Vasugupta

filosofo e mistico indiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

Vasugupta (Kashmir, VIII secoloIX secolo) è stato un filosofo e mistico indiano.

Quasi nulla si conosce della vita di Vasugupta, e di lui ci è giunta, con certezza, un'unica opera: gli Śivasūtra, testo fondamentale delle tradizioni shivaite del Kashmir.

Biografia

Come riferito da Kṣemarāja e da Bhāskara, autori di due fra i più noti e autorevoli commenti agli Śivasūtra (Śivasūtravimarśinī e Śivasūtravārttika rispettivamente), il dio Śiva, apparso in sogno al suo seguace Vasugupta, gli affidò il compito di diffondere nuovamente nel mondo la dottrina del non-dualismo. Seguendo le indicazioni di Śiva, prosegue Kṣemarāja, Vasugupta si recò sul monte Mahādeva (il monte del Gran Dio) e qui, su una lastra di roccia, rinvenne i 77 aforismi che costituiscono gli Śivasūtra, o "aforismi di Śiva", così come il dio stesso li aveva incisi.[1][2]

Viene attribuita a Vasugupta anche la paternità della Spandakārikā, opera della quale sarebbe invece più probabilmente autore Bhaṭṭa Kallaṭa, allievo del nostro.[3]

Śivasūtra

Riepilogo
Prospettiva

La tradizione shivaita aveva, nel Kashmir, radici molto profonde, ma già da tempo questa antica dottrina era stata offuscata da nuove concezioni, soprattutto quelle della scuola buddhista facente capo a Nāgobodhi e quelle delle dottrine dualiste. Vari sono, negli Śivasūtra, i riferimenti a quei principi messi in discussione da tali scuole; nel suo commento Kṣemarāja addita senza mezze parole i materialisti, i religiosi seguaci dei Veda, i logici, i cultori del vuoto, gli Yogācāra e i Mādhyamika.[3]

È questo dunque il momento storico in cui Vasugupta si muove, e il suo intento è ripristinare la dottrina shivaita della non dualità: gli Śivasūtra si inseriscono quindi nella vasta corrente degli Āgama advaita.[4] In linea con la gran parte dei tantra, l'opera non ha intenti dottrinali ma orientativi: i suoi sūtra indicano, mostrano un tracciato per l'adepto, e molti di questi non sono affatto di immediata comprensione, alcuni restano enigmatici.[3]

L'opera è suddivisa in tre sezioni, che Kṣemarāja così definisce: la natura dei mezzi divini; la natura dei mezzi basati sulla Potenza; la natura dei mezzi individuali. La numerazione nei due commentatori sopra citati non coincide a causa di diverse suddivisione di uno stesso sūtra (più uno che esiste soltanto in Bhāskara, che ne conta quindi 78).[3] Il fine dell'opera è quello di indicare le strade che possono portare verso la meta spirituale più alta, qui intesa come unione col divino, cioè con Śiva.

L'opera si apre col sūtra[5]:

«caitanyam ātmā»

  • «Il sé è coscienza» (nella traduzione di Raffaele Torella)
  • «Il sé è coscienzialità» (nella traduzione di Raniero Gnoli)
  • «La suprema coscienza è la realtà di ogni cosa» (nella traduzione di Swami Lakshmajoo)
  • «Fonte di ogni percezione è il Sé» (nella traduzione di Dario Chioli)

Il Sé (l'ātman), ossia la realtà, non è dunque né corpo né anima (soffio vitale o prāṇa), né intelletto e nemmeno vuoto, ma solo e soltanto il fatto di avere conoscenza (da cetayate: conoscere), cioè l'essere coscienti (cetana), quindi: coscienza.[1]

Secondo l'orientalista Raffaele Torella, quattro sono i nuclei innovatori dell'opera:
1) La concezione di un 'quarto stato' della coscienza, oltre i tre stati allora già ipotizzati, cioè quello della veglia, del sonno con sogni, e del sonno profondo. Il quarto stato è quello in cui si entra in contatto con la Coscienza Suprema (Śiva medesimo). È solo in questo stato che si può recuperare il mondo fenomenico nella sua interezza:[3]

«Nei tre deve essere versato come olio di sesamo il quarto (III.20)»

Infatti secondo lo shivaismo il mondo non è illusorio, bensì un riflesso del reale, ed è quindi pienamente fruibile dal suo centro, che è Coscienza.[3]

2) La cessazione di ogni distinzione fra sacro e profano. Quando si è conseguita l'identificazione con la Coscienza, tutto diviene sacro e profano al contempo:[3]

«Il sussistere della forma corporea costituisce l'osservanza religiosa (III.26)»

«Il comune parlare è recitazione di mantra (III.27)»

3)

«Il mantenimento e la dissoluzione (III.31)»

Śiva emana, mantiene, riassorbe, dilegua e infine torna alla grazia: nella corrispondenza che sempre sussiste fra i piani cosmologico e del microcosmo, questo dinamismo è anche dell'uomo, che dopo aver 'creato' una realtà emotiva, deve essere in grado di dissolverla, e quindi conseguire la 'grazia'.[3]

4) La comparsa di un aspetto destinato successivamente ad avere importanti sviluppi col sinonimo di camatkāra (stupore): vismaya (meraviglia). La meraviglia è una caratteristica di chi è illuminato, di chi ha cioè preso coscienza del Sé, di chi è giunto a percepire il mondo, e quindi l'altro, in sé.[3]

Note

Bibliografia

Voci correlate

Altri progetti

Collegamenti esterni

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