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poeta italiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Giuseppe Battista (Grottaglie, 11 febbraio 1610 – Napoli, 6 marzo 1675) è stato un poeta italiano, marinista.
Compì i primi studi a Grottaglie, poi a sedici anni giunse a Napoli per seguire gli studi superiori. Studiò filosofia sotto la guida dei gesuiti, e si addottorò in teologia.
Vestì l'abito da prete, secondo una consuetudine secentesca, ma non cercò benefici ecclesiastici e prebende, e si dedicò a tempo pieno alla poesia. Ereditò con atteggiamento di epigono tutti gli artifici del marinismo di più stretta osservanza, e si vantò di aver superato tutti nell'escogitare le più ardite iperboli e metafore, che difese nelle Lettere (Combi & La Noù, Venezia 1678). Il suo marinismo era talmente ortodosso da indurlo a riprendere come un luogo obbligato l'immagine contestatissima racchiusa nel famigerato verso di Claudio Achillini "Sudate, o fochi, a preparar metalli", che rende l'idea della fusione del metallo con l'immagine del fuoco che suda; suo è il verso "Non sudò foco a fabricar mai spade".
Dapprima canonico della collegiata di Grottaglie, si trasferì poi a Napoli, in casa di Francesco Caracciolo, principe di Avellino, dove risiedette per dieci anni. Frequentò l'Accademia dei Gelati, ma si distinse soprattutto presso l'Accademia degli Oziosi di Napoli; il principe di quell'accademia, Giovanni Battista Manso lo protesse benignamente e lo trattò con singolare favore, designandolo nel suo testamento editore dei propri manoscritti.
Concluso il decennio di servizio presso il principe di Avellino, Giuseppe Battista, vecchio, malato, e sempre più incline all'ingenita malinconia, si ritirò nella natia Grottaglie, dove aveva una casa in campagna; facendo tuttavia frequenti viaggi in altre città del Mezzogiorno. Proprio durante un viaggio verso Napoli fu colto dalla morte. Traslato a Napoli, fu qui sepolto nella chiesa di s. Lorenzo Maggiore.
Lasciò la cura dei propri manoscritti al nipote Simone Antonio Battista, anch'egli di Grottaglie, Accademico Ottenebrato di Napoli.
La poesia di Giuseppe Battista è schietta espressione dell'animo dell'autore, malinconico e portato a un moralistico pessimismo. Tecnico tutt'altro che indefettibile, dietro molte immagini bislacche, metafore continuate e pigramente svolte (c'è chi ha intravisto nel suo marinismo addirittura un atteggiamento "passivo") fa tuttavia trasparire un pensiero autonomo, tormentato e nervoso, capace di un gioco analogico spesso suggestivo.
Esponente di spicco del tardo marinismo meridionale, è autore dell'opera in cinque sezioni Poesie meliche, uno dei grandi successi editoriali della seconda metà del secolo (le singole sezioni, pubblicate in volumi separati tra il 1646 e il 1675 conobbero continue ristampe). Già diversi lettori secenteschi, tra cui Giovan Francesco Loredan e Francesco Fulvio Frugoni, colsero in quest'opera i segni di un marinismo in via d'esaurimento. Pur senza tributargli direttamente alcun omaggio, Pietro Casaburi Urries modellò il suo canzoniere Le Sirene (1676 e 1685) sulle poesie del Battista.
Battista coltivò anche la poesia latina.
Notevole importanza storica rivestono le Lettere del Battista, non solo per ciò che riguarda la vita del poeta, ma per le relazioni che egli ebbe coi letterati del tempo, soprattutto con l’Accademia degli Oziosi e col Manso. Non mancano lettere erudite; tra queste notevole quella sulla patria di Ennio, pubblicata nelle Lettere Memorabili di Michele Giustiniani e nel Parto dell'Orsa di Giovanni Francesco Bonomi.
«Democrito, tu ridi e col tuo riso
tutte le umane cose a scherno prendi
e, sia del fato o mesto o lieto il viso,
con lieto viso ogni accidente attendi.
E tu col mento in sulla destra assiso
piangi, Eraclito, e sempre al pianto intendi;
forse che quanto è fra di noi diviso,
lacrimosa tragedia esser comprendi.
Ma siate pure al pianto o al riso intenti,
ché ’l riso e ’l pianto a me rassembra intanto
vano delirio delle vostre menti.
I mali di quaggiù gravi son tanto
che, per guarir le travagliate genti,
è vano il riso ed è più vano il pianto.»
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