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religioso e diplomatico italiano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Giovanni da Pian del Carpine o di Pian del Carpine o da Piano dei Carpini o Iohannes de Plano Carpini (Pian del Carpine, 1182 circa – Antivari, 1º agosto 1252) è stato un arcivescovo cattolico e missionario francescano italiano, autore dell'Historia Mongalorum, un resoconto del suo viaggio in Mongolia nel 1245-1247.
«Familiaris homo et spiritualis et litteratus et magnus prolocutor»
«Uomo affabile, spirituale, letterato e grande oratore»
Giovanni da Pian del Carpine vescovo della Chiesa cattolica | |
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Incarichi ricoperti | Arcivescovo di Antivari |
Nato | 1182 circa a Pian del Carpine |
Consacrato vescovo | 1248 |
Deceduto | 1º agosto 1252 ad Antivari |
Missione di Giovanni da Pian del Carpine | |
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Tipo | terrestre |
Obiettivo | Missione francescana in Asia |
Data di partenza | 16 aprile 1245 |
Luogo di partenza | Lione |
Fonti primarie | Historia Mongalorum |
Equipaggiamento | |
Uomini celebri |
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Le fonti concordano nel collocare la nascita di Giovanni di Pian del Carpine, in latino Iohannes de Plano Carpini, sul finire del XII secolo; c'è chi, come Jules Verne e Liverani, colloca la sua nascita nel 1182.[1] Gli studi sono concordi anche sul suo luogo d'origine: la località di Magione, in provincia di Perugia, il cui nome antico era appunto Pian di Carpine; ma egli non era un abitante del suo castello (della “villa”), bensì abitava nel contado: ne siamo abbastanza certi vista l'assenza di un nome gentilizio. Non si hanno notizie riguardanti invece la sua giovinezza, fino a quando entrò nell'ordine dei frati francescani nel 1214 o 1215, e addirittura lo si può collocare tra i primi e più vicini compagni di san Francesco.[2]
Nel 1221 fu scelto dal beato Cesario di Spira,[3] insieme ad altri 25 religiosi, per andare a portare la parola di Cristo a Trento, Erbipoli (Würzburg), Spira, Worms e Colonia. Questo viaggio pare coerente con il contesto storico dell'epoca: lo stesso ordine mendicante era nato pochi anni prima per contrastare la crisi del Cristianesimo e il dilagare delle eresie. E non è un caso, che tra i nomi dei partecipanti a questa missione troviamo anche Barnaba il tedesco, Tommaso da Celano e Giordano da Giano. In conseguenza alle predicazioni del 1221, nel 1223 Alberto Pisano,[4] provinciale di Germania, convocò un capitolo generale in cui Giovanni di Pian del Carpine venne eletto custode o guardiano di Sassonia, da dove riuscì a promuovere un'ulteriore espansione dell'ordine francescano. Durante il capitolo di Wurzburg del 1224, venne esentato dal suo precedente incarico, per essere trasferito a Colonia. Quattro anni dopo, nel 1228 fu nominato da Giovanni Parenti[5] ministro provinciale in Germania, dove istituì per la prima volta l'ordine francescano in Lotaringia. Egli mantenne questo incarico fino al 1230, quando fu trasferito in Spagna con la medesima carica; risiedette nella penisola iberica per soli due anni, quando ritornò in Germania per essere nominato ministro della nuova provincia di Sassonia, conservando il suo status fino al 1239. In questo lungo periodo ai vertici dell'organizzazione minoritica, egli si distinse per aver portato l'ordine francescano anche in Ungheria, Boemia, Dacia, Norvegia, e per aver fondato il monastero di Metz,[6] il convento di San Francesco a Praga, come testimonia Tommaso da Celano, il quale ci informa di aver raccomandato sua sorella Agnese come badessa del secondo monastero. Nessuna fonte ci riporta sue notizie del periodo che va dal 1239 al 1245, che è l'anno della svolta nella sua carriera di religioso e di scrittore: in quell'anno venne invitato a Roma da Papa Innocenzo IV, il quale gli riservò un'ambasceria presso i Mongoli. Le lettere papali a noi pervenute dimostrano chiaramente che esse vennero datate dal Pontefice nel marzo 1245, ma, il frate partì solamente il 16 aprile dello stesso anno.[7]
Tutte le fonti ci spiegano il motivo di questa missione attivata proprio nella primavera del 1245: nel 1206 Gengis Khan aveva scelto come prima città del suo impero Caracorum, antica città tartara situata nella Tartaria a Nord della Cina. Il suo successore Ocodai estese la dominazione mongola nel Sud della Cina, e con un esercito di più di seicentomila uomini[senza fonte] invase la Russia, la Georgia, la Polonia, la Moravia, la Slesia, l'Ungheria, riportando sempre la vittoria dei Mongoli. Durante il pontificato di Gregorio IX, si era quindi proposto il problema dei Mongoli, e per risolvere la situazione il papa si era limitato a invocare una crociata. Scomparso nel 1241 Gregorio IX, il suo successore Innocenzo IV dovette subire la penetrazione dell'esercito mongolo guidato da Subotei in Friuli. L'avanzata non continuò solo perché la popolazione mongola dovette ritornare in patria per eleggere il successore di Ogodei, appena scomparso. Il papa in carica, a questo punto, cercò una trattativa attraverso una lettera datata 13 marzo 1245: “Cum non solum homines”, contenente un'esortazione a porre le armi contro la cristianità, dietro minaccia della collera divina. Questa epistola non venne presa in considerazione dal popolo pagano, pertanto Innocenzo IV si trovò costretto ad inviare Giovanni di Pian del Carpine in Mongolia.
Egli partì da Lione il 16 aprile 1245 con Stefano di Boemia, che lo condusse fino in Polonia, e qui cambiò il suo accompagnatore, viaggiando con frate Benedetto Polono, visto che quest'ultimo era un interprete di lingue slave, ed è esattamente questo che scrive il nostro autore nel capitolo IX della sua opera. Arrivò al confine con la Manciuria nel 1246 riuscendo a consegnare la lettera che era stata tradotta in persiano. Il gran khan però gli rispose in modo negativo con una lettera dell'11 novembre 1246.[8] Frate Giovanni tornò in patria nel 1247, senza che gli accordi richiesti dal pontefice fossero stati accettati dal khan. Questa missione, però, non si rivelò inutile: Giovanni di Pian del Carpine ci ha lasciato l'“Historia Mongalorum” compilata in due redazioni d'autore. La sua missione, però, non fu l'unica attivata da papa Innocenzo IV verso la Mongolia, perché ve ne furono altre due: la prima è quella di Lorenzo di Portogallo, la seconda è quella di Ezzelino, il quale partì da Costantinopoli nel 1247, toccando Tabriz e il Mar Caspio, per poi tornare a Lione un anno dopo.[9]
Le notizie su di lui dopo il viaggio in Tartaria sono poche: nel 1248 fu penitenziere pontificio, venne poi inviato in Francia da Luigi IX con l'intento di dissuaderlo dalla sua crociata in Terrasanta, per timore dell'imperatore Federico II. Probabilmente nello stesso anno venne nominato arcivescovo di Antivari; qui morì nell'agosto 1252, e in questa data le fonti sono concordi, visto che l'ultimo documento da lui firmato risale proprio al 29 luglio dello stesso anno.
Il titolo completo dell'opera è Historia Mongalorum quos nos Tartaros appellamus; è il racconto del viaggio compiuto da Giovanni di Pian del Carpine in Mongolia tra il 1245 e il 1247, per conto del papa Innocenzo IV. Si tratta di un testo prevalentemente etnografico, in cui sono descritti i Mongoli, le loro pratiche, le loro fattezze, gli usi e i costumi. L'Historia appartiene al genere dei resoconti di viaggio tipici del Duecento e del Trecento, come l'Itinerarium di Odorico di Pordenone, dettato al confratello Guglielmo da Solagna nel maggio del 1330, di ritorno dal lungo viaggio in Oriente e in Cina; l'Itinerarium di Guglielmo di Rubruck (XIII secolo), il Liber peregrinationis di Ricoldo di Montecroce (XIII secolo) e il Devisement dou monde di Marco Polo (XIII secolo).[10]
Un'attenta lettura di questi resoconti di viaggio permette di isolare alcuni elementi comuni:
1. Sono tutte il risultato delle esperienze accumulate dal viaggiatore nel corso delle sue peregrinazioni in terre remote.
2. Si presentano come veri.
3. Il protagonista e il narratore coincidono.
Questo ultimo elemento costituisce la necessaria premessa agli altri due: la garanzia che ciò che viene descritto corrisponde al vero è fornita dal fatto che chi lo racconta lo ha visto o udito direttamente da testimoni degni di fede. La coincidenza tra autore del libro e protagonista del viaggio fa sì che questo genere di opere si configuri necessariamente come autobiografico. Questa equazione ha delle conseguenze anche sulla forma narrativa del testo, in quanto implica molto spesso l'autodiegesi, cioè l'identificazione tra l'io narratore e l'io personaggio.[11] Il peso che la componente autobiografica ha all'interno varia da opera ad opera: in generale, le parti descrittivo-informative appaiono prevalenti, e nello specifico nell'opera di Giovanni di Pian del Carpine le notizie relative al percorso seguito sono relegate nel capitolo IX. Questa struttura risponde perfettamente all'intento dell'opera, cioè descrivere il viaggio, ma concentrandosi maggiormente sugli usi, costumi e abitudini dei Tartari e dei popoli nel loro impero. Infine, Pullè sottolinea come l'Historia si distacchi totalmente dal genere di resoconto di viaggio che racconta solo grandi memorabilia, in quanto all'autore preme raccontare fatti reali.Conserviamo due redazioni del testo: la prima consta di un altisonante prologo in cui Giovanni di Pian del Carpine rende esplicito l'obiettivo dell'opera, ovvero informare il popolo cristiano del pericolo dell'Impero Mongolo, attraverso la descrizione dei loro usi e costumi, molto diversi da quelli occidentali, ponendo l'accento sull'elemento distintivo di questa popolazione, gli Strategemata utilizzati in guerra. La seconda redazione, invece, è composta da un prologo, leggermente modificato rispetto al primo, e nove capitoli: l'assetto dei primi otto capitoli rimane pressoché invariato, tranne che per alcune piccole correzioni di refusi e alcune piccole modifiche testuali, ma la vera rivoluzione consiste nell'ultimo capitolo, in cui vengono rese note le tappe del viaggio, e i nomi delle persone ivi incontrate.
È il medesimo autore a rendere noto il labor limae a cui ha sottoposto la sua Historia:
Antequam esset completa et etiam plene contracta, quia neque tunc tempus habueramus quietis, ut eam possemus plene complere. (cap. IX, par. 53)
Questo scritto di natura etnografica ebbe notevole risonanza, anche perché venne ripreso a distanza di pochi anni da Vincenzo di Beauvais nello Speculum historiale, una delle enciclopedie più diffuse del Basso Medioevo. Il viaggio del frate minorita, però, è riportato da altri due documenti: il primo, conservato in due manoscritti, è una breve relazione che si dice ricavata dal racconto del francescano Benedetto Polono, che aveva preso parte alla missione di Giovanni di Pian del carpine. Questo testo, a noi noto come Relatio Benedicti, parla solo delle vicende di viaggio, senza soffermarsi sugli aspetti antropologici, ed è corredato da una versione latina della lettera-ultimatum inviata dal khan Guyuk al Pontefice, di cui il frate minorita fu latore. Il secondo, conservato in due codici, è un resoconto più ampio scritto da un frate boemo o polono, di cui conosciamo l'iniziale del nome, C, e il luoghi di provenienza, de Bridia: l'opera, che nei manoscritti è indicata col titolo di Historia Tartarorum, tratta solo degli aspetti etnografici, come la prima redazione dell'Historia Mongalorum di Giovanni, senza fornire dettagli sul viaggio.[12]
Ora resta da indagare in che rapporti siano le due redazioni del testo del frate minorita, la Relatio Benedicti e l'Historia Tartarorum del misterioso C. de Bridia.
Abbiamo detto che le due redazioni si distinguono fra loro per alcune modifiche al testo e per l'inserimento di un lungo capitolo finale dedicato alla narrazione del viaggio, da Lione alla corte del khan e il ritorno: è il nono capitolo, il più lungo del resoconto del frate. La ragione di questi cambiamenti è la seguente: nelle regioni dell'Europa Orientale e Centrale attraversate dai viaggiatori nel tornare a casa l'opera era stata messa in circolazione prematuramente, pertanto l'autore decise di pubblicarne una versione corretta e migliorata. Da una di queste Rescriptiones sembra essere nata l'Hystoria Tartarorum del misterioso C. de Bridia, alla base della quale vi è un resoconto scritto analogo alla prima redazione dell'Historia Mongalorum di Giovanni, che viene poi integrato con notizie apprese direttamente dai viaggiatori, in particolare da Benedetto Polono. Ad avvalorare questa ipotesi ci sono gli Annales del monastero di San Pantaleone a Colonia, in cui si dice che quando i due minoriti passarono per la città tedesca, proprio Benedetto Polono avrebbe raccontato della missione presso i Mongoli; queste notizie sarebbero state aggiunte ad un libellus specialis in cui i frati avevano posto le notizie da loro acquisite. Poiché si dichiara apertamente che il testo vergato in quell'occasione dipende da un racconto orale di frate Benedetto, si può pensare che esso corrisponda a quello che per noi oggi è la Relatio Benedicti. Il fatto che in questa Relatio si faccia esplicita menzione a Colonia come luogo di transito rafforza l'identificazione. L'ultima notizia contenuta, con l'arrivo a Lione e la consegna al Papa dell'ultimatum del khan, di eventi che sarebbero accaduti un mese più tardi, può essere o l'anticipazione di un fatto inevitabile, o una sistemazione eseguita a fatto compiuto. Da quel momento in poi un libellus specialis di contenuto analogo alla prima redazione dell'Historia Mongalorum si trovò a circolare con un testo, risalente a Benedetto, che raccontava il viaggio e la lettera di Guyuk. Sono state formulate varie ipotesi riguardo alla decisione di frate Giovanni di apporre delle modifiche al testo già in circolazione; una di queste è che abbia sentito l'esigenza di non essere associato alla Relatio Benedicti. In questo scenario, il resoconto di Benedetto, talvolta considerato una riscrittura modificata del IX capitolo dell'Historia Mongalorum, non una fonte, ma la ragion d'essere della stesura del capitolo finale, che andava a rimpiazzare un testo surrettizio che doveva essere eliminato. Questa ipotesi pare plausibile, tant'è vero che vi è un parallelismo di scrittura fra il dossier composto da Relatio Benedicti, la lettera di Guyuk, la prima redazione dell'Historia Mongalorum e l'opera finale. Il resoconto di Benedetto era la trascrizione non autorizzata di un racconto orale, dove potevano figurare errori o particolari non divulgabili; lo stile era modesto, non paragonabile all'intera opera. D'altra parte, però, la Relatio dava credibilità alle vicende e spessore umano ai viaggiatori. Senza contare che la lettera del khan costituiva un documento delicato sul piano diplomatico, vista la conclusione sfavorevole dell'ambasceria di Giovanni di Pian del Carpine. Ed è probabilmente per quest'ultima ragione che l'epistola-ultimatum al Papa Innocenzo IV non compare. L'autore si rese anche conto che ormai non era più possibile eliminare soltanto la Relatio, perché ormai una parte di pubblico la conosceva, pertanto egli si adoperò per stendere un nono capitolo in cui vengono nominati dei testimoni della sua ambasceria e un resoconto dettagliato dei luoghi attraversati e delle popolazioni incontrate, per dare più credibilità all'opera.
L'Historia è composta da un prologo lungo e magniloquente, in cui si rivolge ai Cristiani in qualità di destinatari dell'opera, ed è proprio qui che trova spazio la spiegazione della sua missione ufficiale per il Pontefice, compiuta grazie all'aiuto dell'interprete di lingue slave, Benedetto Polono. Lo scopo è quello di dare consigli alla popolazione cattolica per fronteggiare il pericolo mongolo.
La seconda redazione è poi divisa in nove capitoli, ognuno dei quali si apre con un breve sommario di ciò che verrà raccontato all'interno. I primi quattro capitoli sono di natura puramente descrittiva, dedicati, ad esempio, alla descrizione geografica dei territori tartari, delle popolazioni, della religione, delle credenze: i quattro successivi, invece, hanno un contenuto eminentemente politico; si parla di come i Mongoli abbiano costruito il loro impero, delle loro armi, delle genti sottomesse, con riferimenti precisi agli strategemata militari.
Capitolo 1: De terra Tartarorum et situ et qualitate ipsius et dispositione aeris in eadem.
Nel primo capitolo l'autore si sofferma sulla posizione del territorio dei Mongoli, che è posta dove l'Oriente sembra congiungersi a Settentrione, come ricorda Pullè, e la descrizione generale del territorio, che è per la maggior parte montagnoso, inadatto all'agricoltura, a meno che non ci siano canali di irrigazione creati dall'uomo atti a tal fine. Esistono pochissime città, per lo più sono piccole comunità e villaggi sparsi, molto distanziati l'uno dall'altro. Nonostante il terreno sia poco fertile, questo territorio è noto per l'allevamento di bestiame. In estate il clime è temperato, ma in inverno tirano venti gelidi, che nuociono soprattutto a chi cavalca. Le precipitazioni sono scarse in estate, ma in inverno la neve cade abbondante.
Capitolo 2: Forma personarum ab omnibus hominibus aliis est remota.
I Tartari hanno un viso particolare, in quanto i loro occhi sono molto distanziati tra loro, hanno poca peluria sulle guance e gli zigomi sono molto sporgenti. Essi sono molto magri e bassi di statura, con un taglio di capelli che ricorda la “corona” dei sacerdoti, con l'unica differenza che i gli uomini della Mongolia li hanno lunghi come una donna. È loro uso avere più mogli, quante ne possono mantenere, senza distinzione di caste sociali o di parentele, in quanto è permesso sposare una zia rimasta vedova o una cugina. Uomini e donne vestono alla stessa maniera: una tunica con un laccio in vita, una pelliccia per i mesi freddi, un berretto in testa. Le loro case sono di forma circolare, con una finestra accanto al camino per far uscire il fumo, ma sono costruite in modo tale da poter essere smontate in qualsiasi momento ed essere issate su un mulo da soma o un cavallo in caso di spostamenti rapidi o attacchi.
Capitolo 3: De cultu Dei, de hiis que credunt esse peccata, de divinationibus et purgationibus et ritu funeris.
Per quanto riguarda la religione, i Tartari credono in un Dio creatore di tutte le cose visibili e invisibili; essi costruiscono dei fantocci in stoffa che pongono davanti alla porta di casa a protezione delle abitazioni e nei pressi del loro bestiame a protezione delle mandrie. Adorano anche il sole, il fuoco e l'acqua. Non costringono gli stranieri a convertirsi alla loro religione. Le malefatte vengono punite a seconda di un uso consuetudinario che si trasmette oralmente, ad esempio l'omicidio non è considerato un peccato come presso i Cristiani. Credono che il fuoco purifichi ogni cosa, infatti ogni qual volta entra uno straniero o un ambasciatore con un dono per il sovrano, egli è costretto a passare con il suo dono su un sentiero ai cui lati si trovano delle torce ardenti. Quando uno di loro muore, innanzitutto deve lasciare questo mondo da solo, e poi viene seppellito insieme alla sua tenda, ai suoi tesori, a una giumenta e ad un cavallo da guerra; al suo fianco vengono posti un piatto di carne e latte. Esistono solo due cimiteri: uno per gli imperatori, i principi, i baroni e i capitani, l'altro per i morti in Ungheria.
Capitolo 4: De moribus bonis et malis, et consuetudinibus, et cibis eorum.
I Tartari obbediscono in tutto e per tutto al loro Signore; sono persone oneste, a tal punto che se trovano un cavallo che non è il loro lo riportano al legittimo proprietario. Resistono con stoicismo alle fatiche, specie alla mancanza di viveri, e durante la cavalcata non si lamentano mai del caldo, del freddo o del vento. Le donne sono caste e pudiche, ma hanno due grandi difetti: l'orgoglio e la superbia. L'ubriachezza è considerata una virtù, non un vizio. Mangiano carne di qualsiasi tipo: da quella equina, a quella dei cavalli e dei cani, e in caso di necessità anche quella umana. Durante i pasti non si servono di tovaglie o salviette; non hanno pane, ortaggi o legumi, ma bevono molto latte. Sono sporchi, infatti non lavano mai le loro vesti e dopo il pasto si puliscono le mani o sull'erba o sugli stivali. Gli uomini non si dedicano ad alcun lavoro, se non alla costruzione delle frecce, alla caccia e alla cura del bestiame. Tutti imparano a cavalcare a due o tre anni, non solo i maschi, ma anche le femmine, infatti le donne sanno cavalcare al pari degli uomini. Le donne si occupano di cucire vesti, pellicce e stivali per se stesse e per i familiari.
Capitolo 5: De principio Imperii Tartarorum et principum eorum, et dominio Imperatoris et principum eius.
La terra dei Mongoli si trova ad Oriente, ed è suddivisa tra quattro popolazioni che la abitano: il primo popolo è formato dagli Yekamongal, detti anche grandi Mongoli, il secondo è quello dei Sumongal, detti altresì Mongoli acquatici o Tartari, che devono il nome ad un fiume che attraversa il loro territorio, chiamato Tartur. I restanti due popoli sono i Merkit e i Mecrit.
Queste popolazioni abitano ognuna una zona del grande territorio dei Mongoli, ma hanno una lingua comune e formano un'unica entità. All'interno, ogni regione è suddivisa in province e ha i propri principi e sovrani.
Capitolo 6: De bello, et ordinatione acierum, et armis, et astuciis, et congregatione, et crudelitate captivorum, et oppugnatione munitionum, et perfida eorum in hiis qui se reddunt eisdem.
In caso di guerra, il comandante richiama le formazioni a schiera, la cui parte focale è quella dei decani. I guerrieri utilizzano come armi le frecce, le spade affilatissime e alcune volte con la lama ricurva. Qualsiasi disertore viene trucidato all'istante.
Capitolo 7: Quomodo faciunt hominibus pacem, et de terrarum nominibus quas subiugaverunt, et de tyrannide quam exercent in hominibus suis, et de terris que eis viriliter restiterunt.
Innanzitutto, per i Tartari la pace è contemplata solo in un caso, cioè quando sono loro a sottomettere un altro popolo. È proprio per questo motivo che molti popoli si recano da Kublai Khan a richiedere la pace, per paura di intavolare una guerra con un popolo così potente. Qualora poi, un popolo sottomesso non dovesse mantenere gli obblighi imposti dai trattati, l'ira dei Mongoli si abbatte su di loro attraverso una dichiarazione di guerra. Ne è un esempio il principe di Russia.
Capitolo 8: Quomodo bello Tartaris occurratur, et quid intendunt, et de armis et ordinatione acierum, et quomodo occurratur eorum astuciis in pugna, et munitione castrorum et civitatum, et quid faciendum est de captivis.
L'obiettivo dei Tartari è quello di sottomettere tutto il mondo, infatti Pullè scrive che in molte gesta mongole ritroviamo l'espressione “Dio in cielo e l'imperatore dei Tartari sulla Terra”. Ed è proprio in virtù di questo principio che i Tartari hanno dichiarato guerra al popolo cristiano, che viene da loro considerato come una popolazione subalterna da sottomettere in tutto e per tutto.
Capitolo 9: De provinciis et situ earum per quas transivmus, et de testibus qui nos invenerunt ibidem, et de curia Imperatoris Tartarorum et principum eius.
Questo capitolo è dedicato alla descrizione delle terre attraversate da frate Giovanni e dal suo compagno Benedetto. La loro prima tappa fu la Germania, dove dei servi attendevano l'autore e il suo compagno di viaggio Stefano di Boemia; poi partirono alla volta di Praga, alla corte del re Venceslao di Boemia, il quale consigliò loro quale fosse la via più veloce per giungere nelle terre dei Tartari: ovvero attraversare dapprima la Polonia e poi la Russia, con l'aiuto di alcuni membri della sua famiglia che abitavano quei luoghi. Grazie a loro è stato possibile entrare nei territori russi, in virtù di alcune lettere di raccomandazione. In seguito transitarono in Massovia, il cui Duca di Russia chiede informazioni sul loro viaggio e sulle motivazioni che spingevano i due viaggiatori a raggiungere la corte tartara; da lui appresero la consuetudine dei Mongoli per cui gli ambasciatori avrebbero dovuto porgere dei doni al sovrano. E per questo i due si arrangiarono, mettendo insieme le elemosine raccolte durante il viaggio, realizzando delle pellicce.
I codici principali usati per l'edizione critica sono:
S = Luxembourg, Bibliothèque Nationale, 110 IV, ff. 175r-187v, sec. XIII.
R = Wroclaw, Biblioteka Zakladu Narodowego im. Ossolinskich, Rkp. 2044/II, cartaceo, sec. XV, ff. 1r-21v.
O = Oxford, Bodleyan Library, Digby 11, membranaceo, sec. XIV, ff. 62v-69r.
V = Wien, Österreichische Nationalbibliothek, lat. 362, membranaceo, sec. XIV, ff. 27r-36r.
L = London, British Library, Royal 13.A.XIV, membranaceo, sec. XIV, ff. 198r-213r.
M = Metz, Bibliothèque Municipale, 651, membranaceo, sec. XV, ff. 110r-117v.
La seconda redazione è tradita dai seguenti manoscritti:
C = Cambridge, Corpus Christi College, 181, membranaceo, sec. XII ex., ff. 279-320 (i fogli sono numerati progressivamente recto e verso).
D = Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, 104, membranaceo, sec. XIV, ff. 144v-164r.
W = Wolfenbüttel, Herzog-August-Bibliothek, 41-Weiss. (4125), membranaceo, sec. XIV, ff. 236r-253r
T = Torino, Biblioteca Nazionale, lat. 1066, E.V.8 (L.IV.55), membranaceo, sec. XII/XIV, ff. 11rb-15rb.
Ci sono altri manoscritti che contengono l'opera di Giovanni di Pian del Carpine, che l'editore critico Menestò non è riuscito ad esaminare o lo ha ritenuto inutile:
1. Deventer, Athenäumbibliotheek, 339, sec. XV.
2. Hannover, Niedersächcische Landesbibliothek, 623, cart., sec. XVII.
3. Irkutsk, Universitetskaja Biblioteka, ms senza segnatura, sec. XIV.
4. Parigi, Bibliothèque National, Dupuy 686, cart., sec. XVII.
5. Tournay, Bibliothèque de l'Abbaye bènèdictine S. Martin, ms perduto.
6. Utrecht, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, 737, cart., sec. XV.
7. Wroclaw, Biblioteka Zakladu Narodowego im Ossolińskich, Rkp, 6237/II, sec. XIX.
La genealogia episcopale è:
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