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Anitya

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Anitya
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Anitya, "impermanenza", è un termine sanscrito (lingua pāli anicca; cinese 無常S, wúchángP; giapponese 無常?, mujō; tibetano mi rtag pa) che indica uno dei tre aspetti fondamentali dell'esistenza nella dottrina canonica del buddismo, che sono:

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dipinto buddista che mostra l'impermanenza
  1. l'impermanenza[1] o cambiamento o divenire (anitya);
  2. la sofferenza o l'insoddisfacibilità connaturata alle cose mondane (duḥkha);
  3. il non sé o l'insostanzialità della personalità o l'inesistenza di un nucleo permanente e separato (anātman).

Insieme queste tre caratteristiche fondamentali dell'esistenza, della vita di ogni "essere senziente", formano la base causale della dottrina delle Quattro Nobili Verità e quindi della ricerca spirituale buddista, consistente nella vita ascetica per i membri della comunità monastica, e nella coltivazione del Nobile Ottuplice Sentiero e dei precetti buddisti per tutti i praticanti buddisti: monaci, monache, laici e laiche, che costituiscono la tradizionale quadripartizione della società buddista.

Nelle parole di Bhikkhu Ñanamoli:

Qualsiasi cosa È, sarà ERA.
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Etimologia

La parola anitya è composta da a (non) e nitya (costante), e quindi significa letteralmente "non costante", "non permanente", "non eterno".[2] Indica, dunque, il carattere non permanente dei fenomeni, e l'aspetto transitorio delle cose materiali, ma dal punto di vista buddista anche la "non sostanzialità dell'io", che è un altro concetto fondamentale della dottrina.

Citazioni canoniche

Riepilogo
Prospettiva

Nelle parole del Buddha Shakyamuni, secondo la tradizione del Canone Pāli:

«La percezione dell'impermanenza, o bhikkhu, sviluppata e assiduamente praticata, porta all'abbandono delle passioni sensuali, all'abbandono della passione per l'esistenza materiale, all'abbandono della passione per il divenire, all'abbandono dell'ignoranza, all'abbandono e all'annullamento di ogni presunzione circa l'"Io sono"».
«Come quando in autunno un agricoltore, arando con un grande aratro, recide tutte le radici che si diramano nel suolo mentre ara; nello stesso modo, o bhikkhu, la percezione dell'impermanenza, sviluppata e assiduamente praticata, porta all'abbandono delle passioni sensuali... all'abbandono e all'annullamento di ogni presunzione circa l'"Io sono"».
Saṃyutta Nikāya, 22.102
«Sarebbe meglio, o bhikkhu, che una persona ordinaria e non istruita consideri questo corpo, costituito dei quattro grandi elementi, come il proprio sé piuttosto che la mente. Perché questo? [Perché] questo corpo si può constatare durare per un anno, o per due anni, cinque anni, dieci anni, venti anni, cinquant'anni, cent'anni e ancora di più. Ma quello che si chiama mente, che si chiama pensiero, che si chiama coscienza, di continuo un momento sorge e un altro cessa, di giorno come di notte».
Saṃyutta Nikāya, 12.61
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Rapporti con la filosofia

Nell'ambito filosofico il concetto buddista di impermanenza si confronta con la tradizione del pensiero occidentale trovando convergenze, ma più spesso differenze.[3] La principale difficoltà risiede nella prevalenza della logica vero-funzionale che tende a escludere un mutamento dei fenomeni, e presenta una propensione del pensiero occidentale a indirizzarsi verso una disposizione in categorie, piuttosto che riconoscere il flusso di fenomeni non stabili.[3] Inoltre c'è un pregiudizio, abbastanza frequente, che ritiene la logica esposta dal pensiero occidentale come l'unica corretta, escludendo visioni alternative, come il concetto di impermanenza, e le conseguenze che ne derivano.[3] Secondo la dottrina buddista gli stessi fenomeni mentali sarebbero transitori, e quindi ciò varrebbe anche per le categorie logiche che sarebbero in ultima istanza soltanto un mero strumento dell'intelletto per organizzare la rappresentazione della realtà.

Note

Bibliografia

Collegamenti esterni

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