua risposta fino al 13 aprile. In realtà il proconsole non aveva alcuna intenzione di concedere loro il permesso. Temeva che questa tribù avrebbe portato distruzione e saccheggi ovunque al suo passaggio.
Cesare utilizzò il tempo che aveva preso per far costruire dalla X legione un muro alto 16 piedi (5 metri circa) e lungo 19 miglia (pari a 28 chilometri), con una fossa antistante, che costeggiava il lato sinistro del Rodano, dal lago Lemano al Giura. Dispose anche numerosi presidi e fortini a intervalli regolari per poter sbarrare il passo agli Elvezi qualora avessero tentato di passare contro la sua volontà. Terminati questi preparativi, il 13 aprile Cesare negò agli Elvezi l'autorizzazione al transito.[18]
Gli Elvezi dopo aver cercato invano di penetrare nella provincia, tentando di sfondare la linea difensiva creata dai Romani, si risolsero a trattare con i Sequani per ottenere il permesso di attraversare le loro terre ed alla fine lo ottennero.[19]
Cesare avrebbe potuto, a questo punto, disinteressarsi alla questione dato che gli Elvezi non avrebbero più attraversato i territori romani, ma il timore di rimandare il problema, o forse l'ormai maturata decisione di portare la guerra in Gallia e di sottometterla, lo convinsero che doveva intervenire senza attendere un nuovo pretesto.
Nel De bello Gallico, Cesare addusse diverse motivazioni per giustificare la sua azione:
Cesare lasciò a guardia del vallo appena costruito lungo il Rodano alcune coorti, sotto il comando di un suo luogotenente, Tito Labieno; con il resto dell'esercito pari a circa 5 legioni abbondanti mosse all'inseguimento degli Elvezi.
Gli Elvezi avevano già attraversato il paese dei Sequani, come concordato, ma si erano lasciati andare a saccheggi nel vicino paese degli Edui, tanto che questi ultimi furono costretti a chiedere l'intervento romano.[24] Cesare, ormai convinto da questi fatti, decise di intervenire. Lo scontro avvenne nei pressi del fiume Arar, mentre gli Elvezi erano intenti ad attraversarlo. Cesare, infatti, assalì questo popolo mentre, carico dei suoi bagagli, stava ancora traghettando sulla sponda destra del fiume Arar. Ne uccise una moltitudine mentre gli altri scappavano, nascondendosi nei vicini boschi. Al termine di questo primo combattimento, costruì un ponte sul fiume fece passare dall'altra parte le legioni all'inseguimento degli Elvezi.[25]
Gli Elvezi, turbati dalla sconfitta e dalla rapidità con cui Cesare aveva provveduto alla costruzione del ponte (un solo giorno, contro i venti giorni impiegati dagli Elvezi), mandarono una delegazione per trattare con il generale romano, a capo della quale vi era Divicone, famoso tra la sua gente per aver condotto alla vittoria gli Elvezi nel 107 a.C. contro Longino. Divicone, senza alcuna soggezione nei confronti di Cesare, rivelò che gli Elvezi erano disposti ad accettare l'assegnazione di terre che il generale romano avesse loro riservato, in cambio della pace. Cesare, da parte sua, chiese a garanzia alcuni ostaggi e volle che fossero soddisfatte le richieste di Edui e Allobrogi, danneggiati dalle incursioni elvetiche. Divicone fu costretto a rifiutare tali richieste, che reputava ingiuste, forse sospettando trattarsi di un pretesto per continuare la guerra. Non fu raggiunto alcun accordo e la marcia degli Elvezi continuò verso nord per altri 14 giorni.[26]
Cesare provò a stuzzicare il nemico in marcia, poco dopo, inviando contro di loro 4.000 cavalieri (in minoranza romani, in maggioranza della tribù degli Edui, comandati da Dumnorige), che furono però battuti da una forza numericamente di molto inferiore (si parla di soli 500 cavalieri della retroguardia degli Elvezi), a causa della scarsa volontà di combattere dei cavalieri galli.[27] I sospetti ricaddero sul fratello del capo degli Edui, Dumnorige, del quale si "scoprì" l'aver mantenuto rapporti di amicizia con il popolo degli Elvezi. Fu graziato da Cesare soltanto in virtù dell'amicizia che nutriva nei confronti di suo fratello Diviziaco, oltre che per il timore che, qualora l'avesse giustiziato, Diviziaco avrebbe potuto schierarsi contro i Romani. Cesare decise così di porre Dumnorige sotto stretta sorveglianza, guadagnandosi nuova riconoscenza da parte del principe degli Edui Diviziaco.[28]
Dopo 14 giorni di inseguimento fino alla capitale degli Edui, Cesare decise di affrontare il nemico nei pressi di Bibracte (sul Monte Beuvray),[29] dove Cesare riuscì a battere definitivamente gli Elvezi ed i loro alleati (Battaglia di Bibracte).[30] Secondo il racconto cesariano, tra i vinti sopravvissero solo 130.000 persone, su un totale iniziale di 368.000.
Dopo la resa, il generale romano ordinò agli Elvezi di tornare nelle proprie terre, così da evitare che queste fossero occupate dai vicini Germani che si trovavano al di là di Reno e Danubio.[31] Ai Galli Boi (15.000 circa) fu invece concesso di stanziarsi nelle terre degli Edui, nei pressi della città di Gorgobina.
Terminata la guerra con gli Elvezi, quasi tutti i popoli della Gallia mandarono ambasciatori a Cesare per congratularsi della vittoria e chiesero di poter indire, per un giorno stabilito, un'assemblea di tutta la Gallia con il consenso dello stesso Cesare.[32]
L'approvazione dell'assemblea fu solo un pretesto per il generale romano. Egli, infatti, desiderava incontrarsi con le popolazioni della Gallia, in modo da ottenerne il permesso per intervenire legalmente in loro difesa contro gli invasori germanici di Ariovisto.[33]
Sembra che Ariovisto avesse varcato il Reno attorno al 72 a.C., insieme alle popolazioni sveve provenienti dalle vallate dei fiumi Neckar e Meno.[34] Nel corso degli anni le popolazioni germaniche che avevano passato il Reno erano cresciute in numero fino a raggiungere rapidamente le 120.000 unità.
Gli Edui ed i loro alleati avevano combattuto contro i Germani più volte, ma sconfitti duramente avevano perduto tutti i loro nobili, il senato ed i cavalieri. Era capitato di peggio ai Sequani vincitori, poiché Ariovisto, re dei Germani, si era stabilito nel loro Paese occupandone la terza parte delle terre [...] ed ora ordinava ai Sequani di lasciarne un altro terzo, poiché pochi mesi prima erano giunti da lui 24.000 Germani Arudi, per i quali dovevano essere procurate terre e dimore, con il rischio che in pochi anni tutti i Galli sarebbero stati cacciati dalla Gallia ed i Germani sarebbero passati al di qua del Reno.[35]
I Sequani, in seguito a tali eventi ed alla crescente arroganza del re germanico Ariovisto, avevano deciso di unire le forze ai vicini Edui e, dimenticando i passati rancori, di combattere insieme il comune nemico. Il 15 marzo 60 a.C.,[36] fu infatti combattuta una sanguinosa ed epica battaglia presso Admagetobriga tra Celti e Germani: ad avere la peggio furono le forze galliche.
In seguito a questi fatti, gli Edui avevano inviato ambasciatori a Roma per chiedere aiuto. Il Senato decise di intervenire e convinse Ariovisto a sospendere le sue conquiste in Gallia; in cambio gli offrì, su proposta dello stesso Cesare (che era console nel 59 a.C.), il titolo di rex atque amicus populi Romani ("re ed amico del popolo romano").[37] Ariovisto, però, continuò a molestare i vicini Galli con crescente crudeltà e superbia, tanto da indurli a chiedere un aiuto militare allo stesso Cesare, il quale era l'unico che poteva impedire ad Ariovisto di far attraversare il Reno da una massa ancor maggiore di Germani, e soprattutto poteva difendere tutta la Gallia dalla prepotenza del re germanico.[38]
Cesare decise che avrebbe dovuto affrontare il problema germanico. Egli riteneva, infatti, che sarebbe stato pericoloso, in futuro, continuare a permettere ai Germani di passare il Reno ed entrare in Gallia in gran numero. Temeva che, una volta occupata tutta la Gallia, i Germani avrebbero potuto invadere la provincia Narbonese e poi l'Italia stessa, come in passato era avvenuto con l'invasione di Cimbri e Teutoni. Erano motivi sufficienti per inviare ambasciatori ad Ariovisto e chiedergli un colloquio a metà strada, ma il capo germanico rispose che era Cesare a doversi recare da lui, nel caso in cui avesse avuto bisogno di chiedergli qualcosa. Ariovisto rivendicava il suo diritto a rimanere in Gallia, poiché aveva vinto la guerra contro i Galli. Cesare, stizzito dalla risposta di Ariovisto, diede ad Ariovisto un ultimatum, rispondendogli che sarebbe stato considerato in perpetuo amico del popolo romano, solo se si fosse attenuto alle seguenti richieste:
In caso contrario non avrebbe trascurato i torti fatti agli Edui. La risposta di Ariovisto non si fece attendere: senza alcun timore, sfidò Cesare a battersi con lui quando lo desiderava, ricordandogli il valore delle sue truppe, mai sconfitte fino a quel momento.[39]
Cesare venne a sapere che Ariovisto si era mosso dai suoi territori e puntava su Vesonzio (l'odierna Besançon), la città più importante dei Sequani. Ritenendo di non poter concedere un simile vantaggio al nemico, accelerò il passo dei suoi legionari e percorse nel minor tempo possibile il tragitto, riuscendo così a sottrarre questo importante oppidum gallico al condottiero germanico. Una volta occupata la città e prelevato l'occorrente per il suo esercito, vi collocò una guarnigione a sua difesa.[40]
Cesare poté riprendere la sua avanzata ai primi di agosto e, dopo sei giorni di marcia continua, fu informato dagli esploratori che l'esercito di Ariovisto si trovava a circa 24 miglia da loro (poco più di 35 km).[41] Alla notizia dell'arrivo di Cesare, Ariovisto decise di inviare suoi ambasciatori per comunicare al generale romano la sua disponibilità ad un colloquio, da tenersi dopo cinque giorni. Cesare non rifiutò la proposta, pensando che Ariovisto potesse tornare sulle sue decisioni. Il colloquio che ne seguì non fu però proficuo. Sembra infatti che, mentre il colloquio si stava ancora svolgendo, alcuni cavalieri germani si accostarono alla collina e si lanciarono contro i Romani, gettandogli contro pietre e altri proiettili; Cesare troncò il colloquio e si ritirò.[42] Il fallimento dell'incontro causò lo scontro decisivo, che avvenne in una piana ai piedi dei monti Vosgi, oggi compresa tra le città di Mulhouse e Cernay.[43]
Ariovisto per prima cosa spostò il suo campo base, avvicinandosi a quello di Cesare e portandosi a circa 6.000 passi (circa 9 km), dai 35–36 km a cui si trovava prima dell'incontro. Il giorno successivo, compiendo una marcia presumibilmente attraverso le foreste della zona, si accampò a soli 2.000 passi (circa 3 km) al di là di quello di Cesare, con l'obiettivo di tagliare al generale romano ogni possibile via di rifornimento delle vettovaglie che gli venivano portate dagli alleati Edui e Sequani. Da quel giorno, e per cinque giorni, vi furono continue scaramucce tra i due eserciti; in particolare, Ariovisto preferiva inviare contro il nemico la sola cavalleria, forte di 6.000 cavalieri e 6.000 fanti, assai veloci nella corsa:
Dopo alcuni giorni di stallo tra i due eserciti, Ariovisto decise di prendere l'iniziativa, assaltando da mezzogiorno a sera il campo piccolo senza miglior fortuna del giorno precedente. Ma le sorti della guerra si decisero il giorno successivo, quando Cesare, schierate le sue truppe in modo che le ausiliarie fossero disposte di fronte al campo piccolo e poi, via via, le sei legioni su tre schiere, avanzò verso il campo di Ariovisto e lo costrinse a disporre le sue truppe fuori dal campo. Ariovisto ordinò l'esercito per tribù: prima quella degli Arudi, poi i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi ed infine gli Svevi. Ogni tribù, poi, fu circondata da carri e carrozze, affinché non ci fosse la possibilità di fuga per nessuno: sopra i carri c'erano le donne, che imploravano i loro uomini di non abbandonarle alla schiavitù dei Romani.[44]
I Germani al termine di uno scontro assai cruento, furono sconfitti e massacrati dalla cavalleria romana mentre cercavano di attraversare il fiume, e lo stesso Ariovisto scampò a stento alla morte, riuscendo a guadare il Reno insieme a pochi fedeli.[45]
Da questo momento Ariovisto scomparve dalla scena storica. Cesare, respingendo gli Svevi al di là del Reno, trasformò questo fiume in quella che sarebbe stata la barriera naturale dell'Impero per i successivi quattro-cinque secoli. Aveva, quindi, non solo fermato i flussi migratori dei Germani, ma salvato la Gallia Celtica dal pericolo germanico, attribuendo così a Roma, che aveva vinto la guerra, il diritto di governare su tutti i popoli presenti sul suo territorio.[46]
Giunto ormai l'autunno, Cesare decise di acquartierare le legioni per l'inverno nel territorio dei Sequani[47]: si trattava, di fatto, di un'annessione. Egli poteva ora tornare in Gallia Cisalpina ad occuparsi degli affari di proconsole.
Cessata la minaccia germanica di Ariovisto, le antiche inimicizie tra le tribù galliche tornarono a galla ed allo stesso tempo cresceva l'insofferenza verso l'occupazione romana. In questa situazione, molti popoli cercarono alleanze anche con i vicini Germani della riva sinistra del Reno,[48] per trovare il necessario aiuto contro il comune ed imminente pericolo delle legioni cesariane, che - molti sospettavano - si sarebbero dirette a breve contro i loro territori.
Cesare narra che, mentre si trovava in Gallia Cisalpina, fu informato di una congiura dei Belgi ai danni di Roma; un'ipotesi, questa, che sembra confermata anche da un carteggio di Tito Labieno, luogotenente del generale. I Belgi si scambiavano ostaggi perché temevano che, una volta sottomessa tutta la Gallia Celtica, l'esercito romano sarebbe stato poi condotto nel loro Paese. A sobillare il loro proposito erano intervenute anche alcune popolazioni galliche, che mal sopportavano che le truppe romane svernassero nelle loro terre e vi si abituassero.[49]
Giunto in Gallia (probabilmente a Vesontio, la capitale dei Sequani)[50] con due nuove legioni (la XIII e XIV),[51] Cesare venne a sapere che tutte le tribù della Gallia Belgica (a cui si erano unite alcune tribù germaniche), con la sola esclusione dei Remi,[52] si sarebbero riunite in un unico luogo con l'intero esercito, sotto la guida di un certo Galba, re dei Suessioni. Cesare fornisce un elenco dettagliato dei popoli che presero parte all'alleanza, per un totale di 306.000 armati:[53] essi appartenevano al popolo dei Bellovaci (con 60.000 armati), Suessioni (50.000 armati), Nervi (50.000), Atrebati (15.000), Ambiani (10.000), Morini (25.000), Menapi (7.000), Caleti (10.000), Veliocassi (10.000), Viromandui (10.000), Atuatuci (19.000), oltre a 40.000 Germani.[54]
Cesare, dopo 15 giorni di marcia ininterrotta[55] e dopo avere rifocillato l'esercito nelle terre degli alleati Remi, si accampò a nord del fiume Axona (moderno Aisne, affluente dell'Oise).[56] Pose un presidio a difesa del ponte che lo attraversava e lo affidò al luogotenente Quinto Titurio Sabino con sei coorti. Mentre attendeva che i Belgi giungessero in prossimità del fiume, fece fortificare il campo.[57]
I Belgi, ancora intenti ad assaltare il vicino oppidum di Bibrax (importante centro dei Remi), non si curarono della vicinanza delle legioni romane, tanto che Cesare fu costretto ad inviare truppe in aiuto della vicina città (tra cui cavalieri numidi, arcieri cretesi e frombolieri delle Baleari) per provocarli a battaglia. Finalmente, fallito il tentativo di conquistare l'oppidum, i Belgi marciarono verso Cesare, ponendo il loro campo a meno di due miglia da quello romano. L'accampamento si estendeva in larghezza per circa otto miglia, tanto era grande.[58] Dopo aver saggiato con alcune scaramucce le capacità del nemico, Cesare decise di provocare l'esercito dei Belgi in campo aperto:[59]
«Cesare lasciate nel campo due legioni che aveva da poco arruolate, affinché, se in qualche parte dello schieramento vi fosse stato bisogno, potessero essere impiegate come riserva, schierò in ordine davanti al campo le altre sei legioni. Anche i nemici schierarono ugualmente le proprie truppe. Tra i due eserciti c'era una palude non molto grande. I nemici attendevano che i nostri la attraversassero, mentre i nostri erano pronti ad attaccare il nemico in difficoltà, qualora avesse iniziato ad attraversarla. Nel frattempo tra le due schiere si svolgeva uno scontro di cavalleria. Dato che nessuno dei due eserciti si decideva ad attraversarla, dopo l'esito favorevole per i nostri dello scontro di cavalleria, Cesare riportò i suoi nell'accampamento. Allora i nemici si diressero verso l'Aisne che scorreva dietro al nostro campo. Trovati lì dei guadi, cercarono di far passare oltre il fiume parte delle truppe per provare ad espugnare il forte comandato dal luogotenente Quinto Titurio e ad interrompere il ponte. Se ciò non gli fosse riuscito, volevano devastare i campi dei Remi che ci erano di grande utilità per la condotta della guerra e impedire così ai nostri i rifornimenti. Informato da Titurio, Cesare fece passare il ponte a tutta la cavalleria e ai Numidi armati alla leggera, ai frombolieri e agli arcieri e si dirige verso i nemici. I nostri, assaliti i nemici in difficoltà nel fiume, ne uccisero gran parte. Con una grande quantità di proiettili respinsero gli altri che con grande audacia cercavano di passare sui corpi dei morti. I primi che erano riusciti a passare, circondati dalla cavalleria, furono uccisi. I nemici, avendo capito che non c'era possibilità né di espugnare la città né di passare il fiume, e vedendo che i nostri non avanzavano in luogo sfavorevole per combattere, mentre cominciarono a mancare loro le vettovaglie, convocata l'assemblea, stabilirono che fosse bene che ognuno tornasse in patria e che tutti da ogni parte giungessero a difendere quelle popolazioni, i cui paesi per primi fossero invasi dall'esercito romano, che combattessero piuttosto nel proprio paese che in quello altrui e che usufruissero delle vettovaglie patrie. Decisero ciò anche perché erano venuti a sapere che Diviziaco e gli Edui si avvicinavano al Paese dei Bellovaci. Non avevano potuto convincere questi ad attendere più a lungo e a non portare aiuto ai loro concittadini»
I Belgi presero quindi la strada verso le loro terre prima della mezzanotte, e Cesare, dopo aver atteso fino all'alba poiché voleva capire le reali intenzioni del nemico e temeva insidie in un territorio sconosciuto ed ostile, decise di inseguirlo con tutta la cavalleria (affidata a Quinto Pedio, e Lucio Aurunculeio Cotta) e tre legioni (affidate a Tito Labieno). I Romani, una volta raggiunta la retroguardia dell'enorme massa di armati che si snodava disordinatamente lungo il fiume Aisne in direzione ovest, ne approfittarono per farne grande strage fino al tramonto.[60]
Il giorno seguente, Cesare, prima che i nemici si riprendessero dal terrore suscitato dalla recente strage, condusse l'esercito nelle terre dei Suessioni, giungendo dinanzi al loro principale oppidum, Noviodunum (presso le odierne Soissons e Pommiers). La città fu cinta d'assedio, ma il loro re Galba, spaventato dalla grandezza delle opere d'assedio che il generale romano era riuscito ad approntare in così poco tempo, offrì la resa del suo popolo. La capitolazione, favorita anche dall'intercessione dei vicini Remi, fu suggellata dalla consegna di ostaggi (tra cui due figli dello stesso re Galba) e di tutte le armi che tenevano nella loro capitale.[61]
Cesare poté proseguire la sua marcia dirigendosi ora nel Paese dei Bellovaci, fino alla capitale Bratuspanzio (forse Beauvais). In loro favore parlò Diviziaco, principe degli Edui, il quale intercedette presso il proconsole descrivendoli come leali amici degli Edui che si erano ribellati solo perché fuorviati dai loro capi. Cesare accolse le suppliche di Diviziaco, suo fedele alleato, ed accettò la resa dei Bellovaci; poiché però si trattava di una tra le tribù di maggiore autorità tra i Belgi, richiese ben 600 ostaggi. La stessa cosa successe poco dopo anche ai vicini Ambiani, che senza indugio si consegnarono a Cesare con ogni loro cosa.[62]
Dopo tre giorni di viaggio in direzione est, il proconsole romano venne a sapere che una grande massa armata di Atrebati, Nervi e Viromandui (a cui a breve si sarebbero unite anche le truppe degli Atuatuci) si era concentrata presso il fiume Sabis.[63] Nervi, Atrebati e Viromandui attaccarono di sorpresa l'esercito in marcia, e furono a fatica respinti da Cesare, che in questa circostanza si trovò in seria difficoltà. La miglior disciplina e la genialità del loro generale permisero ai Romani di reagire e far fronte comune all'attacco combinato dei nemici, che al termine della giornata furono sconfitti e massacrati (battaglia del fiume Sabis).[64]
Al termine della battaglia, Cesare decise di marciare contro gli Atuatuci, che si erano riuniti tutti in un'unica roccaforte la cui notevole fortificazione era aiutata dalla natura stessa dei luoghi.[65] Le legioni di Cesare in un primo tempo non impressionarono gli Atuatuci che, come tutti i galli, disprezzavano i soldati romani a causa della modesta statura e dell'apparente debolezza fisica in confronto con la vigoria dei loro corpi. Ben presto le cognizioni tecniche dei legionari romani e la loro capacità di costruire e muovere grandi macchine d'assedio per dare l'assalto alla roccaforte scossero il morale degli Atuatuci convinti che i loro nemici godessero dell'aiuto divino[66].
Cesare descrive l'assedio della città (probabilmente Namur):
«Avendo questa città tutto intorno altissime rupi [...] restava solo da una parte un accesso in leggera pendenza largo non più di 200 piedi [circa 65 metri]; in questo luogo gli Atuatuci avevano costruito un altissimo muro duplice e vi collocarono massi molto pesanti e travi appuntite [...] e appena l'esercito romano arrivò, gli Atuatuci fecero frequenti sortite dalla città e si scontavano in piccole battaglie con i nostri. Più oltre quando furono circonvallati da un bastione che girava intorno per 15.000 piedi [circa 4,5 km] e da numerosi fortini, rimasero dentro le mura della loro città. Quando videro che, avvicinate le vinee, innalzato il terrapieno, veniva costruita una torre d'assedio, al principio irridevano i Romani dalle loro mura, perché una macchina tanto grande fosse stata costruita così lontana [...] Ma quando videro che si muoveva e si avvicinava alle loro mura, cosa nuova ed insolita per loro, mandarono a Cesare ambasciatori a trattare la pace [...] Cesare disse loro che avrebbe salvato la loro nazione più per consuetudine che per merito, se si fossero arresi prima che l'ariete toccasse le loro mura, ma che dovevano consegnare le armi [...] gettata dalle mura una grande quantità di armi, tanto che le armi accatastate erano alte quanto la cima delle mura e del terrapieno, ma di una parte fu nascosta nella città la terza parte [...] e per quel giorno rimasero in pace [...] Al calare della notte Cesare ordinò ai suoi soldati di uscire dalla città perché di notte gli abitanti non ricevessero ingiustizie dai soldati. Gli Atuatuci, seguendo un piano precedentemente stabilito [...] fecero improvvisamente una sortita dopo la mezzanotte dalla città con tutte le truppe nel punto dove risulta più agevole la salita alle fortificazioni romane [...] ma segnalato il fatto rapidamente per mezzo di fuochi, come Cesare aveva in precedenza ordinato, le truppe romane accorsero dai castelli vicini. I nemici combatterono tanto valorosamente e duramente [...] contro i nostri che dal vallo e dalle torri tiravano i dardi [...] uccisi circa 4.000 nemici, gli altri furono ricacciati nella città. Il giorno seguente, forzate le porte [...] ed introdottisi i nostri soldati, Cesare mise in vendita tutto il bottino della città: [...] 53.000 persone.»
Al termine di queste operazioni, tutta la Gallia Belgica, comprese le terre di Nervi, Atuatuci, Viromandui, Atrebati ed Eburoni, era stata posta sotto il controllo romano. Nel frattempo, la legio VII, guidata da Publio Crasso, figlio del triumviro Marco Licinio Crasso, era stata inviata ad occidente per sottomettere le tribù delle regioni costiere dell'Oceano Atlantico, tra le odierne Normandia e Garonna.[67] Un altro legato, Galba, fu inviato con la legio XII e parte della cavalleria nelle terre dei Nantuati, dei Veragri e dei Seduni, che si trovano tra i territori degli Allobrogi, il lago Lemano, il fiume Rodano e le Alpi.[68] Cesare, una volta poste tutte le legioni nei quartieri d'inverno (tra i Carnuti, gli Andi, i Turoni ed i popoli dove aveva appena condotto la guerra), fece ritorno in Italia.[69]
Partito Cesare, il legato Galba, che aveva come compito quello di aprire la via delle Alpi tra la Gallia Comata e la Gallia Cisalpina, trovandosi a dover combattere contro un nemico nettamente superiore in numero, fu costretto ad abbandonare il vicus celtico di Octodurus, dove aveva posto i suoi accampamenti invernali, e a ritirarsi nel Paese amico degli Allobrogi.[70]
Ben presto i popoli della costa tornarono sul piede di guerra:
«il giovane Publio Crasso aveva acquartierato per l'inverno la settima legione nel paese degli Andi, ubicati nei pressi dell'oceano. Dato che in quella zona c'era poco frumento inviò presso i popoli confinanti molti prefetti e tribuni militari a cercare vettovaglie, tra cui Tito Terrasidio presso gli Esuvi, Marco Trebio Gallo presso i Coriosoliti, Quinto Velanio e Tito Silio presso i Veneti. Questa nazione è la più autorevole di tutta la costa di quelle regioni dato che possiedono molte navi con cui navigano in Britannia, che sono superiori alle altre tribù nella scienza e nella pratica della navigazione e infine che detengono i pochi porti disseminati in un ampio tratto di mare e sull'oceano aperto battuto dalle tempeste, percependo tributi dalla maggior parte di coloro che navigano in quel mare»
I Veneti decisero di trattenere i due ambasciatori inviati da Crasso, Silio e Velanio, pensando di poter così riavere gli ostaggi che avevano consegnato a Crasso. Il loro esempio fu seguito dai popoli confinanti, che trattennero Trebio e Terrasidio e poco dopo decisero di legarsi con reciproci giuramenti di alleanza e fedeltà contro il comune nemico romano. Alla fine tutti i territori costieri della Gallia occidentale si sollevarono. I Galli perciò inviarono a Crasso un ultimatum, pretendendo la restituzione degli ostaggi se voleva rivedere vivi i suoi ufficiali.[71]
Cesare, informato di quanto era accaduto, prevedendo un possibile ed imminente scontro navale con questo popolo di abili marinai, ordinò ai suoi uomini di costruire sulla Loira una flotta di navi da guerra, adatte anche ad affrontare il mare, e arruolò rematori e timonieri nella provincia. Frattanto i Veneti e i loro alleati, saputo dell'arrivo di Cesare e resisi conto di quanto fosse grave l'aver scatenato l'ira del generale romano, decisero di prepararsi alla guerra, soprattutto provvedendo agli armamenti delle navi. Confidavano molto nella conoscenza dei luoghi, a loro tanto familiari.
«I Veneti sapevano che le vie di terra erano interrotte dalle lagune, la navigazione era impedita per chi non conosceva i luoghi e dalla scarsità dei porti. Confidavano che il nostro esercito non potesse fermarsi troppo tempo tra questo popolo per la scarsità di grano [...] e poi essi avevano una grandissima forza navale, mentre i Romani non avevano nessuna nave e non conoscevano questi luoghi [...] i bassifondi, i porti e le isole [...] Fatti questi piani, fortificano le città, ammassano frumento nelle stesse, raccolgono il maggior numero possibile di navi nel Paese dei Veneti, dove sapevano che Cesare avrebbe iniziato la guerra. Si associarono come alleati a loro anche gli Osismi, i Lessovi, i Namneti, gli Ambiliati, i Morini, i Diablinti ed i Menapi, e chiamarono anche truppe dalla Britannia, che si trova di fronte a queste terre.»
Cesare, che era tornato in Gallia non prima della fine di aprile, si preoccupò di dispiegare il suo esercito d'occupazione prima che crescesse il numero delle nazioni partecipanti alla congiura contro Roma:
Le città dei Veneti erano poste sull'estremità di piccole penisole di terra e promontori, in posizione tale da essere inaccessibili sia per via di terra, quando le maree sollevavano il livello delle acque, sia per mare, poiché quando la marea scendeva le navi nemiche si incagliavano nei bassifondi.
Per questi motivi Cesare trovò grandi difficoltà nell'assediarle. Oltre a ciò Cesare racconta che:
«[...] le loro navi erano costruite e armate in questo modo: le carene erano alquanto più piatte che quelle delle navi romane, per poter più facilmente affrontare i bassifondi, ed il riflusso della marea [...] le prue e le poppe erano assai alte, adatte alla grandezza delle onde e delle tempeste. Le navi erano fatte di legno di quercia per resistere alla forza della natura [...] al posto delle vele, cuoio e pelli sottili [...] Con queste navi la flotta romana [...] era superiore solo nella velocità e nella forza dei remi, in tutte le altre caratteristiche erano superiori i Veneti [...] Le navi romane non potevano recare loro danno con il rostro, tanto era la loro solidità, e non era facile per l'altezza delle navi dei Veneti lanciarvi dei dardi e per lo stesso motivo non era facile ancorarle con gli arpioni [...].»
Cesare, dopo aver espugnato diverse città, si rese conto che non poteva né impedire ai nemici di fuggire, né nuocer loro maggiormente. Decise pertanto di attendere l'arrivo della flotta comandata da Decimo Bruto. Una volta giunta, i Romani ingaggiarono battaglia coi Veneti[73] e, avvalendosi di falci affilate inserite e fissate a pertiche, riuscirono a tagliare le sartie che legano le antenne agli alberi delle navi, togliendo così alle navi galliche la possibilità di manovrare le vele e determinandone il loro arresto, in balia della flotta romana. Il combattimento che ne conseguiva dipendeva dal valore dei soldati di entrambe le flotte, ed in questo campo Romani erano di molto superiori. A questa superiorità tattica dell'esercito romano si aggiunse improvvisamente una così grande bonaccia e calma, che le navi galliche non poterono più muoversi dalle loro posizioni.
Questa circostanza risultò fondamentale nel decidere le sorti della battaglia, e l'esito finale fu favorevole ai Romani, che piegarono così la resistenza dei Veneti e li costrinsero alla resa. Cesare decise di punirli duramente, con esecuzioni di massa e la riduzione in schiavitù dei superstiti, poiché non aveva dimenticato che non avevano rispettato il sacro diritto degli ambasciatori romani, avendoli poco prima sequestrati e ridotti in prigionia.[74]
Intanto Quinto Titurio Sabino sedò una rivolta delle tribù stanziate nella regione corrispondente all'attuale Normandia[75] capeggiata da Viridovice, mentre Crasso sottomise le tribù dell'Aquitania fino ai Pirenei, a cominciare dai Soziati di Adiatuano[76], dei Vocati e dei Tarusati, battuti in due successive battaglie. Oltre a queste, altre tribù si arresero per il solo timore di essere attaccate: i Tarbelli, i Bigerrioni, i Ptiani, gli Elusati, i Gati, gli Ausci, i Garonni, i Sibuzati ed i Cocosati.[77]
A fallire fu la sola spedizione contro i Menapi e i Morini della costa delle Fiandre, perché costoro, approfittando del territorio paludoso e boscoso, misero in atto una tattica di guerriglia contro la quale i Romani non poterono fare nulla. Dopo aver devastato le loro terre, il proconsole si ritirò negli accampamenti invernali presso i Lessovi, gli Aulerci e altre nazioni galliche che aveva appena combattuto.[78]
Spinte alle spalle dalla pressione dei Suebi, le tribù germaniche degli Usipeti e dei Tencteri avevano vagato per tre anni, e si erano spinti dai loro territori, a nord del fiume Meno, fino a raggiungere le regioni abitate dai Menapi alla foce del Reno. I Menapi possedevano, su entrambe le sponde del fiume, campi, casolari e villaggi; ma, spaventati dall'arrivo di una massa tanto grande (Cesare sostiene fossero ben 430.000 persone),[79] abbandonarono gli insediamenti al di là del fiume e posero alcuni presidi lungo il Reno, per impedire ai Germani di passare in Gallia.
Non riuscendo ad attraversare il fiume, Tencteri ed Usipeti simularono la ritirata; una notte, però, la loro cavalleria tornò all'improvviso e fece strage dei Menapi che erano tornati nei loro villaggi. Si impadronirono delle loro navi e passarono il fiume. Occuparono villaggi e si nutrirono per tutto l'inverno con le loro provviste.[80]
Venuto a conoscenza di questi fatti, Cesare decise di anticipare la sua partenza per la Gallia e raggiungere le sue legioni, che svernavano nei territori della Gallia Belgica.[81] Era venuto inoltre a sapere che alcune tribù galliche avevano invitato le tribù germaniche ad abbandonare i territori appena conquistati del basso Reno, per inoltrarsi in Gallia.
«Attratti da questa speranza, i Germani si spinsero più lontano con le loro scorrerie, fino ai territori degli Eburoni e dei Condrusi, che sono un popolo cliente dei Treviri [...] Cesare dopo aver blandito ed incoraggiato i capi della Gallia, ed avergli richiesto reparti di cavalleria alleata, stabilì di portare la guerra ai Germani [...] Cesare dopo aver provveduto a raccogliere frumento ed arruolati i cavalieri si diresse verso le regioni dove si diceva si trovassero i Germani.[82]»
I Germani, che si trovavano in una località non molto distante dall'attuale città di Nimega,[83] una volta venuti a conoscenza dell'avvicinamento dell'esercito romano decisero di inviare ambasciatori a Cesare, per chiedere al generale il permesso di insediarsi in quei territori ed offrendo in cambio la loro amicizia. Gli ricordarono il motivo per cui erano stati costretti a migrare ed il loro valore in battaglia, ma Cesare negò loro il permesso di occupare territori della Gallia: sostenne che non era giusto che i Germani si impadronissero delle terre di altri popoli; proprio loro, che non erano stati capaci di difendere i propri territori dalle scorrerie dei Suebi.
Cesare consigliò loro di ripassare il Reno e di occupare i territori del popolo amico degli Ubi;[84] Fu stabilita quindi una tregua da utilizzare per giungere a un compromesso con questo popolo, ma, durante la tregua, i Germani si scontrarono con uno squadrone di cavalleria gallo-romana, che fu messa in fuga. Cesare li accusò di non aver rispettato l'accordo e così, quando gli ambasciatori di Usipeti e Tencteri si recarono da lui per giustificarsi, li fece imprigionare, dopodiché, con una mossa fulminea, piombò sull'accampamento germanico difeso solo da carri e bagagli, massacrando i nemici e costringendoli alla fuga in direzione della confluenza del Reno con la Mosa (lungo il tratto chiamato Waal).[85]
Ottenuta una nuova vittoria sulle genti germaniche, Cesare decise di passare il Reno e di invadere la stessa Germania. La ragione principale che lo spinse a portare la guerra oltre il Reno fu l'intenzione di compiere un'azione dimostrativa e intimidatoria che scoraggiasse i propositi germanici di invadere in futuro la Gallia. Troppo spesso essi avevano fornito truppe mercenarie ai Galli e si erano intromessi nelle loro vicende interne. Gettato un lungo ponte di legno sul Reno (tra Coblenza e Bonn, lungo probabilmente 400 metri[86]), il proconsole passò prima nel territorio amico degli Ubi, poi deviò verso nord nel territorio dei Sigambri, dove per diciotto giorni compì devastazioni e saccheggi a rapidità incredibile. Terrorizzati a sufficienza i Germani, decise di far ritorno in Gallia, distruggendo il ponte alle proprie spalle e fissando il confine delle conquiste della Repubblica romana sul Reno.[87]
Nella tarda estate del 55 a.C. Cesare decise di invadere la Britannia, perché:
«[...] comprendeva che in quasi tutte le guerre galliche, i rinforzi erano giunti dall'isola ai nostri nemici; se non fosse bastata la buona stagione per condurre la guerra, tuttavia pensava che avrebbe tratto grande utilità anche da una semplice visita nell'isola, da un'esplorazione dei suoi abitanti e da una ricognizione dei luoghi, dei porti e degli accessi; tutte cose che erano quasi del tutto ignote ai Galli. Ad eccezione dei mercanti, nessuno infatti rischiava di recarsi là e anche la conoscenza che loro avevano dell'isola non andava oltre la costa e le regioni che si trovano di fronte alla Gallia.»
Per questi motivi, Cesare non fu in grado di ottenere dai mercanti sufficienti informazioni su quanti e quali popoli vi abitassero, quali tattiche di guerra utilizzassero, quali porti fossero idonei per l'attracco della sua flotta. Decise allora di mandarvi in avanscoperta Gaio Voluseno, con una nave da guerra, mentre nel frattempo si spostò nel territorio dei Morini, dove ordinò di radunare quella stessa flotta che aveva combattuto contro i Veneti nel 56 a.C., poiché da questa regione la traversata per la Britannia risulta più breve.
Mentre Cesare preparava la spedizione, alcuni mercanti informarono i Britanni circa le intenzioni del proconsole romano. Spaventati dalla possibile invasione romana, decisero di inviare ambasciatori a Cesare, promettendogli di consegnare ostaggi e di obbedire all'autorità di Roma. Cesare accolse le loro promesse e permise loro di ritornare in patria, mandando con loro Commio, da lui imposto sul trono degli Atrebati. Aveva il compito di visitare la Britannia, di esortare le sue popolazioni ad essere fedeli a Roma e di annunciare loro che presto si sarebbe recato in Britannia egli stesso.
Voluseno frattanto tornò con molte informazioni, mentre i Morini decidevano di sottomettersi a Cesare, scusandosi per il comportamento passato. Allo scopo di rendere più sicura la situazione in Gallia prima di partire, Cesare dispose che gli fossero consegnati un gran numero di ostaggi, e come li ebbe ricevuti, accettò la loro sottomissione.[88] Quindi salpò alla volta della Britannia, da Portus Itius (o Gesoriacum, l'attuale Boulogne-sur-Mer), con circa ottanta navi, sufficienti a trasportare due legioni (la VII e la X),[89] ma lasciando indietro la cavalleria (su altre diciotto imbarcazioni da carico), che avrebbe dovuto partire da un altro porto (forse Ambleteuse, distante otto miglia).
Avvicinatosi all'alta scogliera della zona di Dover si accorse che lì si era appostato il grosso dell'esercito nemico, che dall'alto osservava la flotta romana. Cesare ritenne impraticabile uno sbarco in quel punto e decise di riprendere il mare; giunse più tardi in un tratto di costa aperta e piana, che si trovava a circa sette miglia da Dover. Qui, ancora una volta, si trovò di fronte al nemico schierato. Infatti i Britanni avevano mandato avanti la cavalleria ed i combattenti sui carri per attendere Cesare in riva al mare, mentre il grosso dell'esercito li avrebbe raggiunti.
In questo luogo ebbe luogo un'importante battaglia, poiché l'esercito dei Britanni tentò di impedire l'approdo delle navi e il conseguente sbarco dei Romani.[90] Questi ultimi, dopo molte difficoltà, riuscirono (grazie anche alle potenti armi da getto dell'artiglieria pesante collocata sulle navi) a scendere a terra, dove i due eserciti si scontrarono. Dopo un duro combattimento, i Britanni furono messi in fuga, ma i vincitori non furono in grado di inseguirli, poiché mancava loro la cavalleria rimasta in Gallia.[91]
Le tribù britanniche, vinte in battaglia, si decisero a mandare ambasciatori per chiedere la pace. I messi condussero con loro Commio (che era stato fatto prigioniero e che liberarono dalle catene davanti a Cesare) e offrirono numerosi ostaggi. Quando però seppero che la cavalleria romana era stata ricacciata sulle coste belgiche dal cattivo tempo e che le maree oceaniche avevano danneggiato pesantemente le navi di Cesare, i Britanni decisero di riprendere le armi contro l'invasore romano e, dopo aver rinnovato a parole l'alleanza con Cesare, lasciarono furtivamente il campo del proconsole. Ma Cesare, che aveva intuito le intenzioni del nemico, predispose tutto il necessario per un eventuale attacco, compreso il reperimento del frumento necessario per rifornire l'esercito e la riparazione di più navi possibili (fece utilizzare, come "pezzi di ricambio", parti di quelle maggiormente danneggiate, ormai inutilizzabili per la traversata di ritorno).[92]
Durante queste operazioni fu inviata una sola legione, la VII, a raccogliere il grano necessario, non essendoci stato alcun sospetto di una ripresa ostilità da parte delle tribù indigene. La legione, però, una volta allontanatasi dal campo principale fu circondata ed attaccata da ogni parte. Cesare, accortosi dell'accaduto (anche da lontano si poteva scorgere un polverone maggiore del solito), prese con sé alcuni coorti della X legione e si mise in marcia a grande velocità. Riuscì a salvare la legione assediata, bersagliata da proiettili da ogni parte, ed a riportarla all'interno del campo base, dove era certo avrebbe dovuto sostenere l'ultimo e decisivo assalto nemico.[93]
Alla fine, i Britanni, dopo aver radunato una grande massa di fanti e di cavalieri, attaccarono: furono nuovamente sconfitti, subendo perdite ingenti. I Romani inseguirono il nemico finché le forze lo consentirono loro, incendiando in lungo ed in largo tutti i casolari della zona. La vittoria romana costrinse i Britanni a chiedere la pace, e questa volta Cesare, ottenuta la promessa di ricevere il doppio degli ostaggi, ripartì per la Gallia, dove, una volta sbarcate, le sue legioni furono però aggredite anche dai Morini, che speravano in un ricco bottino. I nemici furono respinti anche questa volta ed il proconsole inviò Tito Labieno a punire questo popolo, mentre Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta furono inviati a devastare le terre dei vicini Menapi.
Al termine delle operazioni, Cesare dislocò le legioni negli accampamenti invernali, questa volta tutti nella Gallia Belgica. Frattanto solo due nazioni inviarono gli ostaggi promessi dalla Britannia, mentre le altre vennero meno agli accordi. Ordinò, infine, ai suoi legati, prima di lasciare i quartieri d'inverno per recarsi in Italia, di provvedere durante l'inverno alla costruzione del maggior numero di navi possibile ed alla riparazione di quelle vecchie, disponendo che le nuove navi fossero più basse e più larghe di quelle che abitualmente erano usate nel mar Mediterraneo (così da reggere meglio le onde dell'oceano).[94] Una volta tornato a Roma, furono decretati venti giorni di festa in suo onore.[95]
Dopo aver posto fine in Illiria agli attacchi dei Pirusti, Cesare decise di far ritorno in Gallia,[96] dove volle ispezionare tutti i quartieri d'inverno e le numerose navi che erano state fino a quel momento costruite: ben seicento, che decise di radunare presso Portus Itius. Venuto a sapere che tra i Treveri serpeggiava una voglia di rivolta - non solo non partecipavano più alle riunioni comuni dei Galli, ma avevano mantenuto dei buoni rapporti con i Germani d'oltre Reno -, decise di muovere verso di loro con quattro legioni ed ottocento cavalieri.
Raggiunti i Treveri, richiese a Induziomaro, uno dei due uomini più influenti di questo popolo e favorevole alla cacciata dei Romani dalla Gallia, numerosi ostaggi tra i suoi famigliari, mentre a Cingetorige, che si era dimostrato fedele ed amico del popolo romano, affidò il comando su questa nazione. A questi eventi si aggiunse la morte dell'eduo Dumnorige, il quale, dopo aver terrorizzato i nobili della Gallia sostenendo che Cesare li avrebbe trucidati una volta sbarcati in Britannia, fu messo a morte per evitare possibili sentimenti di rivolta tra i Galli.[97]
Cesare, lasciato in Gallia Tito Labieno con tre legioni e duemila cavalieri a guardia dei porti, a provvedere al vettovagliamento ed a controllarne la situazione, salpò per la seconda volta da Portus Itius alla volta della Britannia[98] con una forza militare più consistente di quella dell'anno precedente: cinque legioni e duemila cavalieri a bordo di oltre ottocento navi. Al suo seguito si aggiunsero anche numerosi mercanti attratti dai racconti sulle favolose ricchezze dell'isola.[99]
Sbarcato nello stesso luogo dell'anno precedente senza trovare nessuna opposizione, Cesare, lasciate a guardia della flotta dieci coorti e trecento cavalieri sotto il comando di Quinto Atrio, marciò verso l'interno dove, a circa diciotto miglia dal campo base, trovò la prima vera opposizione dei Britanni, i quali furono sconfitti sebbene si fossero attestati in una posizione favorevole.[100] La mattina seguente giunsero presso il campo del generale romano alcuni cavalieri inviati da Quinto Atrio per informarlo che la notte precedente una tempesta aveva danneggiato la maggior parte delle navi.[101] Il proconsole romano si recò quindi a constatare di persona i danni e a predisporre il necessario per far riparare le navi. Tornato presso le legioni, scoprì che nel frattempo si era radunato nei pressi del campo romano un imponente esercito nemico guidato da Cassivellauno (che regnava sulle genti a nord del Tamigi).[102] L'attacco dei Britanni che ne seguì è così descritto dallo stesso Cesare:
«Cesare inviò in loro aiuto due coorti e scelse due legioni che presero posizione [...] ma i nemici con grande coraggio, mentre i Romani erano atterriti dal nuovo modo di combattere, riuscirono a sfondare passando nel mezzo, riuscendo a mettersi in salvo. In questo giorno cadde ucciso il tribuno militare Quinto Laberio Duro, ed i Britanni furono respinti con l'invio di numerose coorti [...] osservando il combattimento, Cesare comprese che i Romani non potevano inseguire gli avversari quando si ritiravano per la pesantezza delle armi [...] allo stesso modo i cavalieri combattevano con grande pericolo, poiché i Britanni di proposito si ritiravano e quando li avevano allontanati un po' dalle legioni, scendevano dai carri ed a piedi li attaccavano in modo diseguale [...] in questo modo il pericolo risultava identico per chi inseguiva e chi si ritirava, inoltre i Britanni non combattevano mai riuniti ma in ordine sparso [...] in modo che potessero coprirsi la ritirata e soldati freschi sostituire quelli stanchi.»
Il giorno seguente i Britanni, che sembravano essersi ritirati lontano dal campo romano, decisero di tornare ad attaccare le tre legioni e la cavalleria che erano state inviate a fare provviste. Ed anche in questa circostanza la miglior disciplina dell'esercito romano prevalse sulle genti della Britannia, con i Romani che riuscirono a respingere i nemici, infliggendo loro numerose perdite. Cesare, deciso a passare al contrattacco, condusse la sua armata fino ai domini di Cassivellauno. Attraversato il Tamigi attaccò il nemico, che si era appostato sulla riva settentrionale, in modo così improvviso che i Britanni furono costretti alla fuga. Proseguì le operazioni fino alla conquista di un oppidum nemico più a nord.[103]
L'ultimo tentativo di Cassivellauno di attaccare il campo navale e le forze romane lasciate a presidio della costa si rivelò anch'esso un totale fallimento, tanto che il re britanno fu costretto a intavolare trattative di pace con Cesare, attraverso la mediazione dell'atrebate Commio. I Britanni furono costretti a sottomettersi, a pagare un tributo annuale ed a consegnare ostaggi al proconsole romano in segno di resa, mentre allo stesso Cassivellauno fu vietato di recare ulteriore danno a Mandubracio e ai Trinovanti che avevano chiesto protezione contro di lui a Cesare.[104]
Il generale romano fece ritorno in Gallia, dove, dopo aver assistito all'assemblea dei Galli a Samarobriva (forse l'odierna Amiens), mandò le legioni nei quartieri d'inverno.[105] Benché non avesse ottenuto alcuna nuova conquista territoriale in Britannia, era riuscito nell'intento di terrorizzare quelle genti, limitandosi a creare tutta una serie di clientele che avrebbero portato questa regione nella sfera d'influenza di Roma, oltre ovviamente ad essere stato il primo romano a coprirsi di gloria per aver attraversato con le sue legioni il Mare del Nord.[106] Da qui scaturirono quei rapporti commerciali e diplomatici che apriranno la strada alla conquista romana della Britannia nel 43.[107].
Ricevuti gli ostaggi britanni, Cesare ritornò in Gallia dove, dopo aver assistito all'assemblea dei Galli a Samarobriva, mandò le legioni nei quartieri d'inverno. Una legione affidata al legato Gaio Fabio fu inviata tra i Morini (presso l'attuale cittadina di Saint-Pol-sur-Ternoise); un'altra, assegnata a Quinto Cicerone, si posizionò tra i Nervi (presso Namur); una terza (Lucio Roscio) fu inviata tra gli Esuvi (presso Nagel-Séez-Mesnil, nell'Alta Normandia); una quarta (Tito Labieno) tra i Remi, al confine con i Treveri (probabilmente in località Lavacherie, a circa sedici chilometri a nord-ovest di Bastogne); tre legioni andarono tra i Belgi, sotto il comando del questore Marco Crasso (nella zona di Beauvais) e dei legati Lucio Munazio Planco (presso Lutezia) e Gaio Trebonio (presso Samarobriva); e una legione (appena arruolata nella Gallia Cisalpina) con cinque coorti, affidate a Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta, raggiunsero le terre degli Eburoni (non molto distante da Atuatuca). Cesare stesso, invece, avrebbe fatto ritorno in Italia, non appena avesse saputo che ogni legione aveva preso posizione nel luogo assegnato.[108]
In Gallia, però, si respirava aria di rivolta e tutto il Paese era in fermento. I primi segnali si ebbero già a partire dall'autunno di quell'anno, quando i Carnuti (stanziati nella zona di Chartres e Orléans) uccisero il re filo-romano Tasgezio, che Cesare aveva posto sul trono apprezzandone il valore, la discendenza e la devozione. Quando lo seppe, il proconsole, temendo una sollevazione generale del popolo dei Carnuti, decise di inviare Lucio Munazio Planco con la sua legione a svernare in quella regione. Nel frattempo venne a sapere che tutte le altre legioni erano giunte nei quartieri invernali e che le fortificazioni erano state completate.[109]
Quindici giorni dopo che le legioni si erano acquartierate nei loro rispettivi hiberna, scoppiò improvvisamente una rivolta tra gli Eburoni (regione delle Ardenne) guidata da Ambiorige e Catuvolco. Le truppe romane furono attaccate mentre erano intente a far provvista di legna fuori dal campo base, e l'accampamento romano di Sabino e Cotta, che si trovava con ogni probabilità presso Atuatuca, fu completamente circondato:
«[...] si trattava di un disegno comune di tutta la Gallia, quello era il giorno fissato per un attacco da parte dei Galli a tutti i quartieri invernali di Cesare, perché nessuna legione potesse prestare aiuto alle altre.»
Ambiorige decise di cambiare tattica. Avendo considerato che il campo romano era difficilmente attaccabile e che comunque sarebbe caduto solo a prezzo di ingenti perdite tra i suoi, riuscì a convincere con l'inganno i Romani ad uscire dall'accampamento. Suggerì loro di ricongiungersi con le legioni più vicine (quelle di Labieno o di Cicerone), che distavano una cinquantina di miglia, assicurando che non avrebbe interferito nella marcia. Dopo un acceso dibattito tra i due comandanti romani, alla fine prevalse l'ipotesi (sostenuta da Quinto Titurio Sabino) di abbandonare il campo con grande rapidità, poiché erano state segnalate orde di Germani in avvicinamento. Ma quando le truppe si trovarono allo scoperto, al centro di una vallata boscosa,[110] l'esercito degli Eburoni le attaccò in massa e massacrò quasi completamente una legione,[111] cinque coorti romane ed i loro comandanti (Sabino e Cotta). Solo pochi superstiti riuscirono a raggiungere il campo di Labieno ed avvertirlo dell'accaduto.[112]
Dopo questa vittoria, Ambiorige riuscì ad ottenere l'appoggio degli Atuatuci, dei Nervi e di numerosi popoli minori come i Ceutroni, i Grudi, i Levaci, i Pleumossi ed i Geidunni, per assediare il campo di Quinto Cicerone e della sua legione (attestati presso l'oppidum di Namur). L'assedio durò un paio di settimane, fino all'arrivo dello stesso Cesare: il generale era stato informato dal suo legato grazie ad uno stratagemma cui questi aveva fatto ricorso durante uno dei numerosi attacchi subiti da parte del nemico. Infatti c'era un fedele e nobile gallo della tribù dei Nervi di nome Verticone, che aveva cercato presso di Cicerone rifugio fin dal principio dell'assedio e gli aveva dimostrato grande lealtà. Verticone, con grandi premi, convinse un suo schiavo a portare lettera di Cicerone a Cesare. E questo schiavo riuscendo ad allontanarsi senza destare sospetto, poiché celta tra i Celti, si recò da Cesare e consegnò la lettera a lui.
Nel corso di questo assedio, particolarmente difficile per la legione romana, i Galli riuscirono a mettere in atto tecniche e strumenti di assedio simili a quelle dei Romani, dai quali le avevano ormai in parte appresi (anche grazie ai prigionieri romani ed ai disertori). Anche questa volta Ambiorige tentò di convincere il legato ad abbandonare il campo, promettendogli di proteggere la sua ritirata. Ma Quinto Cicerone, a differenza di Sabino, non cadde nel tranello del capo degli Eburoni, pur non sapendo che poco prima ben una legione e cinque coorti erano state massacrate, e riuscì a resistere, tra enormi sforzi e numerose perdite umane, fino all'arrivo di Cesare.[113]
Il proconsole, ricevuta la lettera da parte di Cicerone, marciò da Samarobriva con grande rapidità a capo di due legioni che era riuscito a reperire dopo essersi ricongiunto con Gaio Fabio e Marco Crasso. Giunto in prossimità di Cicerone, questi lo informò che la grande massa di assedianti (circa sessantamila Galli) si stava dirigendo contro lo stesso Cesare. Il proconsole, costruito un campo con grande rapidità, non solo riuscì a battere gli aggressori ed a metterli in fuga, ma anche a liberare definitivamente Cicerone dall'assedio, elogiandolo pubblicamente, insieme alla sua legione, di fronte all'esercito schierato. In seguito a questi eventi Cesare decise di svernare con le sue truppe in Gallia, disponendo che tre legioni rimanessero con lui presso Samarobriva, suo quartier generale.[114]
Cesare, dopo aver convocato presso di sé i capi di buona parte della Gallia, venne a sapere di una nuova ribellione da parte dei Senoni. La tribù era riuscita, dichiarandogli apertamente guerra, a convincere molte genti ad unirsi ad essa (tra cui i vicini Carnuti); soltanto Edui e Remi sarebbero rimasti fedeli a Roma. Oltre a ciò, prima che terminasse l'inverno, il legato Tito Labieno fu nuovamente attaccato dai Treveri, guidati da Induziomaro.[115] Fortuna e abilità consentirono tuttavia al legato di battere un nemico nettamente più numeroso e di ucciderne il capo.
«Tito Labieno, che non usciva dal campo, che era ben difeso sia dalla natura del luogo sia dalle fortificazioni romane, si preoccupava che non gli sfuggisse un'azione di valore [...] egli trattenne i suoi dentro l'accampamento, cercando di dare l'impressione che i Romani avessero paura e poiché Induziomaro si avvicinava al campo romano ogni giorno con crescente disprezzo, Labieno fece entrare numerosi cavalieri alleati di notte nel campo [...] frattanto, come faceva tutti i giorni, avvicinatosi al campo Induziomaro [...] i cavalieri galli scagliarono dardi sui Romani provocandoli a combattere [...] dai Romani non giunse nessuna risposta [...] al nemico gallo quando parve il momento di allontanarsi al calar della sera [...] velocemente Labieno ordina ai suoi di far uscire dalle due porte del campo tutti i suoi cavalieri, ed ordina che una volta terrorizzati e messi in fuga i nemici cerchino Induziomaro e [...] di ucciderlo, non badando ad altri, promettendo grandi ricompense [...] la fortuna confermò i suoi piani e [...] Induziomaro viene preso mentre sta guadando il fiume ed ucciso, e la sua testa viene portata al campo romano [...]»
Cesare, in seguito agli eventi di quest'ultimo inverno, si era definitivamente convinto che l'anno successivo avrebbe dovuto riprendere l'iniziativa e condurre una campagna punitiva nel nord della Gallia, per evitare una sollevazione generale.[116]
Con l'inizio del nuovo anno, il proconsole decise di arruolare due nuove legioni, per compensare la perdita della legio XIIII, oltre a chiedere una legione a Gneo Pompeo; questi acconsentì, per il bene della Repubblica romana e l'amicizia nei confronti di Cesare, che poté così portare il numero delle proprie legioni a dieci.[117]
Con la morte di Induziomaro, i suoi parenti, mossi ancor di più dal rancore nei confronti del proconsole della Gallia, decisero non solo di cercare alleati tra i Germani d'oltre Reno (con i quali scambiarono ostaggi e garanzie reciproche), ma anche tra gli Eburoni di Ambiorige, i Nervi e gli Atuatuci. Contemporaneamente, sul fronte occidentale, i Senoni ed i Carnuti si erano rifiutati di obbedire alla convocazione di Cesare dell'assemblea della Gallia e si accordarono con le popolazioni limitrofe per ribellarsi al potere romano.
Venuto a conoscenza di questi fatti, il generale romano decise di condurre quattro legioni nel territorio dei Nervi, con mossa fulminea. Giunto nei loro territori, dopo aver catturato una grande quantità di bestiame e di uomini (preda che lasciò ai suoi soldati), oltre ad aver devastato i loro campi di grano, costrinse i Galli (sorpresi dalla rapidità con cui era stata condotta l'azione) alla resa ed alla consegna di ostaggi. In seguito si diresse ad occidente, contro Carnuti e Senoni, ottenendone anche in questa circostanza la resa senza colpo ferire. Essi vennero a lui, infatti, supplici e ne ottennero il perdono grazie all'intercessione di Edui e Remi. Solo il principe dei Senoni Accone, che li aveva sobillati, fu condotto in catene davanti a Cesare e poco dopo decapitato, quale monito per tutta la Gallia[118]
Pacificata questa parte della Gallia, Cesare aprì le ostilità contro i Treveri, gli Eburoni di Ambiorige ed i loro alleati. Per prima cosa credette di dover attaccare gli alleati del principe eburone prima di provocarlo a guerra aperta, evitando così che, persa la speranza di salvarsi, potesse nascondersi tra il popolo dei Menapi o al di là del Reno, tra i Germani. Una volta stabilito questo piano, il proconsole romano spedì tutti i suoi carriaggi, accompagnati da due legioni, nel Paese dei Treveri, al campo base di Tito Labieno, dove lo stesso aveva svernato con un'altra legione. Egli stesso con cinque legioni, senza bagagli, si mise in marcia alla volta dei Menapi, i quali, grazie alla conformazione del terreno, decisero di non radunare l'esercito, ma di rifugiarsi nelle fitte foreste e paludi con i loro beni più preziosi, poiché sapevano che avrebbero avuto la peggio in uno scontro aperto con il generale romano.
La reazione di Cesare fu quella di dividere il suo esercito in tre colonne parallele: una guidata dal luogotenente Gaio Fabio, una dal questore Marco Crasso e la terza, presumibilmente quella centrale, sotto la sua guida. Le operazioni cominciarono con la devastazione dei territori del nemico in ogni direzione; molti villaggi furono incendiati, mentre una grande parte del bestiame dei Galli fu razziata, e molti dei loro uomini furono fatti prigionieri. Alla fine anche i Menapi inviarono a Cesare ambasciatori per chiedere la pace. Il proconsole acconsentì a condizione di ricevere un adeguato numero di ostaggi ed a fronte della promessa di non dare asilo ad Ambiorige o ai suoi sostenitori. Portata a termine anche questa operazione, Cesare lasciò sul posto l'atrebate Commio con la cavalleria, affinché mantenesse l'ordine, e si diresse verso il territorio dei Treveri.[119]
Nel frattempo Labieno, una volta lasciati tutti i carriaggi all'interno del forte romano in compagnia di cinque coorti, mosse con grande rapidità incontro ai Treveri, con le restanti 25 coorti e la cavalleria, prevenendone un loro attacco. La battaglia che ne derivò avvenne nei pressi di un fiume, identificabile con il Semois, a circa quattordici miglia ad est della Mosa. Labieno ricorse a uno stratagemma: fece credere al nemico di essere stato terrorizzato dal suo gran numero e di aver deciso di far ritorno al campo base, ma quando i Treveri, passato il fiume in massa, si misero all'inseguimento dell'esercito romano, che credevano essere in fuga, trovarono al contrario un'armata schierata che li stava aspettando. La battaglia fu favorevole ai Romani, i quali non solo riuscirono ad ottenere la resa di questo popolo e la fuga dei parenti di Induziomaro, ma trasferirono il potere nelle mani di Cingetorige, da sempre principe filo-romano.[120]
Venuto a sapere del nuovo successo ottenuto dal suo legato sui Treveri, Cesare decise di passare per la seconda volta il Reno, costruendovi un secondo ponte con la stessa tecnica del primo. I motivi che lo spinsero a prendere questa decisione erano due: non solo i Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro i Romani, ma Cesare temeva anche che Ambiorige potesse trovarvi rifugio, una volta sconfitto.
«Stabilito ciò, decise di costruire un ponte un poco più a monte del luogo dove aveva attraversato il fiume la volta precedente[121] [...] dopo aver lasciato un forte presidio a capo del ponte nel territorio dei Treveri, per impedire che si sollevassero di nuovo [...] portò sulla sponda germanica le altre legioni e la cavalleria. Gli Ubi, che in passato avevano consegnato ostaggi e riconosciuto l'autorità romana, per allontanare da loro possibili sospetti, mandarono a Cesare degli ambasciatori [...] non avevano infatti né inviato aiuti ai Treveri, né avevano violato i patti [...] Cesare scoprì infatti che gli aiuti erano stati inviati dai Suebi [...] Accetta pertanto le spiegazioni degli Ubi e si informa sulle vie da seguire per giungere nel paese dei Suebi.»
Ma i Suebi, che ormai conoscevano le gesta militari del generale romano, decisero di ritirarsi nell'interno ed aspettare, in luoghi remoti e difesi dalle insidie delle fitte foreste e delle pericolose paludi, il possibile arrivo di Cesare.[122] Il generale, tenendo conto del suo obiettivo principale (la sottomissione della Gallia) e considerando anche la difficoltà degli approvvigionamenti di frumento in un territorio tanto selvaggio, decise di tornare indietro.
«Cesare per lasciare ai barbari il timore di un suo ritorno [...] una volta ricondotto l'esercito in Gallia, fece tagliare l'ultima parte del ponte per una lunghezza di circa 200 piedi, ed all'estremità fece costruire una torre di quattro piani, oltre ad una fortificazione imponente munita di ben 12 coorti, assegnando il comando al giovane Gaio Vulcacio Tullo.»
Per Cesare era a quel punto opportuno rivolgere l'intera armata contro Ambiorige ed il popolo degli Eburoni. Una volta attraversata la foresta delle Ardenne, mandò a precederlo con l'intera cavalleria Lucio Minucio Basilo, con l'ordine di sfruttare la rapidità della marcia e di sorprendere il nemico. Ambiorige riuscì per poco a sfuggire alla cattura romana: Lucio Minucio Basilo era riuscito ad individuarne il nascondiglio, ma Ambiorige, protetto dai suoi, riuscì a volgere in fuga nei fitti boschi che circondavano il luogo. Il panico per l'avanzata romana portò l'intero popolo degli Eburoni a cercare rifugio nelle foreste, nelle paludi e nelle isole, mentre Catuvolco, re della metà degli Eburoni, data l'età ormai avanzata e disperando ormai di potersi salvare, decise di suicidarsi, dopo aver maledetto Ambiorige per averlo coinvolto nella rivolta.[123]
Il terrore si diffuse anche tra le popolazioni limitrofe, tanto che sia i Segni, sia i Condrusi, popoli che vivevano tra i Treviri e gli Eburoni, inviarono a Cesare ambasciatori per pregarlo di considerarli amici del popolo romano, pur appartenendo alla stirpe dei Germani. Cesare, per provarne l'autenticità dei sentimenti, ordinò che gli fossero consegnati tutti gli Eburoni rifugiati presso di loro; in cambio, assicurava che non avrebbe invaso e devastato i loro territori. Segni e Condrusi si piegarono.
Isolato così Ambiorige, raggiunse l'oppidum di Atuatuca, dove lasciò i carriaggi carichi di bottino, duecento cavalieri ed una legione (la legio XIIII, appena riformata) a loro protezione, affidandoli al giovane legato Quinto Tullio Cicerone. Con le restanti nove legioni, divise in tre colonne parallele (formate ciascuna da tre legioni), delegò a Tito Labieno il compito di controllare i Menapi fino all'oceano, a Gaio Trebonio quello di devastare i territori contigui al paese degli Atuatuci. Il comandante in capo raggiunse invece la confluenza tra il fiume Schelda e la Mosa, dove gli era stato riferito che Ambiorige si era diretto con pochi cavalieri. Dispose infine che le colonne avrebbero dovuto riunirsi tutte sette giorni dopo, ancora ad Atuatuca.[124]
Cesare aveva in mente non solo di catturare il capo degli Eburoni, ma anche di sterminarli tutti, vendetta per le quindici sue coorti massacrate a tradimento nel corso dell'inverno precedente. La difficoltà del generale romano era riuscire a scovarli, poiché l'essersi dispersi e rifugiati ovunque nelle foreste e nelle paludi offriva loro qualche speranza di difesa o salvezza. Il proconsole romano inviò ambasciatori a tutte le genti della regione affinché, con la promessa di un ricco bottino, fossero gli stessi Galli a rischiare la vita in quei luoghi angusti (e non i suoi legionari) ed a cancellare completamente il popolo degli Eburoni.
Il massacro ebbe inizio poco dopo, poiché una grande moltitudine di Galli si radunò rapidamente nei loro territori. Parteciparono alle operazioni anche i Germani Sigambri che, una volta attraversato il Reno con duemila cavalieri, entrarono nel territorio degli Eburoni e si impadronirono di una grande quantità di bestiame. Informati però che presso Atuatuca solo un'esigua guarnigione era stata lasciata a guardia dell'enorme bottino fatto da Cesare nel corso di quegli anni, decisero di recarsi con grande velocità in questa località per impadronirsene prima del ritorno del proconsole.[125]
Cicerone, il legato rimasto a guardia di Atuatuca, dopo aver atteso il ritorno di Cesare per sette giorni e non vedendolo tornare, decise di inviare cinque coorti a mietere frumento. Ma proprio quel giorno i legionari romani, intenti a fare raccolto, furono intercettati dalla cavalleria dei Sigambri. Nello scontro che ne seguì, nel tentativo di riguadagnare il forte romano, due delle cinque coorti furono massacrate. Gli assalti che si susseguirono al castrum romano furono drammatici; perfino i feriti romani furono costretti ad imbracciare le armi e a partecipare alla difesa disperata, che riuscì a respingere l'assalto nemico. Alla fine i Germani, persa la speranza di espugnare il forte e forse venuti a conoscenza dell'imminente ritorno del proconsole, si ritirarono oltre il Reno.[126]
Alla fine dell'estate Cesare era riuscito a devastare interamente il Paese degli Eburoni:
«Tutti i villaggi e le fattorie [...] venivano incendiati, il bestiame ucciso, ovunque si saccheggiava, il frumento era consumato dalla moltitudine dei cavalli e degli uomini è [...] cosicché anche una volta allontanatosi l'esercito invasore, chiunque (tra gli Eburoni), anche se fosse riuscito a nascondersi, non avrebbe potuto evitare di morire per la carestia. [...] ed intanto Ambiorige riusciva a fuggire per nascondigli e boschi con la protezione della notte e si trasferiva in altre regioni, sotto la scorta di quattro cavalieri ai quali soltanto affidava la sua vita.»
Con la fine dell'estate Cesare ricondusse l'esercito a Durocortorum, tra i Remi. Qui convocò un'assemblea affinché conducesse un'inchiesta sulla congiura promossa da Senoni e Carnuti. Dopo la conclusione delle indagini, fece prima flagellare e poi decapitare il capo ribelle, Accone, quale monito per tutti i Galli. Sciolta l'assemblea e provveduto al frumento necessario per l'inverno, collocò due legioni al confine con i Treveri, due nel Paese dei Lingoni e le sei restanti ad Agendico, tra i Senoni, prima di far ritorno in Italia come sua abitudine.[127]
L'ultimo atto delle guerre galliche fu rappresentato dalla rivolta scoppiata nel 52 a.C. e guidata dal re degli Arverni, Vercingetorige, attorno al quale si strinsero i popoli della Gallia centrale, a eccezione dei Lingoni e dei Remi. Anche gli Edui, da sempre alleati dei Romani, si schierarono contro Cesare, che si trovò così ad affrontare un nemico temibile sia per la consistenza numerica del suo esercito, sia per la disciplina che Vercingetorige seppe impartirgli (anche grazie al fatto di aver servito, per un certo periodo, nella cavalleria alleata di Roma).
Cesare, che ancora si trovava nella Gallia Cisalpina (a Ravenna[128]) per arruolare nuovi legionari da portare con lui in Gallia per completare le file delle legioni decimate dalla guerra dell'ultimo anno, venne a sapere di nuove agitazioni tra i Galli. I principi delle tribù si erano, infatti, accordati durante l'inverno per mettere in atto un piano che prima di tutto impedisse al proconsole di ricongiungersi al suo esercito, ed in secondo luogo per attuare la tattica dell'anno precedente, attaccando separatamente tutti i campi base delle legioni romane. I Galli, infine, sostenevano che:
«Era molto meglio cadere in battaglia piuttosto che rinunciare all'antica gloria militare ed alla libertà che avevano ricevuto dagli avi.»
Furono i Carnuti a dare il via alla rivolta, guidati da Cotuato e Conconnetodunno («due scellerati», nelle parole di Cesare). Essi si radunarono a Cenabo e qui uccisero tutti i cittadini romani che vi dimoravano, esercitando il commercio in quelle regioni. Rapidamente la notizia giunse in ogni angolo della Gallia, compreso il Paese degli Arverni dove Vercingetorige, figlio del nobile Celtillo (un tempo principe di questo popolo), sebbene ancora giovane, infiammò gli animi di una parte della popolazione. Ma se in un primo momento alcuni capi di questa tribù si opposero al suo desiderio di muovere guerra ai Romani e lo cacciarono da Gergovia, capitale degli Arverni, Vercingetorige, non rinunciando a questa sua idea, arruolò nelle campagne circostanti un numero di armati sufficienti a rovesciare il potere nella sua tribù ed a farsi proclamare re.
La mossa successiva fu quella di inviare messi a tutte le popolazioni limitrofe, per trovare nuovi alleati per il tentativo di liberare definitivamente la Gallia dal giogo romano. In breve tempo riuscì a legare a sé Senoni, Parisi, Pictoni, Cadurci, Turoni, Aulerci, Lemovici, Andi e tutte le tribù che abitavano la costa atlantica.[129]
«[...] a Vercingetorige, all'unanimità viene affidato il comando supremo. Ricevuto questo potere comanda a tutte le tribù di inviargli ostaggi [...] ed un determinato numero di soldati, stabilisce la quantità di armi che ciascun popolo deve produrre entro una data certa, e si occupa soprattutto della cavalleria. A questo suo zelo affianca una grande severità nell'esercitare il potere [...]»
Riunito rapidamente un esercito, Vercingetorige decise di inviare il cadurco Lucterio nel Paese dei Ruteni con una parte delle truppe, mentre egli stesso si diresse nel territorio dei Biturigi. I vicini Edui, di cui i Biturigi erano popolo cliente, dopo aver inviato in soccorso al popolo alleato alcuni reparti di cavalleria e fanteria preferirono non passare il fiume Loira per paura di essere traditi, sospettando fossero divenuti ora alleati degli Arverni, come del resto sarebbe accaduto da lì a poco.
Nel frattempo Cesare, venuto a conoscenza dei piani di Vercingetorige e delle nuove alleanze che Lucterio era riuscito ad ottenere con Ruteni, Nitiobrogi e Gabali, si affrettò a raggiungere la Gallia Narbonense. Giunto nella provincia, dispose presidi armati tra i Ruteni stessi, i Volci Arecomici, i Tolosati e nei dintorni della capitale, Narbona (tutti luoghi che confinavano con i territori del nemico). Ordinò, infine, che la parte rimanente delle truppe di stanza nella provincia, unitamente alle coorti dei complementi che aveva arruolato durante l'inverno in Italia e condotto con sé, fossero riuniti nel Paese degli Elvi, che confinavano con gli Arverni.[130]
Lucterio, venuto a conoscenza delle mosse del proconsole romano, decise di ritirarsi, mentre Cesare, al contrario, passò al contrattacco attraversando la catena delle Cevenne, dove i passi, in quel periodo dell'anno, erano ricoperti da uno strato altissimo di neve:
«[Cesare], sgombrata la neve, che era alta sei piedi, ed aperta la via, grazie alle grandi fatiche dei legionari, riuscì a raggiungere il Paese degli Arverni. Questi furono colti di sorpresa, poiché credevano di essere difesi dai monti Cevenne, come fossero delle barriere naturali e che nessuno mai in quella stagione avrebbe potuto passare per quelle vie. Cesare così diede ordine che la cavalleria facesse scorrerie per lo spazio più ampio possibile, al fine di provocare nel nemico il massimo del terrore.»
A questa notizia Vercingetorige fu costretto a rientrare dal Paese dei Biturigi ed a far ritorno in quello degli Arverni. Cesare, che aveva previsto questa mossa, dopo soli due giorni lasciò al comando delle truppe provinciali Decimo Giunio Bruto Albino e si recò a marce forzate, via Vienne lungo il Rodano, nel Paese dei Lingoni dove svernavano due legioni.
«[Cesare] giunto colà invia messaggeri alle altre legioni e le riunisce in un solo luogo [probabilmente ad Agendicum, dove si trovava il grosso dell'esercito], prima che gli Arverni sappiano del suo arrivo. Conosciuta la cosa Vercingetorige conduce nuovamente l'esercito nel Paese dei Biturigi, e da lì muove verso l'oppidum di Gorgobina, città dei Boi.»
Radunato l'esercito, Cesare invitò gli Edui a fornirgli le necessarie vettovaglie per la nuova campagna. Una volta avvertiti i Boi che presto li avrebbe raggiunti, affinché resistessero all'assedio di Vercingetorige, si mise in marcia a capo di otto legioni, mentre le rimanenti due le lasciò ad Agendicum con l'intero bagaglio. Lungo il percorso pose sotto assedio ed occupò, una ad una, le città di Vellaunodunum (dei Senoni[131]), di Cenabum (capitale dei Carnuti) e di Noviodunum dei Biturigi - l'odierna Nouan-le-Fuzelier[132]).
Quando Vercingetorige venne a conoscenza dell'arrivo di Cesare, tolse l'assedio da Gorgobina e si mise in marcia per affrontarlo. Il proconsole romano, frattanto, dopo aver fatto bottino nelle tre città appena conquistate, mosse verso la città più grande dei Biturigi: Avaricum. Cesare confidava che, qualora fosse riuscito a conquistare una fra le città meglio fortificate e più ricche dell'intera Gallia, questo successo gli avrebbe garantito la piena sottomissione dell'intero popolo dei Biturigi.[133]
La città fu posta sotto assedio dai Romani con opere di imponente ingegneria militare. Dopo 27 giorni di estenuante assedio anche l'oppidum dei Biturigi capitolò. Vercingetorige, benché avesse un esercito più numeroso di quello di Cesare, si sottrasse allo scontro in campo aperto. La sua strategia (una guerriglia continua e di blocco dei rifornimenti ai Romani, mentre questi erano impegnati nell'assedio) non ebbe però successo: non solo perse l'occasione per impegnare il nemico in un territorio a lui favorevole, ma assistette al massacro finale dell'intera popolazione, una volta conquistata la città dai Romani. Quarantamila abitanti furono massacrati e se ne salvarono solo ottocento. Questa dura repressione rese però ancor più determinati i ribelli ed estese l'alleanza anticesariana a nuove nazioni della Gallia. Vercingetorige era riuscito, infatti, a coalizzarne di nuove ed a chiedere a ciascuna di loro un determinato numero di armati, tra cui numerosi arcieri:[134]
«Vercingetorige stava per unire alle nazioni [già in guerra contro i Romani] quelle che fino ad allora non avevano aderito. Egli avrebbe così creato una sola volontà di tutta la Gallia, e ad una tale unione il mondo intero non avrebbe potuto resistere. E Vercingetorige era prossimo alla realizzazione di questo progetto.»
Cesare, dopo aver portato a termine l'occupazione dell'ultimo baluardo dei Biturigi, insieme alle altre tre importanti città della Gallia centrale, decise di fermarsi per alcuni giorni ad Avarico per rifocillare le truppe, avendo trovato nella capitale dei Biturigi abbondanza di frumento ed altre vettovaglie.
Con la fine dell'inverno (primi di aprile), Cesare era deciso a riprendere la campagna militare per condurre a termine in modo definitivo l'occupazione dell'intera Gallia, quando venne a conoscenza di alcuni dissidi interni sorti nell'alleata popolazione degli Edui. La situazione era assai critica e necessitava di un intervento del proconsole romano per evitare una guerra civile tra due fazioni opposte. Cesare racconta che, quell'anno, erano stati creati, contrariamente alla normale tradizione di questo popolo, non uno ma due magistrati supremi con potere regale: Convittolitave e Coto. Questa doppia magistratura aveva determinato che l'intero popolo fosse in armi, il senato fosse diviso, il popolo pure, e ciascuno dei due contendenti avesse propri clienti.[136]
Cesare, pur reputando svantaggioso sospendere le operazioni militari ed allontanarsi dal nemico, non poteva di certo ignorare che uno dei principali popoli a lui alleati, e fondamentali per il prosieguo della guerra (anche in termini di armati forniti e di vettovaglie) fosse sull'orlo di una guerra civile. Decise pertanto di recarsi personalmente presso gli Edui e di convocare il loro senato presso Decezia. Una volta valutata la situazione, costrinse Coto a deporre il potere, affidandolo interamente nelle mani di Convittolitave; emessa la sentenza li esortò a spedirgli rapidamente tutta la cavalleria e diecimila fanti, con i quali intendeva istituire alcune guarnigioni a protezione del vettovagliamento.
Divise, infine, l'esercito in due parti: a Tito Labieno lasciò quattro legioni, inviandolo a nord per sopprimere la rivolta di Senoni e Parisi; a sé stesso riservò le rimanenti sei legioni e puntò verso sud, seguendo il fiume Elaver, verso la capitale arverna: Gergovia (le cui rovine sorgono nei pressi di Clermont-Ferrand). Alla notizia dell'avanzata di Cesare, Vercingetorige abbatté tutti i ponti di quel fiume e si mise in marcia lungo la sponda opposta.[137] Intanto aveva guadagnato alla sua causa anche gli Edui, da sempre alleati di Cesare. Il proconsole fu così costretto a ritirarsi provvisoriamente da Gergovia per riprendere il controllo degli Edui; dopodiché si ripresentò sotto le mura della capitale degli Arverni.[138] Qui fu sconfitto, anche se di misura, e per i due giorni successivi schierò le truppe in modo da attrarre il capo gallico alla battaglia finale, quella che avrebbe sancito definitivamente le sorti della guerra in Gallia. Ma Vercingetorige, pur avendo appena ottenuto quel piccolo successo, non ingaggiò battaglia, temendo la tattica romana e le capacità militari del suo avversario.
Al termine di quei due giorni il proconsole decise di togliere l'assedio e di ricongiungersi con le quattro legioni che aveva lasciato presso i Parisi sotto il comando di Labieno: riteneva necessario compattare le forze ed affrontare il nemico prima che il malcontento si diffondesse all'intera Gallia. Gli stessi Edui si erano ribellati nuovamente, quando dall'assedio di Gergovia ritornarono Viridomaro ed Eporedorige: questi avevano contribuito a sobillare il popolo ed a massacrare numerosi cittadini romani a tradimento, cominciando poi, per il timore di una rappresaglia del proconsole romano, ad arruolare dalle regioni confinanti nuove truppe e a disporre presidi e corpi di guardia sulle rive della Loira per fermare il proconsole romano. Cesare, ormai sapeva di non poter più contare su alcun alleato in Gallia (salvo Lingoni e Remi): doveva ricongiungersi a Labieno nel tentativo di ottenere uno scontro risolutivo contro Vercingetorige. Sarebbe comunque stato in una situazione di grande inferiorità numerica e avrebbe potuto far affidamento solo sul suo genio militare e sulla miglior disciplina dell'esercito romano.[139]
Nel frattempo Labieno, partito da Agendico per Lutezia, riuscì non solo a battere una coalizione di popolazioni a nord della Loira, comandate dall'aulerca Camulogeno, ma anche a ricongiungersi con Cesare, sfuggendo ai tentativi di accerchiamento condotti prima dai Bellovaci, anch'essi ribellatisi al dominio romano, e poi dagli Edui.[140]
Mentre i Romani erano riusciti a ricongiungersi, Vercingetorige aveva ricevuto ufficialmente il comando supremo nella capitale edua di Bibracte nel corso di una dieta pangallica, a cui non parteciparono però Treveri, Remi e Lingoni (questi ultimi due popoli ancora alleati di Cesare), che avevano deciso di non aderire alla rivolta.
«Vercingetorige ordina alle nazioni della Gallia di fornirgli ostaggi e stabilisce un giorno per la consegna. Comanda che vengano velocemente raccolti tutti i cavalieri in numero di 15.000. Afferma che bastava la fanteria che aveva avuto fino ad ora, ma che non avrebbe tentato la sorte, attaccando Cesare in una battaglia campale, ma poiché aveva cavalleria in abbondanza, gli sarebbe riuscito più facile impedire ai romani l'approvvigionamento di frumento e fieno, a condizione che i Galli si rassegnassero a distruggere il loro frumento e ad incendiare le loro case. In questa perdita dei loro beni dovevano vedere il mezzo per conseguire l'indipendenza nazionale [...] Prese poi queste decisioni: comanda a 10.000 fanti e 800 cavalieri Edui e Segusiavi, sotto il comando di Eporedorige [...] di portar la guerra agli Allobrogi della Provincia romana; dall'altra parte manda i Gabali e gli Arverni contro gli Elvi, e così anche i Ruteni e Cadurci a devastare il Paese dei Volci Arecomici [...] ma per tutte queste evenienze erano predisposti dei presidi romani per complessive 22 coorti, arruolate dal legato Lucio Cesare [parente del proconsole]»
Cesare, unitosi a Labieno e alle sue legioni ad Agedinco, decise di riparare presso i vicini ed alleati Lingoni, rafforzando le sue truppe con reparti di cavalleria germanica mercenaria (era il secondo squadrone che il generale romano arruolava nel corso della guerra). Riprese, infine, la strada verso sud in direzione della Gallia Narbonense, ma a nord-est di Digione le legioni (che probabilmente erano undici[141]) furono attaccate dall'armata di Vercingetorige (fine settembre del 52 a.C.).[142] L'attacco della cavalleria gallica fu però respinto dalle legioni romane in marcia e dalla cavalleria germanica. La fiducia dei ribelli vacillò e Vercingetorige decise di riparare con il suo esercito ad Alesia. Qui, una volta raggiunto da Cesare, fu posto sotto assedio senza più alcuna possibilità di scampo.[143]
Cesare piombò su Alesia e la cinse d'assedio: fece costruire un anello di fortificazioni lungo sedici chilometri tutto intorno all'oppidum nemico ed, all'esterno di questo, un altro di ventun chilometri circa, in previsione di un possibile attacco alle spalle. Le opere d'assedio di Cesare comprendevano così due valli (uno interno ed uno esterno), fossati pieni d'acqua, trappole, palizzate, quasi un migliaio di torri di guardia a tre piani (a 25 metri circa, l'una dall'altra), ventitré fortini (occupati ciascuno da una coorte legionaria, nei quali di giorno erano posti dei corpi di guardia perché i nemici non facessero improvvise sortite, mentre di notte erano tenuti da sentinelle e da solidi presidi), quattro grandi campi per le legioni (due per ciascun castrum) e quattro campi per la cavalleria (legionaria, ausiliaria e germanica), posti in luoghi idonei.[144]
Dopo circa un mese di lungo e logorante assedio, giunse lungo il fronte esterno delle fortificazioni romane un potente esercito gallico di circa 240.000 armati ed 8.000 cavalieri, giunto in aiuto degli assediati.
«Ordinano agli Edui ed alle loro tribù clienti, Segusiavi, Ambivareti, Aulerci Brannovici, Blannovi 35.000 armati; egual numero agli Arverni insieme agli Eleuteti, Cadurci, Gabali e Vellavi che a quel tempo erano sotto il dominio degli Arverni; ai Sequani, Senoni, Biturigi, Santoni, Ruteni e Carnuti 12.000 ciascuno; ai Bellovaci 10.000 (ne forniranno solo 2.000); ai Lemovici 10.000; 8.000 ciascuno a Pittoni e Turoni, a Parisi ed a Elvezi; ai Suessoni, Ambiani, Mediomatrici, Petrocori, Nervi, Morini, Nitiobrogi ed agli Aulerci Cenomani, 5.000 ciascuno; agli Atrebati 4.000; ai Veliocassi, Viromandui, Andi ed Aulerci Eburovici 3.000 ciascuno; ai Raurici e Boi 2.000 ciascuno; 10.000 a tutti i popoli che si affacciano sull'Oceano e per consuetudine si chiamano genti Aremoriche, tra cui appartengono i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Veneti, Lessovi e gli Unelli...»
Al comando di questo immenso esercito di soccorso furono posti: l'atrebate Commio, gli Edui Viridomaro ed Eporedorige, e l'arverno Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige.[145]
Per quattro giorni le legioni cesariane resistettero agli attacchi combinati dei Galli di Alesia e dell'esercito accorrente. Il quarto giorno, questi ultimi riuscirono ad aprire una breccia nell'anello esterno, ma furono respinti grazie all'accorrere prima del legato Labieno, poi dello stesso Cesare, il quale riuscì a rintuzzare l'attacco nemico al comando della cavalleria germanica e delle truppe di riserva raccolte lungo il percorso. Il nemico gallico fu accerchiato, con un'abile manovra esterna. Era la fine del sogno di libertà della Gallia; Vercingetorige si consegnò al proconsole romano.
La fine di Alesia fu il termine della resistenza delle tribù della Gallia. I soldati di Alesia, così come i sopravvissuti dell'esercito di soccorso, furono fatti prigionieri. In parte furono venduti come schiavi ed in parte ceduti come bottino di guerra ai legionari di Cesare, ad eccezione dei membri facenti parte delle tribù Edui e degli Arverni che furono liberati e perdonati per salvaguardare l'alleanza di queste importanti tribù con Roma.
Dopo la vittoria, il Senato decretò venti giorni di festa in onore del proconsole,[146] mentre Vercingetorige fu mantenuto in vita nei sei anni successivi, in attesa di essere esibito nella sfilata di trionfo di Cesare. E, come era tradizione per i comandanti nemici catturati, alla fine della processione trionfale fu rinchiuso nel Carcere Mamertino e strangolato.[147]
Al termine di questo settimo anno di guerra, Cesare, dopo aver raccolto la resa della nazione degli Edui, dispone per l'inverno del 52-51 a.C. le undici legioni come segue: le legioni VII, XV e la cavalleria con Tito Labieno ed il suo luogotenente, Marco Sempronio Rutilo, tra i Sequani a Vesontio; la legione VIII con il legato Gaio Fabio e la VIIII con il legato Lucio Minucio Basilo presso i Remi (probabilmente nei pressi di Durocortorum e Bibrax), per proteggerli dai vicini Bellovaci ancora in rivolta; la legione XI con Gaio Antistio Regino tra gli Ambivareti; la legione XIII con Tito Sextio tra i Biturigi (probabilmente a Cenabum); la legione I con Gaio Caninio Rebilo tra i Ruteni; la legione VI con Quinto Tullio Cicerone a Matisco e la XIIII con il legato Publio Sulpicio a Cabillonum presso gli Edui. Egli stesso fissò il suo quartier generale a Bibracte e vi si recò con le legioni X e XII[148].
Sconfitto definitivamente Vercingetorige, Cesare sperava di poter far finalmente riposare le truppe, che avevano combattuto incessantemente per sette anni. Invece venne a sapere che diversi popoli stavano rinnovando i piani di guerra e stringendo alleanze tra di loro, con l'intento di attaccare contemporaneamente e da più parti i Romani. L'obiettivo era quello di costringere il proconsole a dividere le sue forze, nella speranza di poterlo finalmente battere. Il generale romano decise, però, di muovere con grande tempestività, anticipando i piani dei rivoltosi, contro i Biturigi. Questi, sorpresi dalla rapidità con cui era stata condotta questa nuova campagna, furono fatti prigionieri a migliaia. Cesare ottenne così la loro definitiva sottomissione, costringendo anche molte delle popolazioni limitrofe a desistere dai loro piani di ribellione.[149]
I Biturigi, ormai sottomessi al dominio romano, chiesero aiuto a Cesare contro i vicini Carnuti, lamentandone continui attacchi da parte loro. Il proconsole mosse con altrettanta rapidità contro questo popolo, che alla notizia dell'arrivo dei Romani si diede alla fuga.[149]
Frattanto i Bellovaci, superiori a tutti i Galli e ai Belgi quanto a gloria militare, e i popoli limitrofi stavano radunando in un solo luogo gli eserciti (sotto la guida del bellovaco Correo e dell'atrebate Commio), per poi attaccare in massa le terre dei Suessioni, vassalli dei Remi.
Cesare richiamò dal campo invernale l'undicesima legione; inviò quindi una lettera a Gaio Fabio, affinché conducesse nei territori dei Suessioni le due legioni che aveva ai suoi ordini. A Labieno, infine, richiese una delle due legioni di cui disponeva. Puntò quindi sui Bellovaci, stabilendo il campo nei loro territori e compiendo rastrellamenti con squadroni di cavalleria in tutta la zona, al fine di catturare prigionieri che lo mettessero al corrente dei piani nemici. Cesare venne così a sapere che tutti i Bellovaci in grado di portare armi si erano radunati in un solo luogo, insieme anche agli Ambiani, agli Aulerci, ai Caleti, ai Veliocassi e agli Atrebati. I rivoltosi avevano scelto per accamparsi una località d'altura, in una selva circondata da una palude, e avevano ammassato tutti i bagagli nei boschi alle spalle. Tra i capi dei ribelli, il più ascoltato era Correo, noto per il suo odio mortale verso Roma.
Cesare marciò contro i nemici. Dopo alcuni giorni di attesa e scaramucce, i due eserciti vennero allo scontro (nei pressi dell'attuale Compiègne lungo il fiume Axona)[150] e i Romani misero in rotta il nemico, facendone strage: lo stesso Correo morì in battaglia. I pochi superstiti vennero accolti dai Bellovaci e da altri popoli, che decisero di consegnare ostaggi al proconsole. Cesare accettò la resa di nemici. Di fronte a ciò, l'atrebate Commio riparò presso le genti germaniche dalle quali aveva ricevuto rinforzi: la paura gli impediva infatti di mettere la propria vita nelle mani di altri. L'anno precedente, infatti, mentre Cesare si trovava nella Gallia Cisalpina per amministrare la giustizia, Tito Labieno, avendo saputo che Commio sobillava i popoli e promuoveva una coalizione anti-romana, aveva cercato di assassinare il gallo, attirandolo con il pretesto di un abboccamento. L'agguato però fallì e Commio, sebbene ferito gravemente, era riuscito a salvarsi. Da allora, aveva deciso che mai si sarebbe incontrato con un romano.[151]
A questo punto le truppe romane condussero varie operazioni di “pulizia”; Cesare puntò verso la regione che era appartenuta ad Ambiorige, per devastarla e far razzie.[152]
Nel frattempo, grazie al pictone Durazio (rimasto sempre fedele all'alleanza con i Romani mentre una parte del suo popolo aveva defezionato), il legato Gaio Caninio Rebilo, avvertito che un gran numero di nemici si era raccolto proprio nelle terre dei Pictoni, si diresse verso la città di Lemono (l'attuale Poitiers). Mentre stava per raggiungerla, venne a sapere che Dumnaco, capo degli Andi, stava assediando con molte migliaia di uomini le truppe di Durazio, asserragliate a Lemono. Pose allora il campo in una zona ben munita, mentre Dumnaco, avendo saputo dell'arrivo di Caninio, volse tutte le truppe contro le legioni e assaltò il campo romano. Dopo aver speso diversi giorni nell'attacco, a prezzo di gravi perdite e senza riuscire a far breccia nelle fortificazioni, Dumnaco desistette e tornò ad assediare Lemono. Intanto Gaio Fabio, dopo aver accettato la resa di parecchi popoli, mosse in soccorso di Durazio.
Dumnaco ripiegò allora con tutte le truppe, nel tentativo di attraversare un ponte sulla Loira. Tuttavia Fabio, essendo venuto a conoscenza della natura del luogo, mosse verso lo stesso ponte e ordinò alla cavalleria di precedere l'esercito. I cavalieri romani piombarono sui nemici in marcia, ne uccisero molti e si impadronirono di un ricco bottino. Eseguita con successo la missione, rientrarono al campo. La notte successiva Fabio mandò in avanscoperta la cavalieria, pronta allo scontro e a ritardare la marcia di tutto l'esercito nemico fino all'arrivo di Fabio stesso. Il prefetto della cavalleria, Quinto Azio Varo, inseguì i nemici e si scontrò duramente con loro. Mentre infuriava la battaglia, arrivarono le legioni a ranghi serrati, portando lo scompiglio tra i Galli che ruppero le righe e vennero massacrati e catturati in gran numero.[153]
Scampato al massacro con la fuga, il senone Drappete raccolse circa duemila fuggiaschi e puntò contro la Gallia Narbonense. Con lui aveva preso l'iniziativa il cadurco Lucterio, che aveva deciso di attaccare la provincia romana fin dall'inizio della rivolta. Caninio partì al loro inseguimento con due legioni, al fine di evitare le scorrerie in territorio romano. Gaio Fabio ottenne intanto la resa dei Carnuti, il cui esempio venne seguito dalle genti aremoriche: sottomesse al prestigio dei Carnuti, obbedirono senza indugio agli ordini.
Drappete e Lucterio, appresa la notizia dell'arrivo di Caninio e delle sue legioni, si convinsero di non poter entrare nella provincia romana senza andar incontro a una sicura disfatta e di non avere più possibilità di spostarsi e di compiere razzie. Si fermarono quindi nei territori dei Cadurci, occupando la città di Uxelloduno (nei pressi dell'odierna collina di Puy d'Issoluben, all'epoca ben fortificata e difficile da assaltare).[154] Raggiunta a sua volta la città, Caninio divise in tre gruppi le sue coorti e pose tre distinti campi in un luogo molto elevato. Da qui, a poco a poco, cominciò a circondare la città con una fortificazione. Lucterio e Drappete si prepararono a sostenere l'assedio compiendo una sortita notturna in cerca di vettovaglie da ammassare; di tanto in tanto attaccavano i Romani, costringendo Caninio a rallentare i lavori di fortificazione tutt'intorno alla città. Dopo essersi procurati grandi scorte di grano, Drappete e Lucterio si attestarono a circa dieci miglia dalla città: Drappete con parte delle truppe rimase al campo per difenderlo, mentre Lucterio cominciò a introdurre il grano in città. Accortisi di ciò, i Romani attaccarono il nemico, mettendolo in fuga e facendone strage. Lucterio cercò scampo con pochi dei suoi, senza neppure rientrare al campo. Caninio marciò poi contro Drappete, lo sconfisse e lo prese prigioniero. A questo punto tornò ad assediare la città. Il giorno dopo arrivò Gaio Fabio con tutte le truppe e assunse il comando delle operazioni d'assedio per un settore della città.[155]
Intanto Cesare, lasciato Marco Antonio tra i Bellovaci con quindici coorti, visitò altri popoli, impose la consegna di nuovi ostaggi e rassicurò quelle genti in preda alla paura. Poi giunse nelle terre dei Carnuti, dove era scoppiata una nuova insurrezione, e pretese la punizione dell'istigatore della rivolta, Gutuatro; consegnato al proconsole, Gutuatro fu giustiziato.[156] Cesare raggiunse poi a sua volta Uxelloduno e rafforzò l'assedio, ottenendo alla fine la resa della città. Per impartire una lezione a tutti i Galli, il proconsole fece mozzare le mani a chiunque avesse impugnato le armi.[157] Lucterio venne consegnato ai Romani da Epasnacto, mentre Labieno si scontrò nuovamente con Treveri e Germani, catturando molti capi nemici, tra cui l'eduo Suro.[158] Il proconsole romano spazzò poi via le residue sacche di resistenza presenti in Aquitania.[159] Dopo che anche Commio si fu arreso,[160] tutta la Gallia poteva dirsi pacificata:
«Cesare, mentre svernava in Belgio, mirava ad un unico scopo: tenere legate all'alleanza le varie genti e non fornire a nessuno speranze o motivi di guerra. Infatti, niente gli pareva meno auspicabile, alla vigilia della sua uscita di carica, che trovarsi costretto ad affrontare un conflitto. Altrimenti, al momento della sua partenza con l'esercito, si sarebbe lasciato alle spalle una guerra che tutta la Gallia avrebbe intrapreso con entusiasmo, liberata dal pericolo della sua presenza. Così, distribuendo titoli onorifici ai vari popoli, accordando grandissime ricompense ai loro principi, non imponendo nuovi oneri, la Gallia, prostrata da tante sconfitte, riuscì con facilità a tenerla in pace, rendendo più lieve l'assoggettamento.»
Nel 49 a.C. Cesare ritirò la maggior parte delle sue legioni dalla Gallia.[161]
Presto sarebbe cominciata una nuova era del mondo romano, con la sua trasformazione da repubblica in principato, dopo un ventennio di guerre civili. La civiltà di Roma si era imposta all'intero bacino del Mediterraneo, in un'inedita società multietnica. Anche gran parte dell'immenso e potente popolo dei Celti ne era stato infatti inglobato, ed altri avrebbero seguito questo destino nei due secoli successivi.
Marco Vitruvio Pollione. De Architectura:
«Quando il divo Cesare teneva l'esercito attorno le Alpi, avendo ordinato a municipi di provvedere ai viveri, tra questi vi era un castello fortificato che si chiamava Larigno, i cui abitanti fidatisi nella naturale fortezza del luogo ricusarono di ubbidire agli ordini; onde l'imperatore vi fece marciar le schiere. Dinanzi alla porta di questo castello ergevasi una torre formata con travi di codesto legname alternativamente incrocicchiati a guisa di pira, dalla cui vetta potevasi con bastoni e pietre rispingere gli aggressori. Ma quando fu ravvisato che essi non avevano altre armi che bastoni, e che per il peso non potevano lanciarli assai discosto dal muro, venne ordinato che si accostassero a quella barricata, portandovi fascine e fiaccole accese. I soldati senza indugio ve ne ammucchiarono delle cataste. La fiamma che bruciava le fascine intorno quella torre, alzandosi al cielo, fece credere di poter vedere già atterrata tutta quella mole. Ma quando essa si estinse e fu cessata, stupefatto Cesare nel veder tuttavia intatta la torre, ordinò di fare una circonvallazione fuori del tiro de’ dardi. Allora i terrazzani intimoriti si arrendettero; e richiesti dappoi di che luogo fossero que’ legnami, che non erano stati offesi dal fuoco, mostrarono allora codesti alberi, de’ quali avvi in que’ luoghi grandissima abbondanza. Quindi è che Larigno chiamasi il castello, e parimente larigno appellasi il legname.»
La conquista della Gallia fu un evento epocale per la storia dell'Occidente. Roma, che sino ad allora era stata un impero mediterraneo, divenne da questo momento la dominatrice dell'Europa transalpina. Nei decenni che seguirono, vennero sottomesse le Alpi, la Rezia, il Norico e la Britannia, andando a costituire quello che sarà per i secoli successivi il dominio di Roma nel continente europeo.
Da questo momento, i destini della Gallia e di Roma percorsero strade comuni: la Gallia andò, via via, romanizzandosi attraverso la costruzione di nuove città, strade ed acquedotti, con la fusione delle due culture in un'unica. Ne nacque un sincretismo che diede vita a quella cultura gallo-romana che in seguito verrà assimilata anche dagli invasori Franchi e su cui germoglierà il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Ottanta anni dopo la conquista, Claudio, nato significativamente a Lugdunum, permise ai senatori di origine gallica di confluire nel Senato, formalizzando un'integrazione oramai compiuta. Augusto nel frattempo aveva diviso la Gallia in diverse province: oltre alla preesistente Narbonense, vennero istituite le province di Aquitania, Lugdunense e Belgica.
Ma al di là della importanza in chiave storica assoluta, la conquista della Gallia fu sotto molti punti di vista una guerra spregiudicata. Nessuna reale minaccia per i territori romani a sud della Gallia si presentava all'inizio degli anni 50 del I secolo a.C. da parte delle popolazioni celtiche del centro e del nord. Né gli Elvezi né gli Allobrogi avevano, nel 59/58 a.C., minacciato la provincia di Narbonense a tal punto da provocare una reazione simile. La guerra non fu perciò mossa da un reale pericolo: fu al contrario una decisione unilaterale di Cesare, il quale, attraverso la conquista, mirava spregiudicatamente al consolidamento del suo potere nella lotta politica interna al Primo triumvirato. Essenzialmente Cesare ambiva a controbilanciare i successi orientali di Pompeo nell'opinione pubblica, ad assicurarsi una pressoché inesauribile fonte di denaro,[162] un esercito preparato e fedele, nonché schiere di clienti e migliaia di schiavi. Questi obiettivi furono in sostanza tutti raggiunti.
Cesare, conquistata la Gallia, era entrato nell'Olimpo dei grandi conquistatori romani. Era amato dalla plebe di Roma alla quale, sapientemente, aveva concesso benefici di varia natura grazie al bottino di guerra. Il Senato e Pompeo ora lo temevano, sapendo che alle sue dipendenze aveva delle legioni temprate dalla guerra, costituite da cittadini di recente cittadinanza e legati a Cesare da un vincolo di fedeltà clientelare. Soprattutto Cesare sortì dalla conquista immensamente ricco e influente, gettando così le basi per l'escalation che avrebbe portato alla guerra civile. Svetonio scrive: «In Gallia spogliò i templi e i santuari degli dèi, zeppi di doni votivi e distrusse le città più spesso per predarle che per punirle. In tal modo ebbe oro in abbondanza, e lo mise in vendita in Italia e nelle province...».[163] Se la Repubblica era minata già dal tempo dei Gracchi, la conquista della Gallia ruppe definitivamente il bilanciamento di poteri che aveva retto da Silla in poi.
Militarmente parlando, Cesare compì una vera e propria impresa, descritta nel De bello Gallico, opera nella quale sono concentrati l'abilità militare e le capacità narrative di Cesare. In esso il futuro dittatore narra eventi, fatti, battaglie, spostamenti.[164] Sempre, ovviamente, da un punto di vista romano. Poco o nulla sappiamo da parte gallica di cosa fu per le popolazioni celtiche questa guerra che, in definitiva, decretò la fine dei governi tribali autonomi. Decine, forse centinaia di migliaia di Celti furono deportati in tutta Italia, e paradossalmente, la conquista romana permise ai Galli di aprirsi una strada verso l'Italia centrale e meridionale, dove, al tempo del loro massimo splendore, si erano trovati il cammino sbarrato da Etruschi e Latini. Alcuni storici hanno ipotizzato che nei dieci anni della campagna, la Gallia abbia perso oltre un milione di abitanti. Plinio il Vecchio, attenendosi ai calcoli dello stesso Cesare, parla di 1.192.000 morti,[165] mentre per Velleio Patercolo furono attorno a 400.000.[3] Le cifre forniteci potrebbero essere inferiori, come esatte. Alla storia, rimane una guerra terribile, combattuta per quasi un decennio, nella quale, né da una parte, né dall'altra si risparmiarono le crudeltà.
La conquista della Gallia, grazie al tramite di Roma, proiettò definitivamente l'Europa continentale nel Mediterraneo; ma né il trionfatore Cesare, né lo sconfitto Vercingetorige poterono essere testimoni fino in fondo delle conseguenze dei loro atti: una morte violenta colse entrambi pochi anni dopo la fine della guerra. Entrambi uccisi nell'Urbe, entrambi uccisi in nome di una Repubblica di cui furono, nei rispettivi ruoli, acerrimi rivali. A Roma come in Gallia, si era però allora aperta una nuova era.
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